Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 247 del 10/01/2017

Cassazione civile, sez. III, 10/01/2017, (ud. 25/10/2016, dep.10/01/2017),  n. 247

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi 4351-2014 e 21756-2014 proposti da:

B.G.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIACOMO

BONI 15, presso lo studio dell’avvocato ELENA SAMBATARO,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI LENTINI giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONCILIAZIONE,

44, presso lo studio dell’avvocato CARLA SILVESTRI, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale del Dott. Notaio

G.T. in (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 708/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO

depositata il 12/07/2007;

avverso la sentenza n. 957/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO

depositata il 05/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato CARLA SILVESTRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità entrambi

i ricorsi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 12.7.2007 n. 708 ha confermato la decisione di prime cure che aveva rigettato, per insufficienza probatoria, la pretesa risarcitoria formulata nei confronti di SAI s.p.a., quale impresa designata in nome e per conto del FGVS, da B.G.F. la quale aveva subito lesioni personali in conseguenza del sinistro stradale verificatosi il (OMISSIS) a causa di autoveicolo il cui conducente era rimasto ignoto e che non aveva rispettato l’obbligo di precedenza in presenza di incrocio.

Il Giudice di appello rilevava che la vittima, pur rimasta cosciente a seguito dell’incidente, non aveva indicato alcun elemento utile a sostegno del coinvolgimento di altro autoveicolo nel sinistro ed i testi escussi non avevano assistito all’incidente, nè avevano udito rumori riconducibili ad un autoveicolo, mentre il fratello della vittima coinvolto anch’egli nel sinistro quale trasportato- doveva ritenersi incapace a testimoniare e, comunque, scarsamente affidabile in considerazione degli stretti legami di parentela con la Bono. Quanto alle altre risultanze istruttorie, la danneggiata non aveva prodotto i referti di Pronto soccorso, e neppure documentazione fotografica idonea a verificare la esistenza e la compatibilità dei danni riportati dal ciclomotore dalla stessa condotto, mentre le conclusioni della c.t.u. medico-legale deponevano per la coerenza delle lesioni personali riportate dalla vittima anche con una caduta accidentale del mezzo.

Avverso tale sentenza non notificata la B. ha proposto ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Sospesa con ordinanza in data 20.6.2008 la decorrenza del termine per la impugnazione per cassazione, la Corte d’appello di Palermo, con sentenza in data 5.6.2013 n. 957, ha dichiarato inammissibile il ricorso in revocazione, sia in relazione al preteso errore di fatto, rilevando che la omessa rilevazione da parte del Giudice di merito della esistenza in atti del referto di Pronto Soccorso del presidio sanitario di (OMISSIS) – presso il quale era stata condotta la B. dopo l’incidente – non aveva determinato alcun errore percettivo su un fatto decisivo, nulla emergendo da tale documento circa la dinamica del sinistro; sia in relazione alla sopravvenuta scoperta di nuovi documenti decisivi, essendo la Bono decaduta dal termine ex art. 325 c.p.c. e ex art. 326 c.p.c., comma 1, non avendo dimostrato che la scoperta dei documenti era stata possibile soltanto in data 3.10.2007 e comunque, avuto riguardo al tale data, essendo stato notificato tardivamente il ricorso per revocazione in data 11.2.2008.

In conseguenza, B.G.F. ha proposto ricorso in cassazione avverso entrambe le sentenze di appello, con atti notificati ad UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a., rispettivamente, in data 21.7.2014 (impugnazione, affidata a tre motivi, della decisione n. 957/2013 emessa nel giudizio di revocazione) ed in data 10.2.2014 (impugnazione, affidata a sei motivi, della decisione n. 708/2007 emessa nel giudizio risarcitorio), iscritti al Registro Generale della Cancelleria di questa Corte ai nn. 21756/2014 (giudizio revocatorio) e 4351/2014 (giudizio risarcitorio).

