Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24704 del 04/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 24704 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: FILABOZZI ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 19636-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, domiciliata in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’Avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega in
2013

atti;
– ricorrente –

2643

contro

CAPITUMMINO MICHELE, ELIOS CESARE, elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo

Data pubblicazione: 04/11/2013

studio

dell’avvocato

GALLEANO

SERGIO,

che

li

rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controri correnti –

avverso la sentenza n. 741/2007 della CORTE D’APPELLO
di PALERMO, depositata il 20/07/2007 R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/09/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
FILABOZZI;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega
GRANOZZI GAETANO;
udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per:
in via principale, rinvio alla Corte Costituzionale,
in subordine accoglimento per quanto di ragione.

1019/2005;

r.g. n. 19636/08
udienza del 19.9.2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Michele Capitummino e Elios Cesare hanno chiesto che fosse dichiarata la nullità del termine
apposto ai contratti di lavoro alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. per i periodi dal 3.10.2000 al

Il Tribunale di Termini Imerese ha rigettato la domanda di Michele Capitummino ed ha accolto
quella di Elios Cesare con sentenza che è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di
Palermo che, con sentenza pubblicata il 20.7.2007, ha accolto anche la domanda di Michele
Capitummino, dichiarando la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e l’esistenza tra le
parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 3.10.2000 e
condannando la società Poste Italiane al pagamento delle retribuzioni maturate a far data dal
31.12.2002 (data della costituzione in mora) sino all’effettiva riammissione in servizio. A tale
conclusione la Corte territoriale è pervenuta considerando che il contratto era stato stipulato in forza
dell’art. 8 del CCNL Poste 26.11.94, come integrato dall’accordo 25.9.97, per esigenze eccezionali
connesse alla fase di ristrutturazione dell’azienda e rilevando che le assunzioni per tale causale
erano ammesse fino al 30.4.98 – data fissata dalle parti collettive con accordo integrativo 16.1.98 di modo che per quelle in questione, relative ai periodi 3.10.2000-31.1.2001 e 2.10.2000-31.1.2001,
il termine doveva ritenersi illegittimamente apposto.
Avverso questa sentenza Poste Italiane propone ricorso per cassazione affidato a otto motivi.
Michele Capitummino e Elios Cesare resistono con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo si deduce la violazione degli artt. 1372, 1175, 1375 e 2697 c.c. per avere il
giudice d’appello rigettato l’eccezione di inammissibilità della domanda per intervenuta risoluzione
consensuale del rapporto, resa palese dal contegno di prolungata e ininterrotta inerzia assunto dai
lavoratori dopo la scadenza del contratto a termine.
2.- Con il secondo ed il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 101, 112, 116 e 414 c.p.c.,
nonché vizio di motivazione, per avere il giudice ritenuto quale fatto idoneo a giustificare l’inerzia
1

31.1.2001 (il primo) e dal 2.10.2000 al 31.1.2001 (il secondo).

tenuta dai lavoratori la conoscenza di atti o documenti aziendali inesistenti agli atti di causa,
mancando comunque la prova della conoscenza, da parte dei lavoratori, del contenuto del
documento (indicato in sentenza come una circolare aziendale) e del tempo della conoscenza
medesima.
3.- Con il quarto ed il quinto motivo si denuncia violazione dell’art. 23 della 1. n. 56/87, dell’art. 8
del c.c.n.l. 26.11.94, degli accordi sindacali del 25.9.97, del 16.1.1998, del 27.4.1998, del 2.7.1998,
del 24.5.1999 e del 18.1.2001 in connessione con gli artt. 1362 e ss. c.c., nonché vizio di

con particolare riguardo al potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di
individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle stabilite dall’ordinamento,
che, secondo l’assunto, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun
limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c.d. attuativi del contratto del
25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle
esigenze sottese alla necessità di stipulare ulteriori contratti a termine.
4.- Con il sesto motivo, denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099
c.c., la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nella “violazione dei principi e
delle norme di legge sulla messa in mora e sulla corrispettività delle prestazioni”, in particolare in
quanto la Corte territoriale “ha considerato quale preteso atto di messa in mora della società la
notifica della richiesta di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione” che “non concreta
alcuna offerta della prestazione di lavoro”. Al riguardo, la ricorrente formula, ex art. 366 bis c.p.c.,
il seguente quesito di diritto: “se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto
al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia
costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto
della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. c.c.”.

motivazione, contestandosi l’interpretazione data alla contrattazione collettiva dal giudice di merito,

