Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24688 del 14/09/2021

Cassazione civile sez. lav., 14/09/2021, (ud. 16/03/2021, dep. 14/09/2021), n.24688

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17479/2017 proposto da:

VODAFONE ITALIA S.P.A., (già VODAFONE OMNITEL B.V., già VODAFONE

OMNITEL N.V.), società soggetta a direzione e coordinamento di

VODAFONE GROUP PLC, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO, 8, presso

lo studio degli avvocati ANDREA MUSTI, ENRICO CICCOTTI, che la

rappresentano e difendono unitamente all’avvocato FRANCO TOFACCHI;

– ricorrente –

contro

I.A.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ANDREA TOMASINO;

COMDATA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI, 128, presso lo

studio LEXELLENT, con l’Avvocato STEFANO PIRAS, che la rappresenta e

difende unitamente all’Avvocato CARLO ALBERTO MARIA MAJER;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 865/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 08/02/2017 R.G.N. 501/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE

Alberto, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8

bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176,

ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 865/2017 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la inefficacia nei confronti di I.A.M. del contratto di cessione di ramo di azienda intervenuto tra Vodafone Omnitel N.V. e la società Comdata Care s.p.a. (già Comdata s.r.l.) e, per l’effetto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la predetta lavoratrice e la società Vodafone Italia s.p.a. con ordine a quest’ultima di ripristino della concreta funzionalità del rapporto ed adibizione a mansioni equivalenti al livello di inquadramento rivestito prima del trasferimento.

1.2. Il giudice di appello, premesso che ai fini della configurabilità di una vicenda traslativa riconducibile all’art. 2112 c.c., anche nella formulazione successiva alla modifica attuata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, applicabile ratione temporis, si richiedeva che l’oggetto della cessione costituisse un’articolazione autonoma, capace di perseguire con propri autonomi mezzi lo scopo economico prefissato, ha escluso che tali caratteri connotassero il complesso oggetto del contratto di cessione tra la società Vodafone e la società Comdata; i servizi ceduti – di back office consumer, back office corporate e gestione del credito – costituivano, infatti, segmenti di attività rientranti nel più ampio contesto del customer care, vale a dire del reparto che in Vodafone si occupava della gestione del cliente e richiedevano, pur dopo la cessione, una continua interazione con i dipendenti della società cedente, un’imprescindibile integrazione organizzativa ed una stretta interdipendenza funzionale del ramo trasferito con la struttura rimasta nell’impresa cedente; inoltre, dal contratto di contratto di fornitura di servizi tra le due società stipulato nella stessa data del contratto di cessione emergeva che, a differenza di un normale contratto di appalto di servizi in cui l’appaltatore si obbliga alla fornitura di un determinato autonomo risultato, la Vodafone aveva riservato a sé il dettaglio di tutta l’organizzazione delle singole operazioni e Comodata Care si era obbligata a svolgere i servizi in conformità alle dettagliate direttive impartitele; le attività oggetto della cessione avevano continuato ad essere svolte dai medesimi dipendenti ceduti, non identificabili per un particolare know how, senza autonomia e in continuo collegamento direttivo, funzionale e di controllo da parte della Vodafone, in locali di cui tale società continuava ad essere la locataria, utilizzando gli indispensabili programmi; il difetto di autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto determinava la inefficacia della cessione nei confronti dei lavoratori ricorrenti con obbligo per la società cedente di ripristino della concreta funzionalità del rapporto.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Vodafone Italia s.p.a. (già Vodafone Omnitel B.V., già Vodafone Omnitel N.V.) sulla base di un unico articolato motivo formulando in via preliminare richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE; Comdata s.p.a. ha depositato “controricorso” con il quale ha dichiarato di aderire integralmente alla questione pregiudiziale sollevata da Vodafone Italia s.p.a. e al motivo di ricorso da quest’ultima formulato ed ha a sua volta formulato istanza di rinvio pregiudiziale ed articolato un motivo di ricorso; tanto induce a qualificare il “controricorso” di Comdata s.p.a. quale ricorso (incidentale); I.A. ha depositato controricorso per resistere ai ricorso di Vodafone Italia s.p.a..

