Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24692 del 08/10/2018

Cassazione civile sez. II, 08/10/2018, (ud. 19/04/2018, dep. 08/10/2018), n.24692

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8633-2016 proposto da:

V.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ANGELOZZI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO PENNESE;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE 91, rappresentata e

difesa dagli avvocati PIERA COPPOTELLI e MARCO DI PIETROPAOLO

dell’AVVOCATURA DELLA BANCA stessa;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di RO depositata il

16/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2018 dal Consigliere ANTONELLO COSENTINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TRONCONE FULVIO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANGELOZZI Giovanni, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato COPPOTELLI Piera, difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La signora V.F. ha proposto ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto n. 7990/2015 con cui la corte d’appello di Roma ha rigettato l’opposizione da lei proposta avverso il provvedimento sanzionatorio n. 119/2014, emesso nei suoi confronti dalla Banca d’Italia, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144 e 145 (T.U.B.), per un importo di Euro 24.900.

Con tale provvedimento, emesso in data 26 febbraio 2014, l’Organo di vigilanza aveva contestato all’odierna ricorrente, nella sua veste di membro del consiglio di amministrazione della Banca di Credito Cooperativo “Euganea”, la violazione della normativa di settore, primaria e secondaria, con riferimento ad alcune carenze nell’organizzazione e nei controlli interni della banca, con particolare riferimento all’operato del disciolto consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e dell’ex direttore generale circa la concessione di finanziamenti e linee di credito, nonchè l’eccessiva esposizione patrimoniale imputabile a tali soggetti.

La corte capitolina, accertata la tempestività del provvedimento sanzionatorio, ha ritenuto che l’odierna ricorrente non avesse dimostrato di essersi adoperata attivamente al fine di far cessare le violazioni contestate al consiglio di amministrazione e che nessuna rilevanza esimente potesse riconoscersi alla circostanza che ella non facesse parte della maggioranza di controllo esistente in seno al consiglio di amministrazione; secondo la corte di appello, infatti, la signora V. non aveva provato di aver compiuto atti ufficiali (come proposte, interventi, voti) significativamente contrapposti all’indirizzo della maggioranza dei consiglieri, giacchè i suoi interventi risultavano limitati a fatti marginali e specifici, che non affrontavano le criticità rilevate dalla Banca d’Italia.

Il ricorso si articola in quattro motivi.

La Banca d’Italia si è costituita con controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 19.4.18, per la quale soltanto la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo di ricorso la ricorrente preliminarmente solleva la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3,24,25 e 111 Cost., dell’art. 145 T.U.B., nella parte in cui prevede che i provvedimenti sanzionatori della Banca d’Italia siano impugnabili con opposizione in unico grado dinanzi alla corte di appello di Roma e nella parte in cui prevedeva, prima della novella recata dal D.Lgs. n. 72 del 2015, che detta corte di appello decidesse con decreto motivato. Ad avviso della ricorrente “la competenza funzionale andava attribuita, a garanzia del giusto processo imperniato su tre fasi di giudizio, al tribunale ordinario e non già alla corte romana” (pag. 5, terzultimo capoverso, del ricorso), giacchè, considerata la natura del contenzioso, sarebbe stato “d’uopo… che il giudizio si svolgesse con il rito ordinario” (pag. 6, secondo capoverso, del ricorso).

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente va giudicata manifestamente infondata, giacchè, per un verso, il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non gode di tutela costituzionale (ex multis, SSUU 22610/14, SSUU 12496/17, C. Cost. 351/17) e, per altro verso, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare che il rito camerale è idoneo ad assicurare tutela ai diritti soggettivi (specie quando, come nel caso dell’attività bancaria, la controversia sia caratterizzata da contenuti tecnici e da fonti di conoscenza prevalentemente documentali) e che, sotto altro aspetto, la scelta del decreto motivato, in deroga alla normativa comune sui procedimenti di applicazione delle sanzioni amministrative, deve ritenersi non irragionevole, in considerazione del carattere di specialità della disciplina bancaria e creditizia e della continuità con la precedente regolamentazione della materia (così la sentenza n. 5743/04, alla quale il Collegio intende dare continuità, dovendosi anzi sottolineare che le argomentazioni ivi enunciate risultano ancora più persuasive alla luce del rilievo che, con l’art. 360 c.p.c., u.c. introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 il ricorso straordinario per cassazione contro provvedimenti diversi dalle sentenze può essere proposto anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Col secondo motivo – riferito alla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, della L. n. 241 del 1990, della L. n. 689 del 1981, degli artt. 2964, 1966 e 2968 c.c., dell’art. 154c.p.c. e degli artt. 24 e 97 Cost. – la ricorrente svolge due distinte censure.