5.- Con il settimo motivo si deduce il vizio di contraddittoria motivazione relativamente al punto
della sentenza con cui è stata rigettata l’eccezione del c.d. aliunde perceptum pur a fronte della
richiesta formulata dalla società di acquisizione di informazioni ex art. 213 c.p.c. presso l’UPLMO e
la locale sede INPS.
6.- Con l’ottavo motivo si denuncia violazione degli arti. 1218, 1219, 1223, 1227, 2099 e 2697 c.c.,
sostenendo che il risarcimento del danno avrebbe dovuto essere proporzionalmente ridotto in
considerazione dell’ aliunde perceptum e dell’eventuale inerzia dei lavoratori nella ricerca di una
nuova occupazione. Al riguardo, viene formulato il seguente quesito di diritto: “se nel caso di
accertamento della pretesa illegittimità del termine apposto al contratto di assunzione, il
2

Re

risarcimento del preteso danno derivante dalla perdita della retribuzione debba in ogni caso essere
quantificato considerando l’aliunde perceptum, ovvero – ai sensi dell’art. 1227 c.c. – il concorso
colposo del lavoratore che abbia omesso di ricercare una diversa occupazione”.
7.- Quanto al primo motivo (risoluzione per mutuo consenso), la giurisprudenza della Corte di
cassazione (cfr ex plurimis Cass. n. 16932/2011, Cass. n. 23872/2009, Cass. n. 26935/2008, Cass. n.
20390/2007, Cass. n. 23554/2004) ha ritenuto che “nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul

configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché,
alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali
circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del
complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono
censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto”.
La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sé
insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (vedi, tra le
altre, Cass. n. 5887/2011, Cass. n. 23057/2010), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e
certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (cfr. ex plurimis
Cass. n. 2279/2010).
8.- Nel caso in esame, la Corte d’appello ha rilevato che la società aveva omesso di fornire
elementi utili ai fini di una ricostruzione della vicenda in termini di risoluzione per mutuo consenso
del rapporto di lavoro e che, sulla base degli elementi acquisiti agli atti, non poteva ritenersi provato
che l’inerzia dei lavoratori dopo la scadenza del contratto a termine fosse ascrivibile ad un loro
disinteresse per la prosecuzione del rapporto, ovvero ad acquiescenza alla risoluzione dello stesso,
non essendo sufficiente, a tal fine, la circostanza che entrambi i lavoratori avessero atteso un
rilevante periodo di tempo prima di intraprendere l’azione giudiziaria, ben potendo l’attesa trovare
giustificazione in una “fiduciosa aspettativa di essere integrati a tempo pieno nell’organico
dell’azienda o, quanto meno, di essere nuovamente destinatari di un altro contratto a termine”,
evenienza quest’ultima cui la società appellata aveva “fatto ricorso in varie occasioni”. Si tratta di
considerazioni di merito congruamente motivate, come tali non censurabili sul piano logico, che
resistono, dunque, alle censure che ad esse vengono mosse in questa sede di legittimità.

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presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale scaduto) per la

9.- Le censure formulate con il secondo e con il terzo motivo in ordine alla valutazione di una
circolare aziendale, che non sarebbe mai stata citata né allegata dalle controparti, investono una
argomentazione svolta dalla Corte di merito ad abundantiam (“non va poi trascurato l’ulteriore
elemento … che comprova come l’apparente inerzia dei ricorrenti fosse dettata da un cauto
comportamento volto a non pregiudicare irrimediabilmente una loro futura riassunzione”) e
risultano, quindi, inammissibili (cfr. Cass. n. 7074/2006, Cass. n. 24951/2005).
10.- Il quarto e il quinto motivo contrastano con la giurisprudenza di questa Corte e non offrono

I l.- Va rilevato, al riguardo, che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione
che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali …

ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al
30 aprile 1998. Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da
questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al d.lgs. n. 368
del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine
apposto ai contratti de quibus.
Questa Corte ha, infatti, affermato, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, che
“l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di
definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962,
discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle
necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i
loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere
a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità
di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti
temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo

elementi per mutare gli orientamenti interpretativi che in materia si sono ormai consolidati.

determinato” (cfr. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063; cfr. altresì Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7
marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in
bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma
dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel
sistema da questa delineato.” (cfr., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006
n. 18378); in tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto
dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza
determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n.
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ti

18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866); in particolare, quindi, come
questa Corte ha univocamente affermato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali,
con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre
1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione
giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti
occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve

presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti in contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230”
(v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 gennaio 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008
n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
12.- Tale interpretazione degli accordi attuativi (e in particolare dell’ultimo citato) è fondata sul
significato letterale delle espressioni usate, che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e
per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario
con contratto a tempo determinato fino al 30.4.98”) che non necessita di un più diffuso
ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr ex plurimis Cass. n.
12245/2003, Cass. n. 12453/2003), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che la parti non
abbiano inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi
attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente
Cass. n. 2866/2004).
13.- Peraltro, al riguardo deve ritenersi irrilevante l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla
società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti,
ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi
precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura
dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata
l’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovrebbe comunque escludersi che le
parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto
solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del d.lgs. n. 165 del 2001), di
autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
durata in precedenza stabilita (cfr. ex plurimis Cass. n. 5141/2004).
14.- In applicazione di tali principi, vanno quindi respinti anche il quarto e il quinto motivo,
considerati unitariamente.