Resiste in entrambi i giudizi UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a. con controricorso illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I giudizi pendenti avanti questa Corte debbono essere riuniti, in applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c., attesa la relazione di pregiudizialità-dipendenza tra il ricorso per cassazione avverso la decisione di appello emessa nel giudizio di revocazione ed il ricorso per cassazione avverso la decisione di appello emessa nel giudizio di risarcimento del danno, posto che l’eventuale accoglimento del primo ricorso viene ad incidere sullo stesso oggetto del secondo, che verrebbe meno in caso di pronuncia rescindente, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di merito non più esistente (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 25376 del 29/11/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 23445 del 04/11/2014)

A) Ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello n. 957/2013 – causa iscritta al n. RG 21756/2014

Il primo motivo con il quale si censura la statuizione di inammissibilità della impugnazione revocatoria ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), per essere stato notificato il ricorso oltre il termine di decadenza, in relazione alla illegittimità costituzionale dell’art. 325 c.p.c., comma 1 e art. 326 c.p.c., comma 1, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., in quanto il termine di giorni trenta per proporre la impugnazione dalla scoperta dei documenti decisivi sarebbe troppo ristretto per il revocante che non sarebbe in grado di apprestare una efficace difesa in giudizio, deve ritenersi manifestamente infondato.

I termini per impugnare l’assetto del regolamento degli interessi in conflitto statuito in un provvedimento destinato ex lege ad assumere carattere di stabilità sono determinati dalla legge in funzione della prevalente esigenza di garanzia della certezza dei rapporti giuridici e della sicurezza dei traffici negoziali, e dunque in funzione di interessi pubblici fondamentali dell’ordinamento giuridico.

L’ordinamento giuridico pone, infatti, un limite temporale massimo per l’esercizio del potere di impugnazione (attualmente ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza), stabilito nel termine cd. lungo ex art. 327 c.p.c., oltre il quale prevale l’interesse pubblico al conseguimento della efficacia di giudicato formale (art. 324 c.p.c.), mentre favorisce la anticipata realizzazione della incontestabilità del rapporto giuridico accertato in sentenza, rimettendo alle parti la scelta di ridurre i tempi di formazione della cosa giudicata attraverso un meccanismo di interlocuzione per cui la parte interessata provvede a notificare la sentenza imponendo in tal modo alla parte destinataria di manifestare espressamente, entro il termine breve, decorrente dalla notifica della sentenza (art. 325 c.p.c.), la proprio volontà impugnatoria, in difetto della quale la sentenza acquista efficacia di giudicato.

Il Legislatore ha piena discrezionalità nel definire la disciplina dei termini processuali per la proposizione dei mezzi di impugnazione (cfr. Corte cost. sentenza n. 134/1985), fatto salvo il limite:

della manifesta sproporzione od irragionevolezza del termine (art. 3 Cost.), venendo a tal fine in considerazione la specifica disciplina normativa del mezzo di impugnazione ed in particolare i tempi ritenuti adeguati al tipo di attività che si richiede di compiere alla parte (che, ad esempio, se contumace o costituita personalmente, si esaurisce nel portare a conoscenza del legale il provvedimento da impugnare), nonchè alle attività processuali, connesse alla modalità procedimentali di presentazione della impugnazione, che il professionista legale, incaricato dalla parte, è tenuto a svolgere secondo lo specifico grado diligenza richiesto;

– della previsione di modalità tali da impedire o gravemente ostacolare l’effettivo esercizio del diritto di difesa, non potendo essere stabiliti termini talmente brevi da impedirne o rendere eccessivamente difficoltoso l’esercizio (art. 24 Cost., comma 1).

Quanto al primo profilo, non può ritenersi manifestamente irragionevole la scelta del Legislatore di ricollegare la decorrenza del termine di impugnazione alla conoscenza o conoscibilità legale che la parte ha del vizio del provvedimento ad essa sfavorevole, in quanto soltanto da tale momento si rende attuale l’esperibilità del mezzo di impugnazione.