4. Il PG ha depositato requisitoria scritta concludendo per il rigetto.

5. Vodafone Italia s.p.a. e Comdata s.p.a. hanno entrambe depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso Vodafone Italia s.p.a. deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per essere la sentenza impugnata frutto di un’interpretazione della norma codicistica non rispettosa dei principi fissati dalla Direttiva 2001/23/CE quali enucleati dalla Corte di Giustizia; il giudice comunitario aveva, infatti, chiarito che: l’entità economica oggetto del trasferimento è costituita dal complesso di persone ed elementi che consente lo svolgimento di un’attività economica che persegue un proprio obiettivo ed è sufficientemente strutturata ed autonoma nel perseguirlo; il requisito dell’identità è riferito all’attività economica svolta dall’entità considerata; la nozione di autonomia si riferisce ai poteri riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori trasferiti di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno al citato gruppo; è inconferente la circostanza che l’entità in cui sono riassunti il materiale ed una parte dell’organico venga integrata, senza conservare la sua struttura organizzativa autonoma, in una nuova struttura del cessionario in quanto ciò che rileva è il mantenimento del nesso di interdipendenza funzionale tra, da un lato, tale materiale e personale trasferiti e, dall’altro, la prosecuzione delle attività prima svolte dall’alienante; è irrilevante il trasferimento meno meno della proprietà degli elementi immateriali; la mancata riassunzione da parte del nuovo imprenditore di una quota sostanziale, in termini di quantità e di competenze, del personale che il predecessore destinava all’esecuzione della stessa attività non è sufficiente ad escludere l’esistenza di un trasferimento di un’entità che mantenga la sua identità ai sensi della Direttiva 2001/23. Infine, secondo parte ricorrente, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3, in tema di cambio di appalto non escludeva la configurabilità di una vicenda circolatoria rilevante ai sensi della Direttiva con riferimento al trasferimento delle risorse umane intese come gruppo organizzato che in presenza di adeguate risorse, comunque reperite, svolga un servizio avente valore di mercato.

2. Il motivo di ricorso di Comdata s.p.a. deduce anch’esso violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., sotto il profilo della contrarietà della decisione impugnata alla Direttiva n. 23/2001 richiamando argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle sviluppate ad illustrazione del ricorso della società Vodafone.

3. I motivi sono entrambi infondati.

In premessa occorre ribadire l’oramai costante insegnamento di questa Corte secondo il quale la verifica dei presupposti fattuali che consentono l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c., implica una valutazione di merito che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del 2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238 del 2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora, Cass. n. 2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020).

Ciò inevitabilmente, considerato che l’accertamento in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in astratto dell’art. 2112 c.c., comma 5, implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e, poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.

In particolare non può negarsi che la valutazione, nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112 c.c.. Come già ritenuto da questa Corte “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi all’ipotesi normativa” (testualmente in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata; v. pure Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

3.1. Tanto premesso è da rilevare che in relazione alla ricostruzione fattuale della vicenda, ritenuta dalla Corte di merito non riconducibile all’ipotesi regolata dall’art. 2112 c.c., le società ricorrenti non prospettano, neppure formalmente, omesso esame di fatto rilevante e decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come necessario onde incrinare l’accertamento alla base del decisum; tanto esclude, a fortiori, che possa conferirsi rilievo alle deduzioni che, non veicolate da tale specifico mezzo, sviluppano valutazioni meramente contrappositive a quelle del giudice di merito in relazione ad alcuni aspetti, quali ad es. in tema di asserito specifico know how riconoscibile ai lavoratori ceduti.

3.2. In punto di diritto il Collegio reputa che il giudice d’appello abbia deciso le questioni in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte ed ai principi della Direttiva e l’esame dei motivi di ricorso non offre elementi per mutare condivisi orientamenti.

Secondo un risalente principio di legittimità la cessione di ramo d’azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi (Cass. n. 17919 del 2002; Cass. n. 13068 del 2005; Cass. n. 22125 del 2006).

Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “e’ considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).

La ratio della disciplina comunitaria è intesa ad assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell’ambito di un’attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e, quindi, è finalizzata a proteggere i lavoratori nella situazione in cui siffatto cambiamento abbia luogo (Corte di Giustizia, 7 febbraio 1985, C-186/83, Botzen e a., punto 6; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punto 11); essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente nelle ipotesi in cui non si controverta del “mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti” presso la cessionaria, in difetto dei presupposti previsti dal diritto dell’Unione (cfr. Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punti 35 e 37).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis: Cass. n. 19740 del 2008), ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C- 13/95, Siizen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C- 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C- 232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal e a., C-127/96, C-229/96, C74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, bulbi, C458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/ 10, Scattolon, punto 60; Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 60).

