Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24686 del 19/10/2017


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Cassazione civile, sez. I, 19/10/2017, (ud. 11/04/2017, dep.19/10/2017),  n. 24686

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13663/2011 R.G. proposto da:

I.H.C. – INTERNATIONAL HANDLING CORPORATION S.R.L., in persona del

legale rappresentante p.t. S.S., rappresentata e difesa

dagli Avv. Franco Macocco e Roberto Faccini, con domicilio eletto

presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Orazio, n. 3;

– ricorrente –

contro

SEBIN DI S.V. & C. S.A.S., in persona del legale

rappresentante p.t. V.S., rappresentata e difesa dagli

Avv. Luisella Collu e Marcello Molè, con domicilio eletto presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, via N. Porpora, n. 16;

– controricorrente –

e

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino depositata il 24

gennaio 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 aprile

2017 dal Consigliere MERCOLINO Guido.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Sebin di S.V. & C. S.a.s. convenne in giudizio ITH.C. – International Handling Corporation S.r.l., chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 30.000,00, consegnata alla convenuta a titolo di mutuo, con assegno bancario del (OMISSIS).

Si costituì la convenuta, e resistette alla domanda, sostenendo di non aver mai avuto rapporti con l’attrice, la quale aveva invece intrattenuto rapporti con il V., in qualità di procuratore e consigliere di amministrazione di un’altra società, la Proema S.p.a., che, dopo aver acquistato una quota di partecipazione ad essa IHC, le aveva concesso un finanziamento di Euro 30.000,00; aggiunse di aver concesso alla Proema un finanziamento di Lire 50.000.000, mediante un assegno emesso il 15 novembre 2001, e chiese pertanto di essere autorizzata a chiamarla in causa, per sentirla condannare alla restituzione della predetta somma.

A seguito della chiamata a causa, l’IHC rinunciò peraltro alla domanda proposta nei confronti della Proema, dichiarata nel frattempo fallita.

1.1. Con sentenza del 9 luglio 2008, il Tribunale di Torino rigettò lei domanda, ritenendo non provato che la somma versata dall’attrice fosse stata corrisposta per un titolo che ne implicasse la restituzione.

2. L’impugnazione proposta dalla Sebin è stata accolta dalla Corte d’appello di Torino, che con sentenza del 24 gennaio 2011 ha condannato l’IHC alla restituzione della somma di Euro 30.000,00, oltre interessi, dichiarando assorbito il gravame incidentale proposto dall’appellata.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto innanzitutto provato che la Sebin aveva consegnato all’IHC un assegno, regolarmente incassato, il cui importo era stato contabilizzato dall’attrice come finanziamento verso terzi, e dalla convenuta come finanziamento soci.

Tanto premesso, ha tuttavia rilevato l’equivocità delle annotazioni contabili dell’IHC, dalle quali emergeva da un lato che l’incasso era confluito nel versamento soci conto infruttifero, anche se indicato nel libro giornale come “versamento socio Proema”, e dall’altro che il conto finanziamento soci, pari ad Euro 127.723,00 all’inizio dell’anno 2003, alla fine dell’esercizio si era ridotto ad Euro 86.241,83, per effetto non solo della movimentazione del conto, ma anche della compensazione di perdite di esercizio; nel bilancio, l’intero importo risultante a fine esercizio era invece indicato fra i debiti come “versamento socio S.”, senza che fosse stata annotata alcuna restituzione tale da giustificare l’annullamento dell’appostazione contabile del versamento effettuato dalla Proema. Pur riconoscendo, quindi, che la somma versata era confluita nel conto finanziamento soci, ha concluso che non era chiara l’imputazione contabile della corrispondente partita a debito, che in bilancio non risultava comunque intestata alla Proema.