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escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del

15.- I motivi dal sesto all’ottavo devono ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti
prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
16.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le
sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n.
40/2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1),
2), 3) e 4) c.p.c., l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con

lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto
asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la
regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve
contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la
sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto
che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie; ove tale articolazione
logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio,
inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga
affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in
funzione nomofilattica (Cass. sez. unite n. 27368/2009). Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve
essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad
apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a
consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’ accoglimento o il rigetto del motivo al
quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010). Ne consegue che è inammissibile non solo il
ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo
inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo
implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia
formulato in modo del tutto generico (Cass. sez. unite n. 20360/2007).
17.- Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360, primo comma, n. 5
c.p.c.), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la “chiara indicazione
del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria,
ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a
giustificare la decisione”. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un
momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in
maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua
ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o
che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una
6

la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla

parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex
plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n.
8897/2008, Cass. n. 16002/2007).
18.- Nella fattispecie in esame i quesiti formulati dalla ricorrente (in calce all’esposizione
contenuta nel sesto e nell’ottavo motivo) risultano del tutto astratti e privi di qualsiasi riferimento
alla fattispecie concreta, risolvendosi, in sostanza, nella mera enunciazione astratta del principio
invocato dalla società, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto rispetto ad esso del

19.- Peraltro, neppure può ignorarsi che, nella fattispecie, anche l’esposizione del sesto e
dell’ottavo motivo (con i quali vengono denunciate violazioni di norme di diritto) risulta del tutto
generica e priva di autosufficienza. In particolare, la ricorrente contesta (con il sesto motivo) che la
richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione contenesse una messa in mora – laddove la
sentenza impugnata ha ravvisato in tale atto una “offerta delle prestazioni lavorative” da parte del
lavoratore – senza tuttavia riportare nel ricorso per cassazione il contenuto di tale richiesta e senza
indicare i criteri ermeneutici in base ai quali dovrebbe attribuirsi al medesimo atto una valenza
diversa da quella ritenuta dalla Corte territoriale. Anche con riguardo all’aliunde perceptum,
oggetto delle censure espresse nell’ottavo motivo, vengono inammissibilmente reiterati gli assunti
già motivatamente disattesi dalla sentenza impugnata, senza il corredo di specifiche argomentazioni
giuridiche idonee a contrastare quelle poste dalla Corte territoriale a fondamento del decisum sul
punto. Né può trascurarsi di considerare che la richiesta di tener conto, senza alcuna altra
specificazione, dell’aliunde perceptum e della “eventuale” inerzia dei lavoratori nella ricerca di
un’altra occupazione, lungi evidentemente dal configurare una valida censura, costituisce, al
contrario, ulteriore riscontro dell’esattezza dei rilievi svolti nella sentenza impugnata circa la
genericità dell’allegazione dell’aliunde perceptum e della natura meramente esplorativa delle
richieste istruttorie formulate, al riguardo, dalla società appellante.
20.- Del pari inammissibile è il settimo motivo con il quale la ricorrente si duole ancora una volta
della statuizione di rigetto dell’eccezione relativa all’aliundeperceptum, sotto il profilo ulteriore del
vizio di motivazione. Anche tale censura è, infatti, del tutto generica e priva di autosufficienza per
come evidenziato al punto che precede. E tutto ciò a prescindere dalla pur di per sé assorbente
considerazione che, in ordine al dedotto vizio motivazionale, non è stato formulato il prescritto
momento di sintesi ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., né sono state spiegate in alcun modo le ragioni
per cui la motivazione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che l’allegazione dell’aliunde
perceptum fosse del tutto generica e che le richieste istruttorie formulate dalla società avessero
natura meramente esplorativa, debba ritenersi una motivazione “contraddittoria”.
7

concreto accertamento operato dai giudici di merito, e devono pertanto ritenersi inammissibili.

21.- Così risultati inammissibili il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, riguardanti le conseguenze
economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente
giudizio lo ius superveniens rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre
2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
22.- In ordine alla problematica relativa alla possibilità di applicare nel giudizio di legittimità i
nuovi criteri di determinazione del danno introdotti dalle disposizioni sopra citate, va premesso, in
via di principio, che, come già ripetutamente affermato da questa corte (cfr. ex plurimis Cass. n.

superveniens, che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto
controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto
di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n.
4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche
indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì
ammissibile secondo la disciplina sua propria (cfr. ex plurimis Cass. n. 4 gennaio 2011 n. 80, Cass.
26 luglio 2011 n. 16266), condizione che non si riscontra nella fattispecie in esame.
23.- Il ricorso deve essere pertanto respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate facendo
riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in
vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m. cit.).

P .Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio
liquidate in € 100,00 oltre € 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 settembre 2013.

6638/2011), costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius

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