Anche in relazione al testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, questa Corte ha ribadito che, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo della cessione “l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione” (sul tema v. diffusamente Cass. n. 11247 del 2016; di analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 26 febbraio 2016, Cass. nn. 9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016; tra le successive conformi v.: Cass. n. 19034 del 2017; Cass. n. 28593 del 2018).

Tali pronunce sono significative anche nel caso che ci occupa perché hanno confermato la sentenza d’appello che aveva escluso l’operatività dell’art. 2112 c.c., nella sua formulazione successiva al 2003, tra l’altro, per “la mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo”, sancendo poi, nel principio di diritto enunciato in funzione nomofilattica, l’indipendenza “dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti” (analogamente v. poi Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n. 19034 del 2017, in ipotesi di cessione di un call center in cui i programmi informatici erano rimasti nella proprietà esclusiva della cedente).

Si è inoltre sottolineato che il “fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo”; tanto in continuità con una tradizionale impostazione secondo cui non è consentita la creazione di una struttura produttiva ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito (tra altre, Cass. n. 2429 del 2008; Cass. n. 21711 del 2012; Cass. n. 8757 del 2014; Cass. n. 19141 del 2015).

Negli arresti in discorso non si è poi disconosciuta la legittimità di cessioni di rami aziendali “dematerializzati” o “leggeri” dell’impresa, nei quali il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, in conformità con principi, anche comunitari (Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Suzen, C13/95, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C229/96, C-74/97, Hernandez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 20 gennaio 2011, C-463/09, CLECE, punto 36), che si sono affermati essenzialmente nel campo della successione negli appalti laddove sono i lavoratori ad invocare l’applicazione dell’art. 2112 c.c., per transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi oggetto del trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di dipendenti specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, senza elementi materiali significativi (in precedenza, tra molte, v. Cass. n. 17207 del 2002; Cass. n. 206 del 2004; Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5678 del 2013; Cass. n. 21917 del 2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il compito del giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato” (in termini Cass. n. 11247/2016 cit.; di recente anche Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69, ha sottolineato come l’autonomia del ramo ceduto, dopo il trasferimento, non debba dipendere da scelte economiche effettuate “unilateralmente” da terzi, senza che vi siano garanzie sufficienti che le assicurino l’accesso ai fattori di produzione).

Nel complesso di pronunce assunte in decisione nel febbraio del 2016 da questa Corte, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto”.

A conforto si richiama anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi” nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C458/12, Amatori ed a., punto 34).

Anche dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, con l’insieme delle decisioni citate si conferma, dunque, la necessità della preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell’alveo dell’art. 2112 c.c.; principio già presente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017 del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo che la conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria (da ultimo v. Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già esista – e costantemente ribadito sino ai giorni nostri con innumerevoli sentenze (tra le più recenti v. Cass. n. 30667 del 2019; Cass. n. 6649 del 2020; Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del 2020), tanto da assurgere oramai a principio consolidato del diritto vivente, dal quale, per evidenti ragioni dettate anche dall’esigenza di non recare vulnus all’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, non si ravvisa ragione per discostarsi.

3.3. Le società ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe giudicato dell’insussistenza di una cessione di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c., sulla scorta di elementi “non rilevanti”, quali il mancato trasferimento al cessionario della proprietà di beni strumentali, la professionalità dei lavoratori ceduti e invocano a sostegno delle critiche l’autorità di varie sentenze della Corte di Giustizia.

4.3. Tali critiche sono infondate posto che è proprio la Corte dell’Unione a ribadire costantemente che, per determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l’applicabilità della direttiva in materia di trasferimento d’impresa, occorre “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d’impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente” (v. Corte di Giustizia, 9 settembre 2015, C-160/14, Joao Filipe Ferreira da Silva e Brito e altri, punto 26; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punto 13; Corte di Giustizia, 19 maggio 2002, C-29/91, Redmond Stichting, punto 24; Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 14; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/01, Abler e a., punto 33); si è altresì evidenziato che “l’importanza da attribuire rispettivamente ai singoli criteri varia necessariamente in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di stabilimento di cui trattasi” (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Súzen, punto 18; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C-229/96 e C-74/97, Hernéndez Vidal e a., punto 31; Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, C-173/96 e C-247/96, Hidalgo e a., punto 31).