Con una prima doglianza si attinge la statuizione della sentenza gravata che ha negato la nullità del procedimento sanzionatorio per violazione del termine per l’irrogazione della sanzione fissato nelle Disposizioni in materia di sanzioni e procedura sanzionatoria amministrativa, emanate dalla stessa Banca d’Italia con il Provvedimento del 18 dicembre 2012. Al riguardo la ricorrente – premesso che detto termine è di giorni 240 decorrenti dalla scadenza del termine, comprensivo di eventuali proroghe, per la presentazione delle controdeduzioni dell’interessato alla proposta formulata al Direttorio dal Servizio Coordinamento e Rapporti con l’Esterno (“CRE”) – argomenta che la corte territoriale avrebbe errato nell’ancorare la decorrenza di detto termine alla data di scadenza della proroga concessa dalla Banca d’Italia alla sig.ra V. per presentare le controdeduzioni, giacchè tale proroga era stata concessa dopo che l’originario termine per controdeduzioni era già scaduto, cosicchè la stessa, essendo stata concessa illegittimamente, sarebbe stata inidonea a differire il dies a quo del termine per l’emanazione del provvedimento sanzionatorio.

La doglianza va disattesa, a prescindere da qualunque rilevo sulla fondatezza del ragionamento che la sostiene, per l’assorbente considerazione che questa Corte ha già affermato, nella sentenza n. 1065/14, che l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative non comporta l’illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizio che – in relazione al contenuto vincolato del provvedimento medesimo – non influisce sul diritto di difesa. Proprio in materia di sanzioni amministrative bancarie si è peraltro puntualizzato che “la eventuale inosservanza del termine previsto dalla disposizione legislativa e da quelle regolamentari non comporta la invalidità del provvedimento sanzionatorio, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies” (così, in motivazione, Cass. n. 25142/15, ove è esplicito riferimento alla pronuncia n. 1065/14); si vedano anche Cass. n. 4363/15; Cass. n. 13433/16 e, da ultimo, Cass. 5917/18.

La seconda censura sviluppata nel motivo in esame lamenta che la corte territoriale avrebbe trascurato la circostanza che il Commissario della Banca di Credito Cooperativo “Euganea”, nominato dalla stessa Banca d’Italia, aveva disatteso la richiesta della sig.ra V. di ottenere, al fine di dimostrare la correttezza del proprio operato, copia dei verbali delle riunioni del consiglio di amministrazione; al riguardo la ricorrente sottolinea che nel provvedimento sanzionatorio non era menzionato un solo verbale del consiglio di amministrazione della banca, cosicchè il procedimento sanzionatorio sarebbe stato da annullare per lacunosità dell’istruttoria.

Il motivo va disatteso, perchè la questione del rifiuto del Commissario della Banca di Credito Cooperativo “Euganea” di soddisfare la richiesta della sig.ra V. di ottenere copia dei verbali delle riunioni del consiglio di amministrazione della banca non viene trattata nel decreto gravato, nè nel ricorso si riferisce che la stessa sia stata dedotta tra i motivi di opposizione al provvedimento sanzionatorio; si tratta dunque di questione nuova, che, involgendo questioni di fatto, risulta inammissibile in sede di legittimità (Cass. 1474/07, Cass. 18440/07). Per quanto poi riguarda la dedotta illegittimità del provvedimento sanzionatorio per lacunosità dell’istruttoria, si tratta di doglianza inammissibile, perchè attinge direttamente il provvedimento amministrativo oggetto del giudizio, non le argomentazioni della sentenza gravata.

Col terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 23, del D.Lgs n. 385 del 1993, artt. 144, 144 ter, 144 quater e 145 nonchè degli artt. 2697 e 2392 c.c., con riferimento agli artt. 115 e 167 c.p.c.. La ricorrente – premesso che l’onere di provare il contributo positivo fornito dal soggetto incolpato alla realizzazione della fattispecie illecita incombe sull’Organo di vigilanza e che, sotto altro aspetto, le allegazioni di fatto da lei dedotte in giudizio non sarebbero state esplicitamente contestate dalla Banca d’Italia – argomenta che la corte territoriale avrebbe errato nel non considerare che la situazione di dissesto finanziario della Banca di Credito Cooperativo “Euganea” emergeva già dal rapporto redatto dagli ispettori della Banca d’Italia all’esito della loro prima ispezione, conclusasi il 31 marzo 2010, e pertanto era imputabile al consiglio di amministrazione precedente a quello di cui ella aveva fatto parte, giacchè quest’ultimo aveva tenuto la sua prima riunione il 27 maggio 2010 e i suoi componenti non potevano rispondere di fatti precedenti al loro insediamento. Nel mezzo di ricorso, inoltre, si propone, mediante la trascrizione di stralci del rapporto ispettivo della Banca d’Italia e dei verbali delle riunioni del consiglio di amministrazione della banca a cui aveva partecipato la sig.ra V., una ricostruzione del comportamento di quest’ultima come oggettivamente e soggettivamente orientato a contenere gli effetti negativi delle scelte della pregressa gestione e degli orientamenti della maggioranza del consiglio di cui ella faceva parte, con conseguente esclusione di qualunque ipotesi di sua responsabilità omissiva.

