Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24690 del 19/10/2017


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Cassazione civile, sez. I, 19/10/2017, (ud. 10/05/2017, dep.19/10/2017),  n. 24690

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22297/2011 proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., non in proprio ma in nome e

per conto della MPS CAPITAL SERVICE Banca per le Imprese S.p.a.,

già MPS Banca per l’Impresa S.p.a., per incorporazione di MPS

Bancaverde S.p.a. (già Istituto Nazionale di Credito Agrario

S.p.a., originatosi dall’Istituto Federale di Credito Agrario) nella

MPS Merchant – Banca per le Piccole e Medie Imprese S.p.a., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Via A. Bosio n. 2, presso l’avvocato Luconi

Massimo, rappresentato e difeso dall’avvocato Moschiano Eugenio,

giusta procura a margine della comparsa di costituzione di nuovo

difensore;

– ricorrente –

contro

Curatela del Fallimento della (OMISSIS) S.r.l.;

– intimata-

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 06/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/05/2017 dal cons. DI MARZIO MAURO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con decreto del 6 luglio 2011 il Tribunale di Napoli ha respinto l’opposizione allo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) S.r.l. proposta da MPS Gestione Crediti Banca S.p.A., contro il provvedimento di rigetto della propria domanda di ammissione al passivo, fondata sull’assunto della erogazione alla società in bonis di un mutuo dell’importo di Euro 774.685,35.

A fronte del rigetto dell’istanza di ammissione al passivo motivato dalla mancata produzione dell’estratto conto delle rate insolute e di quelle pagate, con residuo capitale a scadere, certificato da notaio e stante la concreta impossibilità di quantificare l’effettivo debito, il Tribunale ha ritenuto:

-) che non vi era alcuna prova idonea a dimostrare l’effettiva erogazione delle somme concesse a mutuo e soprattutto il loro effettivo ammontare;

-) che nel contratto di mutuo si dava atto che l’erogazione era avvenuta mediante accredito su un conto corrente intestato a (OMISSIS) S.r.l., ma la banca aveva omesso di depositare il contratto relativo a tale conto corrente, con gli estremi della sua identificazione e un estratto conto del medesimo;

-) che il piano di finanziamento prevedeva la restituzione del solo capitale, il che faceva a prima vista ritenere che la banca avesse concesso il mutuo a tasso zero, ma così non era, dal momento che sia il contratto di mutuo del 22 marzo 2000, sia un successivo atto aggiuntivo del 30 marzo 2005 facevano riferimento ad interessi “da computarsi sul capitale effettivamente prelevato e con decorrenza dalla data dei singoli prelievi”, la qual cosa rendeva verosimile che la banca avesse voluto concedere alla fallita un fido o forse uno sconfinamento di conto, probabilmente già esistente;

-) che mancava la prova che il finanziamento fosse stato effettivamente erogato e accreditato sul conto corrente indicato dalla banca, non avendo questo prodotto alcuna prova idonea e opponibile alla curatela, tanto più che dallo stesso contratto di mutuo e dal patto aggiuntivo emergeva che la banca non aveva erogato in un’unica soluzione l’intera somma alla società poi fallita, nè la Banca aveva dato la prova delle effettive somme erogate e accreditate sul conto di volta in volta.

2. – Per la cassazione del decreto MPS Gestione Crediti Banca S.p.A. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi illustrati da memoria.

Il Fallimento non ha spiegato attività.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso contiene sei motivi.

1.1. – Il primo motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., con riferimento all’art. 2697 c.c., nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa, contraddittoria, ed insufficiente motivazione su di un punto rilevante della controversia”.

Sostiene in breve la ricorrente che, a fronte del provvedimento reso dal giudice delegato, il quale non aveva ammesso il credito per l’impossibilità di quantificare la sua misura, non avendo d’altronde il curatore mai messo in dubbio la effettiva erogazione del mutuo, il Tribunale, nel ritenere al contrario non provata l’erogazione del relativo importo, sarebbe incorso in violazione dell’art. 345 c.p.c., attesa la natura impugnatoria del giudizio di opposizione allo stato passivo.