E’ quanto in questa sede intende ribadirsi avuto riguardo al presente giudizio di legittimità ed ai suoi limiti – al cospetto di doglianze di parte che invocano una rivalutazione atomistica degli eventi storici – alla luce del mai superato insegnamento (Cass. SS.UU. n. 379 del 1999) secondo cui, allorquando ai fini di una certa qualificazione giuridica di un rapporto controverso occorre avvalersi di una serie di elementi fattuali sintomatici ai quali i giudici del merito hanno affidato la propria valutazione, ciò che deve negarsi è soltanto l’autonoma idoneità di ciascuno di questi elementi, considerato singolarmente, a fondare la riconduzione ad una certa qualificazione, non anche la possibilità che, in una valutazione globale dei medesimi, essi vengano assunti, come concordanti, gravi e precisi indici rivelatori di ciò che si intende dimostrare. Sicché, quando gli elementi fattuali da valutare sono, in via sintomatica ed indiziaria, molteplici al fine di verificare l’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto, trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di circostanze, che – per dirla con la Corte di Giustizia – “sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente”, chi ricorre, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può invocare una diversa combinazione di tali elementi oppure un diverso apprezzamento rispetto a ciascuno di essi, sollecitando questa Corte ad un controllo estraneo al sindacato di legittimità (sui limiti di tale sindacato in materia di ragionamento presuntivo, per tutte, v. Cass. n. 29781 del 2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).

3.5. Non sfugge al Collegio l’eventualità che l’arrestarsi sulla soglia del giudizio di merito possa consentire che analoghe vicende fattuali vengano diversamente valutate dai giudicanti cui compete il relativo giudizio. Tuttavia è noto che l’oggetto del sindacato di questa Corte non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al quale le parti litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti limiti delle critiche vincolate dall’art. 360 c.p.c., così come prospettate dalla parte ricorrente: ne deriva che contigue vicende possono dare luogo a diversi esiti processuali, ma si tratta di esiti non altrimenti evitabili, determinati dalla peculiare natura del controllo di legittimità (ad ex., proprio in tema di trasferimento d’azienda, v. Cass. n. 10868, n. 10925 e n. 22688 del 2014, in motivazione), ancor più da quando il legislatore ha inequivocabilmente orientato il giudizio di cassazione nel senso della preminenza della funzione nomofilattica, anche riducendo progressivamente gli spazi di ingerenza sulla ricostruzione dei fatti e sul loro apprezzamento.

4. Possono essere esaminate, da ultimo, le richieste di sospensione del presente procedimento e di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ex art. 267, comma 3 del Trattato per il funzionamento della Unione Europea, proposte dalla difesa delle ricorrenti società in ordine a questioni interpretative aventi ad oggetto la norma comunitaria in materia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di parti di impresa: la Corte reputa che le stesse non siano pregiudiziali ai fini del decidere, in parte per le ragioni già esposte, stante la ritenuta conformità del diritto interno al diritto dell’Unione, ed in parte per le ragioni che si andranno ad illustrare.