Il motivo non può trovare accoglimento, perchè, pur denunciando un vizio di violazione e falsa applicazione di legge, non indica alcuna regola di diritto

applicata dalla corte territoriale in contrasto con il disposto delle norme richiamate nella rubrica del mezzo di impugnazione, ma censura l’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dalla corte territoriale, alla cui stregua nessuno degli interventi, voti o lettere della sig.ra V. potevano ritenersi idonei a “spiegare una sia pur minima influenza positiva sull’organizzazione dell’attività istruttoria precedente e successiva alla concessione dei crediti” (pag. 5 del decreto, primo cpv.) e, d’altra parte, le forti contrapposizioni tra i membri del consiglio di amministrazione “riguardavano problemi assai poco incidenti sull’effettiva organizzazione della banca”. Il motivo, quindi, lungi dallo sviluppare specifiche argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto esplicitamente o implicitamente contenute nel decreto gravato debbano ritenersi in contrasto con le norme di cui si lamenta la violazione (cfr. Cass. 5353/07, Cass. 24298/16), si risolve in una critica del giudizio di fatto operato dalla corte territoriale sulla responsabilità della ricorrente, che può essere censurato in questa sede solo sotto il profilo del vizio di omesso esame di fatto decisivo che abbia formato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 cp.c., n. 5. Non pertinente va poi giudicata la protesta di violazione dell’art. 115 c.p.c., giacchè, come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 11892/16, tale violazione può essere dedotta come vizio di legittimità solo qualora il giudice di merito abbia dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti (ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli) e non anche lamentando che il medesimo giudice, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

Col quarto motivo la ricorrente censura la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 23, del D.Lgs n. 385 del 1993, artt. 144, 144 ter, 144 quater e 145 nonchè degli artt. 2697 e 2392 c.c., con riferimento agli artt. 115 e 167 c.p.c., in relazione al vizio di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Il motivo si sviluppa in una pluralità di censure – rassegnate in nove distinti paragrafi distinti con le lettere da A) ad I) – volte dimostrare come la corte territoriale avrebbe errato nel sottovalutare il ruolo svolto dalla sig.ra V., in contrapposizione alla maggioranza consiliare ed al direttore generale della banca, nel tentare di contenere gli effetti negativi delle scelte operate sotto la gestione pregressa. Secondo la ricorrente, in definitiva, l’addebito di aver concorso al dissesto della banca doveva essere giudicato infondato, giacchè, per un verso, tale dissesto risaliva ad epoca anteriore alla sua assunzione della carica di amministratore ed il suo eventuale aggravio era da imputarsi agli effetti inerziali della pregressa gestione e, per altro verso, ella aveva costantemente tentato contrastare le scelte della maggioranza dei consiglieri e del nuovo collegio sindacale. Al riguardo nel mezzo di ricorso si sottolinea come la sig.ra V. avesse dato il proprio sostegno a numerose proposte di minoranza, non approvate dal consiglio d’amministrazione, a cui la corte capitolina avrebbe indebitamente negato la portata di “comportamenti significativamente contrapposti al complessivo indirizzo

organizzativo e strategico della maggioranza dei consiglieri”; secondo l’argomentazione della ricorrente, in sostanza, la corte territoriale avrebbe erroneamente sottovalutato lo spessore dei dissidi sviluppatisi in seno al consiglio di amministrazione della banca anche su questioni fondamentali per il corretto funzionamento degli organi sociali, come la sfiducia al presidente S., la nomina di un vice direttore esterno, la sostituzione del collegio sindacale, la nomina di un comitato esecutivo e altro e, così, pervenendo a confermare un immeritato giudizio di responsabilità della sig.ra V. ed una sanzione a lei irrogata in misura addirittura superiore a quella inflitta al direttore generale della banca.

Anche il quarto motivo, con cui si deducono promiscuamente vizi di violazione di legge ed il vizio di omesso esame di fatti decisivi, va disatteso.

Quanto ai denunciati vizi di violazione di legge, il Collegio rileva che la relativa formulazione non attinge, al pari delle censure proposte con il terzo mezzo di impugnazione, specifiche affermazioni in diritto esplicitamente o implicitamente contenute nel decreto gravato.

Quanto alla denuncia di omesso esame di fatti decisivi, il Collegio rileva che la stessa risulta difforme dal paradigma fissato nell’art. 360 c.p.c., n. 5) giacchè non enuclea specifici fatti storici trascurati dalla corte territoriale e dotati della caratteristica della decisività (da intendere quale idoneità del fatto trascurato ad invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, cfr. Cass. nn. 25756/14, 24092/13, 14973/06), ma ripropone in sede di legittimità una articolata serie di deduzioni di merito, che sollecitano questa Corte ad un integrale riesame del materiale istruttorio, notoriamente estraneo alle funzioni istituzionali del giudizio di cassazione. La censura risulta dunque inammissibile, perchè, come questa Corte ha più volte affermato già sotto la vigenza del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. sent. n. 7972/07), nel giudizio di cassazione non è consentito alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato in relazione a tutti i motivi in cui esso si articola.

Le spese seguono la soccombenza, con declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, da parte della ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rifondere alla Banca d’Italia le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2018

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