Il “dies a quo” di decorrenza del termine di impugnazione non può, evidentemente, coincidere con quello di conoscenza o conoscibilità legale della sentenza, nei casi in cui il vizio censurabile con il mezzo di impugnazione non emerga direttamente dal provvedimento (pubblicato ed eventualmente notificato), ma insorga solo successivamente, in conseguenza della sopravvenuta conoscenza di fatti che – ove conosciuti al tempo della pronuncia – avrebbero inciso in modo decisivo, modificandolo, sul contenuto del regolamento di interessi statuito nella sentenza, come per l’appunto nel caso dei mezzi di impugnazione cd. straordinari, per cui l’interesse ad impugnare non insorge dal controllo intrinseco della sentenza, ma da un evento futuro ed incerto verificatosi dopo la formazione del giudicato: in tale ipotesi è apparso congruo al Legislatore far decorrere il termine di impugnazione, per quanto in particolare concerne il mezzo revocatorio straordinario ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), dal momento del rinvenimento di documenti decisivi che non era stato possibile produrre (vale osservare che l’osservanza del termine di impugnazione non esaurisca le condizioni di ammissibilità del mezzo di impugnazione revocatorio, strutturato in modo da derogare in via eccezionale al principio di immodificabilità della “res judicata”, richiedendosi in particolare che la ignoranza dei documenti al tempo del processo, non sia da ascrivere a fatto imputabile alla stessa parte).

Tanto premesso, la censura della ricorrente secondo cui il termine di giorni trenta dalla scoperta dei documenti, ex art. 326 c.p.c., comma 1, sarebbe “troppo breve” per apprestare una effettiva difesa e per consentire la predisposizione del ricorso, è priva di supporto argomentativo, in quanto non indica il “tertium comparationis” alla stregua del quale viene espresso il giudizio di inadeguatezza-irragionevolezza del termine stabilito dalla legge: tanto in riferimento alla circostanza che l’evento sopravvenuto (scoperta del documento) si verifica nei confronti della parte (e non del difensore), quanto in relazione al tempo concesso alla parte per determinarsi in ordine alla impugnazione.

Ed infatti la conoscibilità del momento di decorrenza di un termine fissato per la proponibilità di un’azione giudiziaria, al fine di assicurarne all’interessato l’utilizzazione nella sua interezza, è assicurata dalla stessa norma processuale, che non presenta disposizioni equivoche al riguardo (tanto più che la costante interpretazione giurisprudenziale della norma di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo cui il termine decorre, non dalla materiale apprensione del documento, ma dalla effettiva apprezzabilità del suo contenuto, viene a tutelare adeguatamente l’interesse della parte che agisce in revocazione), non essendo invocabile, come sembra ipotizzare l’attuale ricorrente, la mera “ignorantia legis” (sia pure processuale) del “quivis de populo” in ordine al meccanismo processuale del mezzo di impugnazione straordinaria per qualificare inidoneo il termine di decadenza fissato dalla legge.