4.1. La istanza di rimessione è stata così sintetizzate da Vodafone Italia s.p.a.; “A) se la disciplina dell’Unione Europea in tema di “trasferimento di parte di impresa o parte di uno stabilimento (in particolare l’art. 1, paragrafo 1, lett. a) e b) in riferimento all’art. 3, paragrafo 1, ed all’art. 6, paragrafo 1, comma 4, nonché all’art. 4, paragrafo 1, comma 1, della direttiva (…) 2001/23 (…)), osti ad una norma come l’art. 2112, comma 5, la cui formulazione – secondo l’interpretazione prevalente del diritto italiano vivente come mantenimento di una preesistente ” entità produttiva autonoma” – esclude l’applicazione degli effetti della direttiva previsti dall’art. 3, alle ipotesi di cessione di una porzione dell’impresa o dello stabilimento destinata allo svolgimento di una attività economica intesa come l’offerta di beni o servizi su un determinato (sentenza CGE C108/19, punto 43)-, che – in ragione del perseguimento del proprio obiettivo e sufficientemente strutturata a tal fine (sentenze C GE C-475/99, punto 19 e C-108/10, punto 42) – venga successivamente alla cessione integrata dal proprio imprenditore attraverso l’impiego di mezzi propri per continuare a rendere la medesima attività economica precedentemente resa dalla parte di impresa o di stabilimento ceduta; ovvero, in contrario se in tali ipotesi sussista una situazione che, in relazione al variare dell’organizzazione seguente alla cessione, ai sensi dell’art. 4 della Direttiva giustifica, da parte del datore di lavoro cedente l’attività economica, il licenziamento dei dipendenti addetti che in ragione della cessione dell’attività medesima al nuovo imprenditore risultino esuberanti perché privi dell’attività alla quale erano addetti”; B) “Se la direttiva 2001/23, e in particolare il suo art. 1, paragrafo 1, lettere a) e b) in riferimento all’art. 6, paragrafo 1, comma 4 debba essere interpretato nel senso che la nozione di ” trasferimento di parti di imprese o di stabilimenti” comprenda la situazione in cui un’impresa esercente un servizio telefonico – seguendo le esigenze di efficienza e modernizzazioni imposte dal mercato e attuate dai propri competitors del settore della telefonia nazionale ed internazionale – trasferisca a terzi imprenditori dei servizi in outsourcing parti di impresa o di stabilimento destinate allo svolgimento delle attività di back office qualora: (i) le risorse trasferite siano organizzate in capo ad un soggetto giuridico autonomo costituito in impresa societaria al fine dello svolgimento dell’attività economica trasferita verso il mercato, seppure sia preponderante l’attività svolta per l’imprenditore cedente; (ii) l’impresa così costituita continui a svolgere senza soluzioni di continuità l’attività precedentemente svolta dalla parte di impresa o di stabilimento allo svolgimento delle attività presso l’imprenditore cedente, compreso il personale con funzioni direttive; (iv) l’impresa cessionaria impieghi, almeno per un rilevante periodo di tempo immediatamente dopo la cessione, i suddetti lavoratori in funzioni identiche a quelle precedentemente svolte presso il cedente; (v) l’impresa cessionaria impieghi mezzi propri, nonché sistemi informativi in parte propri ed in parte concessi in uso mediante contratti di appalto onerosi da parte dell’impresa cedente, in modo da essere sufficientemente strutturata per il perseguimento del proprio obbiettivo consistente nella offerta di servizi sul mercato dell’outsourcing di back office”; C) ” se la disciplina dell’Unione Europea in tema di “trasferimento di parti di impresa o di stabilimento” (in particolare l’art. 1, paragrafo 1, lett. a) in riferimento all’art. 3, paragrafo 1, della direttiva (…)2001/23 (…)), in relazione all’interpretazione vincolante di essa fornita dalla Sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-458/12 (Amatori ed altri) – secondo cui essa deve essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come l’art. 2112 c.c., comma 5, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento – comporti che in presenza di cessione contrattuale di parti di impresa o di parti di stabilimento, una volta identificate dalle parti a norma della disciplina nazionale, gli effetti di cui all’art. 3 della direttiva si intendano applicabili a favore dei dipendenti trasferiti con la parte di impresa o di stabilimento per effetto del contratto a prescindere dalla preesistenza di una “entità produttiva”, ma in presenza di una preesistente attività economica, cioè di un’organizzazione volta alla fornitura di servizi, svolta dalle parti di impresa o di stabilimento cedute, e se sia consentita o meno ai lavoratori la prova contraria volta all’esclusione dell’applicazione degli effetti previsti dall’art. 3 della direttiva; D) Se la direttiva 2001/23/CE, art. 1, paragrafo 1, nonché art. 3, paragrafo 1, comma 1, ostano ad una norma come quella del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3, come interpretata dalla giurisprudenza italiana prevalente, laddove esclude in via generale- anche in relazione all’art. 2112 c.c., comma 6 – l’applicazione della direttiva 2001/23/CE all’acquisizione da parte del nuovo appaltatore di un gruppo organizzato di lavoratori e/o della parte rilevante dei lavoratori precedentemente già impiegato nello svolgimento delle attività oggetto dell’appalto o al subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, contratto collettivo nazionale o di clausola del contratto di appalto”.