1.2. – Il secondo motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., n. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riferimento agli articoli 1460,1988,2700,2730,2732 e 2697 c.c.”.

Secondo la ricorrente il Tribunale avrebbe errato nel non avvedersi che l’originario contratto di mutuo conteneva la confessione stragiudiziale dell’effettiva erogazione dell’importo mutuato e che l’atto aggiuntivo del 30 marzo 2005 aveva anch’esso natura di confessione ed altresì di ricognizione di debito, confessione stragiudiziale che non poteva essere revocata in mancanza di prova della sua discendenza da errore di fatto o da violenza.

1.3. – Il terzo motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riferimento al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 38, art. 2697 c.c.; nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su di un punto rilevante della controversia”.

La doglianza pone l’accento sul deposito, da parte della banca, sia degli estratti conto intestati alla società poi fallita, dai quali emergevano tre distinti bonifici con i quali essa aveva erogato in favore della mutuataria il mutuo nella sua interezza, sia, nuovamente, dell’atto aggiuntivo da cui risultava la quantificazione del residuo debito in Euro 705.493,12, sicchè il Tribunale non avrebbe dovuto porre in dubbio la effettiva erogazione del mutuo, tanto più che il curatore non aveva formulato eccezioni in tal senso.

Il Tribunale, inoltre, era incorso in errore anche nell’ipotizzare che il rapporto intercorso tra le parti non fosse di mutuo, bensì di “fido o sconfinamento di conto, probabilmente già esistente”, sul rilievo che il piano di ammortamento faceva riferimento alla sola somma in linea capitale e non anche agli interessi, dal momento che le parti avevano previsto l’applicazione di un tasso variabile, con la conseguenza che la banca non era in grado di indicare sin dalla stipula del contratto quello che sarebbe stato l’importo maturato volta per volta.

1.4. – Il quarto motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento agli artt. 1852,2700 e 2697 c.c.; nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su di un punto rilevante della controversia”.

Si sostiene con il motivo che il Tribunale non avrebbe valutato la quietanza contenuta nel contratto di mutuo fondiario.

1.5. – Il quinto motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riferimento agli artt. 1218,1460 e 2697 c.c.; nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su di un punto rilevante della controversia”.

Il motivo si riferisce al quantum dovuto dalla mutuataria, quantum che già il curatore ed il giudice delegato avevano ritenuto non provati, in violazione del principio generale secondo cui sul creditore grava la prova dell’esistenza dell’obbligazione e la semplice deduzione dell’inadempimento, spettando al debitore la prova dell’adempimento quale fatto estintivo dell’obbligazione.

1.6. – Il sesto motivo è svolto sotto la rubrica: “Nullità del decreto impugnato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. con riferimento all’artt. 2704 e 2697 c.c.”.

Sostiene la società ricorrente che il Tribunale avrebbe errato nel rilevare d’ufficio la inopponibilità per mancanza di data certa della documentazione posta a fondamento del credito fatto valere in sede di insinuazione.

2. – Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.

2.1. – Il primo motivo è infondato.

Questa Corte ha in più occasioni affermato che il vigente L.Fall., art. 99, configura il giudizio di opposizione allo stato passivo in senso inequivocabilmente impugnatorio, con conseguente esclusione dell’ammissibilità di domande nuove, non proposte nel grado precedente (da ultimo Cass. 15 febbraio 2016, n. 2917, che richiama Cass. 2 febbraio 2015, n. 1857; Cass. 30 marzo 2012, n. 5167; Cass. 22 marzo 2010, n. 6900).

Nel riconoscere la natura impugnatoria dell’opposizione allo stato passivo, tuttavia, è stata già evidenziata più volte la peculiarità del rimedio in discorso, che non è così e semplicemente equiparabile ad un appello (Cass. 6 novembre 2013, n. 24972; Cass. 22 marzo 2013, n. 7278; Cass. 11 settembre 2009, n. 19697).