Al riguardo si osserva che per costante giurisprudenza della Corte costituzionale “la congruità di un termine deve essere valutata tanto in rapporto all’interesse del soggetto che ha l’onere di compiere un certo atto per salvaguardare i propri diritti, quanto in rapporto alla funzione assegnata all’istituto nel sistema dell’intero ordinamento, sì che la lesione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, si ha solo quando l’irrazionalità del termine di preclusione o di decadenza renda meramente apparente o estremamente difficile la possibilità del suo esercizio (sentenze nn. 10 del 1970,11 del 1971,114 del 1972 e 85 del 1973)…” (cfr. Corte cost., sentenza n. 138/1985), e nel caso di specie l’unica attività richiesta alla parte, una volta verificatosi l’evento conoscitivo del documento decisivo, è quella di rivolgersi al legale che potrà fornirle le informazioni utili a decidere la iniziativa da intraprendere, attività che non può ritenersi manifestamente irragionevole ed eccessivamente gravosa. Ed infatti la condotta della parte “sprovveduta od ignara (della esistenza di termini di decadenza previsti per la impugnazione)” tale per cui, pur essendo a conoscenza della sentenza a lei sfavorevole e pur avendo continuato a ricercare, dopo il passaggio giudicato della stessa, prove idonee a confutarne l’arresto, omette del tutto di compiere l’unica attività alla stessa richiesta, richiedendo la consulenza e l’assistenza di un avvocato, non può all’evidenza supportare la paventata lesione costituzionale del diritto difesa (l’incongruità del termine sotto l’aspetto della sua irragionevolezza può ammettersi solo quando esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e di conseguenza inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso: tale aspetto non viene affatto sviluppato nel motivo di ricorso che si limita alla anapodittica affermazione della eccessiva brevità rispetto al termine lungo previsto per le altre impugnazioni ordinarie), essendo appena il caso di rilevare come il punto di equilibrio tra l’utilizzo dei mezzi di impugnazione straordinaria – volti a rimettere in discussione l’accertamento compiuto in sentenza, anche se divenuto irrevocabile – e la ragionevole durata del processo, concerna una valutazione rimessa alla esclusiva competenza ed alla piena discrezionalità del Legislatore, con la conseguenza che in difetto di una conclamata e manifesta irragionevolezza, qualsiasi ulteriore valutazione circa la opportunità della previsione di una maggiore durata del termine non può costituire oggetto di sindacato giurisdizionale.

La questione di legittimità costituzionale deve ritenersi manifestamente infondata anche in relazione alla diversa disciplina prevista dal Legislatore per i termini delle impugnazioni revocatorie ordinarie, cui trova applicazione il termine lungo ex art. 327 c.p.c., e delle impugnazioni revocatorie straordinarie, cui detto termine non si applica.

L’argomento è inconferente in quanto: a) il termine lungo ex art. 327 c.p.c. implica l’attuale possibilità di impedire, con la impugnazione ordinaria, che il regolamento di interessi definito con la sentenza possa divenire irrevocabile, mentre tale funzione non può riconoscersi ai mezzi di impugnazione straordinaria, esperibili appunto in via del tutto eccezionale nei confronti di una sentenza che ha ormai acquistato la efficacia di giudicato; b) i mezzi di impugnazione ordinaria possono esperirsi in base alla sola conoscenza della sentenza (in quanto rivolti a censurare vizi direttamente rilevabili dal provvedimento), e dunque appare logicamente coerente stabilire il “dies a quo” di decorrenza del termine di decadenza dalla conoscenza legale della sentenza o dalla scadenza del termine ultimo accordato dall’ordinamento; i mezzi di impugnazione straordinari correlano, invece, l’interesse della parte alla contestazione della sentenza ad un evento estraneo, che prescinde dalla conoscenza legale di quest’ultima, ed il cui accadimento -rendendo attuale tale interesse – è assunto, pertanto, quale momento di decorrenza del termine di decadenza. Gli elementi distintivi evidenziati, non consentono quindi di ravvisare la identità di situazioni che renderebbe ingiustificata la diversa disciplina dei termini processuali, dovendo ulteriormente considerarsi che spetta in via esclusiva al Legislatore individuare il punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di concedere alla parte gli strumenti di difesa volti a correggere la ingiustizia della sentenza, anche se divenuta irrevocabile, e di assicurare al processo una ragionevole durata attraverso la previsione di termini perentori “bene costituzionale della ragionevole durata del processo, che è preordinato a garantire la stabilità delle situazioni giuridiche, e che, già implicito nell’art. 24 Cost., è ora oggetto di specifica enunciazione nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., sulla scia dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (cfr. Corte cost. ord. n. 305/2001), non essendo desumibile dalla peculiare struttura del rimedio impugnatorio straordinario, che lo stesso possa essere del tutto svincolato da qualsiasi limite temporale, rispetto al momento della conoscenza della causa posta a fondamento della impugnazione straordinaria, in quanto in tal modo “si introdurrebbe un elemento di ingiustificata eccentricità nel sistema delle impugnazioni” (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 9826 del 24/04/2009).