4.2. Comdata s.p.a. chiesto di sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea i seguenti quesiti: 1) “se la disciplina dell’Unione Europea in tema di “trasferimento di parte di impresa o parte di uno stabilimento” (con particolare riferimento all’art. 1, paragrafo 1, lett. a) e b); all’art. 3, par. 1, all’art. 4, par. 1, comma 1 e all’art. 6, par. 1, comma 4 della Direttiva 2001/23/CE), osti ad una norma come l’art. 2112 c.c., comma 5, la cui formulazione, intesa secondo l’interpretazione prevalente del diritto italiano vivente, come mantenimento di una preesistente “entità produttiva autonoma”, escluda l’applicazione degli effetti della direttiva previsti dall’art. 3 alle ipotesi di cessione di una porzione dell’impresa o dello stabilimento destinata allo svolgimento di una attività economica, intesa come l’offerta di beni e servizi su un determinato mercato (sentenza CGE C- 108/10, punto 43), che in ragione del perseguimento del proprio obiettivo e sufficientemente strutturata a tal fine (sentenza CGE C-475/99, punto 19 e C-108, punto 42) venga successivamente alla cessione integrata dal nuovo imprenditore attraverso l’impiego di mezzi propri per continuare a rendere la medesima attività economica precedentemente resa dalla parte di impresa o di stabilimento ceduta; ovvero, in contrario, se in tali ipotesi sussista una situazione che, in relazione al variare dell’organizzazione seguente alla cessione, ai sensi dell’art. 4 della Direttiva giustifica, da parte del datore di lavoro cedente l’attività economica, il licenziamento dei dipendenti addetti che in ragione della cessione dell’attività medesima al nuovo imprenditore risultino esuberanti perché privi dell’attività alla quale erano addetti. Se la Direttiva 2001/23/CE (in particolare, l’art. 1, par. 1, lett. a) e b) con riferimento all’art. 6, par. 1, comma 4) debba essere interpretata nel senso che la nozione di “trasferimenti di parte di impresa di stabilimenti” compresa la situazione in cui un’ impresa esercente un servizio telefonico, seguendo le esigenze di efficienza e modernizzazione imposte dal mercato e attuate dai propri competitors del settore della telefonia nazionale ed internazionale, trasferisca a terzi imprenditori dei servizi in outsourcing parti di impresa o di stabilimento destinate allo svolgimento delle attività di back office qualora: a) Le risorse trasferite siano organizzate in capo ad un soggetto giuridico autonomo costituito in impresa societaria al fine dello svolgimento dell’attività economica trasferita verso il mercato, seppur sia preponderante l’attività svolta per l’imprenditore cedente; b) L’impresa così costituita continui senza soluzione di continuità l’attività precedentemente svolta dalla parte di impresa o di stabilimento allo svolgimento delle attività presso l’imprenditore cedente, compreso il personale con funzioni direttive; c) L’impresa cessionaria impieghi, almeno per un rilevante periodo di tempo immediatamente dopo la cessione, i suddetti lavoratori in funzioni identiche a quelle precedentemente svolte presso il cedente; d) L’impresa cessionaria impieghi mezzi propri, nonché sistemi informatici in parte propri e in parte concessi in uso mediante contratti di appalto onerosi da parte dell’impresa cedente, in modo da essere sufficientemente strutturata per il perseguimento del proprio obiettivo consistente nell’offerta i servizi sul mercato dell’outsourcing di back office; 3. “Se la disciplina dell’Unione Europea in tema di “trasferimento di parte di impresa o di stabilimento” (in particolare l’art. 1, paragrafo 1, lett. a), con riferimento all’art. 3, paragrafo 1, della Direttiva 2001/23/CE), in relazione all’interpretazione vincolante di essa fornita dalla Sentenza della Corte di Giustizia nella causa C458/12 (Amadori e altri) secondo cui deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale, come l’art. 2112 c.c., comma 5, la quale in presenza di un trasferimento di una parte di impresa consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro, nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento, una volta identificate dalle parti a norma della disciplina nazionale, gli effetti di cui all’art. 3 della direttiva si intendano applicabili a favore dei dipendenti della preesistente di una ” entità produttiva”, ma in presenza di una preesistente attività economica, cioè di un’organizzazione volta alla fornitura di servizi svolta dalle parti di impresa o di stabilimento cedute, se sia consentita o meno ai lavoratori la prova contraria volta all’esclusione dell’applicazione degli effetti previsti dall’art. 3 della direttiva 4. Se la Direttiva 2001/23/CE, art. 1, par. 1, art. 3, par. 1, comma 1, ostano a una norma come quella del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3, come interpretata dalla giurisprudenza italiana prevalente, laddove esclude in via generale, anche in relazione all’art. 2112 c.c., comma 6, l’applicazione della Direttiva 2001/23/CE all’acquisizione da parte del nuovo appaltatore di un gruppo organizzato di lavoratori e/o della parte rilevante dei lavoratori precedentemente già impiegato nello svolgimento delle attività oggetto dell’appalto o al subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, contratto collettivo nazionale o di clausola di contratto di appalto”.