Il punto nodale del problema, con riguardo all’atteggiarsi dell’opposizione allo stato passivo quale rimedio impugnatorio, si riassume nel quesito se essa possa essere effettivamente qualificata quale giudizio di secondo grado, nella sostanza assimilabile a quello di appello, ovvero se la natura impugnatoria del rimedio debba essere intesa in senso ben più circoscritto, essendo l’opposizione diretta all’introduzione di un procedimento di primo grado (e, nell’attuale contesto normativo, di unico grado), allo stesso modo in cui – a titolo di esempio tra gli altri possibili – la medesima natura è stata riconosciuta, ad altro fine, all’opposizione a decreto ingiuntivo, giacchè diretta a contestare il provvedimento monitorio (da ultimo Cass. 1 settembre 2015, n. 17383).

Occorre allora in proposito muovere dal rilievo che il legislatore, nel riformare la disciplina del fallimento, pur essendo intervenuto sul giudizio di verifica, attribuendo al curatore il ruolo di parte ed affermando all’art. 95, comma 3, che il giudice delegato pronuncia su ciascuna domanda “nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d’ufficio e a quelle formulate dagli altri interessati”, ne ha però mantenuto la caratteristica di giudizio a cognizione sommaria, in cui non è obbligatoria l’assistenza tecnica a favore del creditore ed ove è previsto che il giudice possa procedere “ad atti di istruzione a richiesta delle parti”, ma solo “compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento” (art. 95, comma 3). A tale connotazione si collega la natura dell’opposizione, che non può per conseguenza essere qualificata come appello: se è vero, infatti, che il legislatore ha delineato il procedimento di verifica dei crediti come procedimento di natura decisoria improntato al principio della domanda, in cui il curatore assume la qualità di parte ed il giudice pronuncia secondo le regole del contraddittorio e non nelle forme del rito inquisitorio, resta fermo che tale procedimento, come si diceva, è pur sempre limitato ad una cognizione sommaria: di qui la conclusione che il giudizio di opposizione, ancorchè contro il provvedimento che lo definisce non sia ammissibile l’appello, ma soltanto il ricorso per cassazione, si connota come giudizio di primo grado a cognizione piena (in questo senso Cass. 11 settembre 2009, n. 19697).

Ulteriori dati normativi confermano che il giudizio di opposizione allo stato passivo non è retto dal congegno di limitata devoluzione (tantum devolutum quantum appellatum) che presiede al funzionamento del giudizio di appello, ormai definitivamente connotato come revisio prioris istantiae destinata a svolgersi nel rigoroso ambito dei motivi di impugnazione formulati ai sensi dell’art. 342 c.p.c., nonchè delle domande ed eccezioni non accolte esplicitamente riproposte secondo la disciplina dell’art. 346 c.p.c., con esclusione di quanto eventualmente ancora rilevabile d’ufficio, rimanendo coperto da giudicato tutto quanto non investito dall’impugnazione, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, fatto salvo l’effetto d’evolutivo allargato di cui all’art. 336 c.p.c., comma 2.

Ai sensi della L.Fall., art. 99, comma 2, n. 4, e comma 7, difatti, il ricorso in opposizione deve contenere a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonchè l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti, mentre la costituzione si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva contenente pure essa, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonchè l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti.

Val quanto dire che, ferma la domanda introduttiva, il sistema delineato dal citato art. 99 si distacca profondamente da quello dettato con riguardo alla disciplina dei nova in appello dall’art. 345 c.p.c.: di qui possono essere formulate la generalità delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio e possono essere richiesti mezzi istruttori, ivi comprese le produzioni documentali, sia pur entro il limite preclusivo di cui si è detto; di là vige il principio dell’inammissibilità di nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio ed opera uno sbarramento ormai pressochè totale alla formulazione di richieste istruttorie.