Il secondo motivo (violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) con il quale si censura la statuizione di inammissibilità del ricorso revocatorio ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), per omessa dimostrazione della non imputabilità della mancata conoscenza e produzione, nel corso del giudizio di merito, dei documenti scoperti successivamente, è infondato.

Assume la ricorrente che la prova della impossibilità ad acquisire i documenti concernenti gli atti delle indagini preliminari seguite alla presentazione della querela contro ignoti, nonchè della richiesta e del decreto di archiviazione depositato nell’anno 1992, era stata fornita per presunzione semplice ex art. 2727 c.c..

La circostanza della minore età della B. sia al tempo del sinistro che al tempo della chiusura delle indagini penali, nonchè la mancata comunicazione della richiesta e del decreto di archiviazione emesso nel procedimento penale, non forniscono elementi indiziari idonei a costituire la premessa dello schema legale della prova presuntiva, non essendo stata neppure allegata dalla ricorrente, nella esposizione della censura, quale sia la capacità significante di tali fatti, e cioè in che modo gli stessi appaiano univocamente convergenti a produrre, mediante un’operazione inferenziale logica di tipo induttivo, la conoscenza del fatto ignorato. Ed infatti: la minore età della vittima, non esclude che al tempo dei fatti, per essa agisse o dovesse agire il genitore quale rappresentante legale, che risulta per l’appunto avere presentato la querela contro ignoti in data 5.11.1991, mentre dalla omessa comunicazione dell’esito delle indagini penali può al più inferirsi che – in difetto di iniziative assunte dalla interessata – la B. non abbia avuto conoscenza “aliunde” di tali documenti, fatto del tutto inconferente ad assolvere alla prova richiesta al revocante, in quanto evidentemente diverso dalla “oggettiva impossibilità” di pervenire – attraverso un diretto interessamento ed alla propria iniziativa – alla conoscenza ed alla acquisizione dei predetti documenti, tanto più considerando che il querelante ed il danneggiato da reato non incontrano limiti di accessibilità ad atti che li riguardano, che l’attestato di chiusa inchiesta ed la copia del decreto di archiviazione possono essere rilasciati dall’Ufficio competente ad istanza dell’interessato, che l’inerzia della condotta della minore si è protratta anche dopo il raggiungimento della maggiore età, e che la disposizione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo applicabile “ratione temporis” consentisse alla parte di depositare anche in grado di appello i documenti non prodotti in primo grado per causa ad essa non imputabile.

Va dunque esente da critica la statuizione della Corte d’appello che ha ravvisato la insussistenza della prova della mancata conoscenza dei documenti relativi alle indagini penali, per fatto non imputabile alla parte.

Il terzo motivo (violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è inammissibile.

La ricorrente censura la sentenza di appello in quanto con il ricorso per revocazione era stato denunciato anche l’errore percettivo commesso dal Giudice di merito che, nella decisione n. 708/2007, aveva erroneamente affermato, a sostegno della mancata prova della dinamica del sinistro, che “non era stata presentata querela agli organi di PG”, mentre tale documento all. 8 al fascicolo di parte, risultava acquisito agli atti del giudizio di secondo grado (cfr. ricorso per cassazione pag. 20).

Il motivo è inammissibile:

per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., commi 4 e 6, non risultando evincibile in modo chiaro dalla esposizione argomentativa se il fatto, la cui esistenza era stata negata dal Giudice di merito e la cui verità risultava, invece, incontestabilmente dagli atti del processo, debba essere individuato nella presentazione della querela alla PG, ovvero invece nella dinamica del sinistro descritta in tale atto – del quale viene omessa la trascrizione del contenuto -, rimanendo impedito, in quest’ultimo caso, alla Corte di verificare la decisività del documento, non essendo dato stabilire se la decisione della causa sarebbe dovuta essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità logico-giuridica (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3935 del 18/02/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 6038 del 29/03/2016) per erronea indicazione del paradigma normativo del vizio di legittimità che si intende far valere, atteso che la ricorrente viene a censurare un “errore di fatto” (deducibile nei soli limiti consentiti dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 conv. in L. n. 134 del 2012) per denunciare, invece, un vizio processuale per “omissione di pronuncia” su uno specifico motivo di gravame, riconducibile al diverso parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Il motivo sarebbe peraltro anche infondato insussistendo il denunciato errore revocatorio: ed infatti la Corte d’appello, nella sentenza n. 708/2007, non ha affatto negato che la querela sia stata effettivamente presentata (cfr. sentenza n. 708/2007, in motivazione, pag. 4, 17-18); al contrario, ha espressamente riconosciuto la esistenza di tale fatto, ritenendolo tuttavia insufficiente a fornire elementi indiziari utili a chiarire la dinamica del sinistro, in assenza di altri elementi informativi – che la B. avrebbe dovuto e potuto acquisire – in ordine all’esito delle indagini penali.