4.3. Giova premettere che l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (cfr., tra molte, Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (cfr. Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007).

Invero è noto (v. Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (tra le altre, v. Cass. n. 6862 del 2014; Cass. n. 13603 del 2011).

D’altro canto è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (v. Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza: Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16).

Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un “acte clair” che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (Corte di giustizia, 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit; e, per la giurisprudenza di questa Corte, tra le altre: Cass. SS.UU. n. 12067 del 2007; Cass. n. 22103 del 2007; Cass. n. 4776 del 2012; Cass. n. 26924 del 2013).

4.4. Ciò premesso, non reputa questo Collegio che le articolate difese delle istanti introducano nuovi elementi di valutazione, pertinenti alla materia del contendere, tali da giustificare un rinvio alla Corte di Giustizia che già si è espressa, più volte, sulle problematiche di diritto sottese alle enunciate richieste ex art. 267 TFUE.

Deve osservarsi che in passato la giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punti 11 e 12) ha adottato un concetto di entità economica per delineare la cd. “unità minima di impresa” funzionale alla nozione di trasferimento d’azienda, giudicando come criterio decisivo il “mantenimento dell’identità economica trasferita”, al fine di non determinare una mera cessione di elementi patrimoniali con l’esclusione del passaggio dei rapporti di lavoro, ma successivamente (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C 13/95, Suzen, punto 14) ha iniziato a valorizzare – come si è detto – una valutazione sistematico-complessiva di indici da cui desumere l’esistenza di una entità economica organizzata (mezzi di gestione, organizzazione del lavoro, personale).

Tale scelta giurisprudenziale fu adottata dal legislatore comunitario, in modo sistematico ed organico, appunto nella direttiva 2001/23/CE, e va qui ribadito che per l’ordinamento comunitario il trasferimento deve riguardare una entità economica organizzata in modo stabile (la cui attività non si limiti all’esercizio di un’opera determinata) la quale sia costituita da qualsiasi complesso organizzato di persone e di elementi, che consenta l’esercizio di una attività economica che sia finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sia sufficientemente strutturata ed autonoma, di talché l’entità economica deve, in particolare, godere, anteriormente al trasferimento, di una autonomia funzionale sufficiente (v., per tutte, Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).

Il requisito della preesistenza (secondo la CGUE) sta, quindi, ad indicare che il complesso organizzativo deve essere già concretamente preordinato presso il cedente all’esercizio dell’attività economica, in una sintesi tra elemento strutturale e profilo funzionale.

Per la Corte di Giustizia è escluso che il legame tra autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto e la materialità dello stesso possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, perché ciò sarebbe in contrasto con la disciplina comunitaria sulla inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.

L’atto di identificazione da parte del cedente – coerentemente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte – deve, quindi, avere un contenuto accertativo e non costitutivo, nel senso che la cessione presuppone l’individuazione del ramo nel contesto aziendale, ma non la sua creazione.

Con riguardo, poi, alla possibilità per i lavoratori di fornire prova contraria volta all’esclusione dell’applicazione degli effetti previsti dall’art. 3 dalla Direttiva 2001/23/CE, va ribadito l’assunto secondo cui l’attività dei giudici interni nell’applicazione del diritto dell’Unione si informa al principio dell’autonomia procedurale, in virtù del quale in assenza di provvedimenti di armonizzazione, i diritti attribuiti dalle norme comunitarie devono essere esercitati, innanzi ai giudici nazionali, secondo le modalità stabilite dalle norme interne, nel rispetto dei principi di effettività e di equivalenza.

In tema di trasferimento di azienda, secondo l’ordinamento processuale italiano, il lavoratore ben può fare accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e, quindi, l’inefficacia di questo nei suoi confronti in difetto del suo consenso, per l’inapplicabilità dell’art. 2112 c.c. e l’operatività della regola generale di cui all’art. 1406 c.c. (cfr. Cass. n. 11832 del 2014).

Relativamente, poi, alla tematica dell’identità dell’azienda, dopo il trasferimento (oggetto anche essa delle altre richieste di rinvio pregiudiziale), è opportuno evidenziare che la questione, così come prospettata, non risulta direttamente pertinente rispetto alla ragione fondante il decisum della Corte territoriale, che è radicata sull’assenza di autonomia funzionale del ramo ceduto piuttosto che sull’utilizzazione del compendio da parte del cessionario in modo diverso, nell’ambito della propria struttura organizzativa.