A dimostrazione della menzionata natura del giudizio di opposizione allo stato passivo, estraneo al modello dell’appello, occorre considerare altresì la previsione della L.Fall., art. 99, comma 8, secondo cui l’intervento di qualunque interessato non può avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti, con le modalità per queste previste: ciò vuol dire che l’intervento di qualunque interessato è sempre possibile, purchè avvenga nel rispetto delle forme a tal fine richieste:

ma tale aspetto rimarca ancora una volta il divario che separa l’opposizione allo stato passivo dall’appello, nel quale l’intervento dei terzi non è mai ammesso, salvo non si tratti di coloro i quali potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 c.p.c., soggetti, cioè, che neppure possono qualificarsi terzi in senso proprio. In conclusione, pur riconosciuta l’appartenenza dell’opposizione allo stato passivo al genus, inteso nel senso più lato, dei rimedi impugnatori, ciò non consente nè di equiparare tale opposizione all’appello, e neppure di ritenere applicabili all’opposizione allo stato passivo, per regola generale, le disposizioni dettate in materia di impugnazioni dagli articoli 323 e seguenti c.p.c., occorrendo viceversa di volta in volta scrutinare la compatibilità di esse con lo strumento in questione, in ragione dalle sue particolari caratteristiche.

In tale prospettiva vanno lette le massime secondo cui tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto delle sue condizioni di fondatezza, o per la successiva caducazione del diritto con essa fatto valere, possono essere rilevate anche d’ufficio, in base alle risultanze rite et recte acquisite al processo, nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole processuali, con l’effetto che la verifica attribuita al giudice in ordine alla sussistenza del titolo deve essere compiuta, di norma, ex officio, in ogni stato e grado del processo, nell’ambito proprio di ognuna delle sue fasi. (Cass. 19 settembre 2013, n. 21482; Cass. 6 novembre 2013, n. 24972).

Nè rileva, per i fini dell’accoglimento della doglianza in esame, che, secondo quanto sostenuto dalla società ricorrente, il curatore non avesse contestato la effettiva erogazione del mutuo. Questa Corte ha difatti avuto modo di osservare che, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta l’automatica ammissione del credito allo stato passivo sol perchè non sia stato contestato dal curatore, competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove (Cass. 6 agosto 2015, n. 16554, ove si precisa che il principio di non contestazione, che costituisce solo una tecnica di semplificazione di formazione della prova dei fatti allegati dalle parti, non può prevalere rispetto ai risultati dell’istruzione probatoria, positivamente esperiti od acquisiti, specie quando questi abbiano valenza contraria alle risultanze virtuali ipotizzabili in base al primo).

Va da sè che il Tribunale ben poteva giudicare non provata la erogazione del mutuo, quantunque il credito insinuato dalla banca non fosse stato ammesso per mancanza di prova dell’entità del capitale residuo dovuto, avendo scrutinato il materiale istruttorio acquisito al processo, così da ritenere che esso fosse inidoneo a provare il versamento della somma data a mutuo.

2.2. – Il secondo motivo è fondato nei limiti che seguono.

2.2.1. – Esso non può essere condiviso nella parte in cui invoca l’efficacia di confessione stragiudiziale della quietanza in tesi contenuta nell’atto di mutuo nonchè del successivo atto aggiuntivo richiamato nella formulazione del motivo.