Il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo n. 957/2013 deve pertanto essere rigettato.

B) Ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello n. 708/2007 – causa iscritta al n. RG 4351/2014.

Il ricorso per cassazione è inammissibile in quanto notificato oltre il termine di decadenza previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2 e comunque per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., non essendo stato corredato dei quesiti di diritto, trovando applicazione la norma processuale alle sentenze pubblicate in data successiva al 2.3.2006 ed anteriore al 4.7.2009 (abrogazione della norma ad opera della L. n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d)).

Risulta dagli atti di causa che avverso la sentenza pubblicata in data 12.7.2007 n. 708, la B. aveva proposto ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 con atto notificato in data 11.2.2008 instando per la sospensione del termine per la proposizione del ricorso per cassazione avverso la medesima sentenza, che veniva concessa con ordinanza in data 20.6.2008 del Giudice della fase rescindente.

Orbene la notificazione della citazione per la revocazione di una sentenza di appello equivale, per la parte notificante, alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1196 del 20/01/2006; id.. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 19/06/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 16207 del 23/07/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 20812 del 29/09/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 7261 del 22/03/2013), sicchè il computo del termine breve di giorni sessanta ex art. 325 c.p.c., comma 2, decorrente dalla data di notifica del ricorso per revocazione, era venuto a scadere in data 11.4.2008 ben prima del provvedimento di sospensione ex art. 398 c.p.c., comma 4, dovendo in conseguenza dichiararsi inammissibile il ricorso per cassazione notificato tardivamente soltanto in data 10.2.2014 (sull’errato presupposto della cessazione della sospensione determinato dalla pubblicazione in data 5.6.2013 della sentenza di appello emessa nel giudizio di revocazione). Indipendentemente dalla applicazione del principio di equipollenza della notifica della impugnazione alla conoscenza della sentenza impugnata, il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza n. 708/2007, non notificata, sarebbe da ritenere egualmente inammissibile, in quanto il termine lungo ex art. 327 c.p.c. (annuale, secondo la norma applicabile ratione temporis), sospeso a decorrere dal 20.6.2008 (deposito della ordinanza ex art. 398 c.p.c., comma 4) fino alla pubblicazione della sentenza di appello n. 957 in data 5.6.2013, sarebbe maturato – tenuto conto del doppio periodo di sospensione feriale dei termini: 1.8/15.9.2007 e 1.8/15.9.2013 – al 27 settembre 2013, anteriormente quindi alla notifica dell’atto di impugnazione per cassazione in data 10.2.2014.

In conseguenza il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 708 in data 12.7.2007 deve essere dichiarato inammissibile.

In conclusione i ricorsi debbono essere, rispettivamente, rigettato il primo e dichiarato inammissibile il secondo, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese dei riuniti giudizi di legittimità che si liquidano in dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte cass. SU 18.2.2014 n. 3774).

PQM

La Corte:

– dispone la riunione della causa iscritta al RG n. 21756/2014 alla causa iscritta al RG n. 4351/2014;

– rigetta il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 957/2013 e dichiara inammissibile il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di Palermo n. 708/2007 e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, per ciascun giudizio, in Euro 4.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali e gli accessori di legge;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento della somma prevista dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2017

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