In ogni caso, con la sentenza del 12 febbraio 2009 (Corte di Giustizia, causa C-466/07, Klarenberg, punti da 45 a 48) è stato precisato che l’art. 1 n. L. lett. b) della direttiva 2001/23/CE definisce esso stesso l’identità di una entità economica facendo riferimento a un “insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” ponendo, così l’accento non solo sull’elemento organizzativo dell’entità trasferita, ma anche su quello del proseguimento della sua attività economica.

E’ stato affermato che la condizione relativa al mantenimento dell’identità di una entità economica ai sensi della Direttiva 2001/23 va interpretata prendendo in considerazione i due elementi, quali previsti dall’art. 1 n. 1 lett. b), della direttiva 2001/23 che, considerati nel loro insieme, costituiscono tale identità nonché l’obiettivo della protezione dei lavoratori contemplato da tale direttiva. Il mantenimento di un siffatto nesso funzionale tra i vari fattori trasferiti consente al cessionario di utilizzare questi ultimi, anche se essi sono integrati, dopo il trasferimento, in

una nuova diversa struttura organizzativa al fine di continuare un’attività economica identica o analoga.

Parimenti, in altra sentenza (Corte di Giustizia, 27 febbraio 2020, causa C-298/18, Grafe, punto 26) è stato ribadito che il fatto, per una entità economica, di rilevare l’attività economica di un’altra entità economica, non consente di concludere nel senso che sia stata conservata l’identità di quest’ultima, non potendo l’identità di siffatta entità essere ridotta all’attività che le è affidata. L’identità emerge, secondo la CGUE, da una pluralità di elementi inscindibili tra loro, quali il personale che la compone, i suoi quadri direttivi, la sua organizzazione del lavoro, i suoi metodi di gestione ed anche, eventualmente, i mezzi di gestione a sua disposizione (cfr. anche Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43), nonché il trasferimento o meno della clientela, il grado di somiglianza delle attività esercitate prima e dopo il trasferimento e la durata di una eventuale sospensione di queste ultime. Il tutto in un’ottica secondo la quale tali elementi costituiscono soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente (Corte di Giustizia, 26 novembre 2015, causa C509/14, Administrador de Infraestructuras Ferroviarias, punto 32).

La Corte di Giustizia ha, quindi, sottolineato che spetta sempre al giudice del rinvio valutare se, all’esito dell’accertamento del procedimento principale, l’identità dell’entità trasferita sia stata conservata (per tutte Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 45; Corte di Giustizia, 27 febbraio 2020, causa C-298/18, Grafe, punto 36), in virtù, come dinanzi più volte evidenziato, di un giudizio globale del complesso delle circostanze che caratterizzano l’operazione.

4.5. Dato atto degli orientamenti della Corte di Giustizia in materia (che devono ritenersi idonei – per la loro chiarezza – a risolvere i quesiti di compatibilità avanzati dalle società ricorrenti) e non essendo ravvisabili ulteriori elementi che impongano l’attivazione di un nuovo rinvio pregiudiziale, perché le problematiche di diritto prospettate non si pongono in contrasto con la normativa comunitaria ma richiedono unicamente una valutazione di fatto degli elementi da parte del giudice nazionale, vanno disattese tutte le richieste di rinvio alla Corte di Giustizia, “non esistendo alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de Schooten & Rezabek c. Belgio) ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, caso Wind Telecomunicazioni c. Italia, p.36)” (in termini: Cass. Sez. Un. 14042 del 2016; conf. Cass. n. 14828 del 2018).

5. Pertanto, alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, deve essere ribadito il rigetto dei motivi di ricorso in scrutinio.

6. Le spese di lite sono liquidate secondo soccombenza nel rapporto processuale tra Vodafone Italia s.p.a. ed I.A.. Non vi è luogo per il regolamento delle spese di lite nel rapporto processuale tra Comdata s.p.a. e la I., non avendo questa svolto attività difensiva in relazione al ricorso proposto dalla detta società, e nel rapporto processuale fra le due società non avendo Comdata espresso una posizione in contrasto con quella della società Vodafone Italia.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di tutte le parti ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Condanna Vodafone Italia s.p.a. alla rifusione alla controricorrente I. delle spese di lite che liquida in Euro 10.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori, come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle società ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per i ricorsi proposti, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2021

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