Ed infatti questa Corte ha avuto modo di ribadire numerose volte che la quietanza rilasciata dal creditore poi fallito all’atto del pagamento (in questo caso (OMISSIS) S.r.l., quale creditrice della somma ad essa data a mutuo), la quale ha natura di confessione stragiudiziale su tale fatto estintivo dell’obbligazione, secondo la previsione dell’art. 2735 c.c., può essere fatta valere solo nella controversia di cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti rispettivamente autore e destinatario di quella dichiarazione di scienza: dunque non nei confronti del curatore del fallimento, potendo in tal caso la quietanza, priva degli effetti propri della confessione, assumere soltanto il valore di documento probatorio dell’avvenuto pagamento, apprezzabile dal giudice al pari di qualsiasi altra prova desumibile dal processo (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21258; Cass. 18 dicembre 2012, n. 23318; Cass. 1 marzo 2005, n. 4288; Cass. 2 aprile 1996, n. 3055; Cass. 10 marzo 1994, n. 2339; Cass. 10 dicembre 1992, n. 13095; Cass. 28 gennaio 1986, n. 544).

2.2.2. – Il motivo è viceversa fondato nella parte in cui invoca il valore di ricognizione di debito dell’atto aggiuntivo del 30 marzo 2005.

Il creditore che agisce in sede di verifica del passivo fallimentare in base ad un contratto di mutuo è tenuto a fornire la prova dell’esistenza del titolo, della sua anteriorità al fallimento e della disciplina dell’ammortamento, con le scadenze temporali e con il tasso di interesse convenuti, mentre il debitore mutuatario (e, per esso, il curatore) ha l’onere di provare il pagamento delle rate di mutuo scadute prima della dichiarazione di fallimento, atteso che le rate successive, agli effetti del concorso, si considerano scadute alla data della sentenza dichiarativa, a norma della L.Fall., art. 55, comma 2, e non è, dunque, necessario, per l’accertamento del capitale residuo, provare la risoluzione del contratto, che rileva solo ai fini degli interessi di mora (Cass. 31 luglio 2015, n. 16214).

Richiamando ancora una volta la giurisprudenza di questa Corte, è agevole osservare, inoltre, che è stata in diverse occasioni ammessa l’opponibilità al fallimento della ricognizione di debito, perlopiù in caso di impiego di titoli di credito dopo la prescrizione dell’azione cartolare (Cass. 11 novembre 1981, n. 5972; Cass. 18 maggio 1967, n. 1044), con la precisazione che, in tal caso, il curatore non può essere considerato terzo rispetto al fallito (Cass. 17 novembre 1976, n. 4272).

Orbene, come si desume dalla sentenza impugnata e dal ricorso, nella scrittura privata del 30 marzo 2005, concernente la ristrutturazione del debito gravante su (OMISSIS) S.r.l. per rimborso del mutuo è detto che: “il residuo debito del finanziamento in oggetto, ammontante a Euro 705.493,12 dovrà essere rimborsato in 45 rate trimestrali”.

Si tratta all’evidenza di una ricognizione di debito, ed in particolare di una ricognizione titolata, atteso il suo riferimento al rapporto fondamentale, tale da produrre l’inversione dell’onere della prova in ordine alla sussistenza del medesimo (Cass. 11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 20 luglio 2000, n. 9530; Cass. 4 febbraio 2000, n. 1231), e da addossare sul dichiarante la prova dell’inesistenza di esso.

Nel caso in esame, il Tribunale ha preso atto della produzione della “scrittura privata registrata in data 30.3.2005”, con cui le parti “avevano convenuto che il debito scaduto e da scadere per complessivi Euro 705.493,12 sarebbe stato restituito in 45 rate trimestrali”, senza tuttavia avvedersi della natura di ricognizione di debito dell’atto, così da ritenere, erroneamente, non provata “l’effettiva erogazione delle somme concesse a mutuo e soprattutto il loro effettivo ammontare”, dovendo invece verificare se fosse stata dimostrata o meno l’insussistenza del debito così quantificato.

2.3. – Gli altri motivi rimangono assorbiti.

3. – Il decreto è cassato in relazione al motivo accolto e rinviato per nuovo esame al Tribunale di Napoli in diversa composizione che si atterrà ai principi in precedenza formulati, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il secondo motivo di ricorso nei limiti indicati motivazione, rigetta il primo, assorbiti gli altri, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese al Tribunale di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017

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