Ciò posto, e rilevato che la stessa convenuta aveva ammesso di aver ricevuto la somma come finanziamento, e quindi per un titolo che ne implicava la restituzione, ha affermato comunque che, anche a voler considerare il titolo equiparabile a quello di un versamento soci, nulla deponeva nel senso di un finanziamento in conto capitale, non suscettibile di restituzione se non in sede di liquidazione, anzichè di un finanziamento a titolo di mutuo. Premesso che la distinzione tra le due fattispecie richiedeva l’interpretazione della volontà contrattuale, ha sottolineato ancora la chiarezza dell’indicazione risultante dalla contabilità della società emittente e l’equivocità di quelle emergenti dalla contabilità della ricevente, osservando comunque che l’unico dato certo di quest’ultima era costituito dal riconoscimento dell’avvenuta ricezione della somma a titolo di finanziamento, la cui provenienza non già da un socio, ma da un terzo interessato alla società, confermava la fondatezza dell’assunto dell’attrice.

In ordine all’onerosità del mutuo, la Corte ha ritenuto infine applicabile la presunzione di cui all’art. 1815 c.c., escludendo che la registrazione del versamento nel conto finanziamento soci infruttifero costituisse prova di una pattuizione contraria.

3. Avverso la predetta sentenza l’IHC ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. La Sebin ha resistito con controricorso. Il curatore del fallimento non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione, sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione all’inosservanza dell’onere, posto a carico del ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, d’indicare gli atti e i documenti sui quali si fonda il ricorso.

Il tenore delle censure proposte dal ricorrente consente infatti di ritenere sufficienti, ai fini del relativo esame, i puntuali richiami del ricorso agli atti ed ai documenti relativi alle fasi di merito, e di escludere quindi la violazione della norma invocata, la cui osservanza dev’essere verificata con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione, e può dunque condurre alla declaratoria d’inammissibilità soltanto quando si tratti di censure rispetto alle quali uno o più specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioè quando, senza l’esame di quell’atto o di quel documento, la comprensione del motivo di doglianza e dei relativi presupposti fattuali, nonchè la valutazione della sua decisività, risulterebbero impossibili (cfr. Cass., Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16887).

2. E’ altresì infondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione all’avvenuta formulazione, a conclusione di ciascuna censura, del quesito di diritto o del momento di sintesi prescritti dall’art. 366 – bis c.p.c., per la deduzione dei motivi di doglianza previsti rispettivamente dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e dal n. 5.

L’intervenuta abrogazione della predetta disposizione ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), pur escludendone l’applicabilità ai ricorsi, come quello in esame, aventi ad oggetto provvedimenti pubblicati in data successiva a quella di entrata in vigore della predetta legge, come espressamente previsto dall’art. 58, comma 5, non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione i cui motivi risultino corredati dal requisito da essa prescritto, non sussistendo al riguardo alcuna espressa previsione d’invalidità, e non essendo configurabile neppure la nullità di cui all’art. 156 c.p.c., comma 2, in quanto l’atto, munito del contenuto prescritto dalla legge, non può ritenersi viziato per la sola presenza di elementi sovrabbondanti, ma privi di riflessi negativi su quelli essenziali (cfr. Cass., Sez. 2, 21/09/2012, n. 16122).

3. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1813,2697 e 2709 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la dazione della somma versata avesse avuto luogo in virtù di un titolo che ne implicava la restituzione, senza che l’attrice fosse stata in grado di fornire la prova della stipulazione di un contratto di mutuo e della previsione di un obbligo di restituzione, della fissazione di un termine e del riconoscimento d’interessi. Premesso infatti che il termine “finanziamento”, adoperato nella contabilità della Sebin, attesta soltanto la dazione di una somma di denaro, afferma che, nel richiamare le scritture contabili di essa ricorrente, la Corte di merito ne ha indebitamente scisso il contenuto, non avendo considerato che il versamento non era stato imputato all’attrice, ma alla Proema.

4. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la portata decisiva attribuita all’annotazione contabile della Sebin si pone in contrasto con l’imputazione del versamento alla Proema e con la constatazione che l’attrice non era socio dell’IHC, mentre il riconoscimento dello obbligo di restituzione è contraddetto dalla constatazione che il versamento era stato compensato con perdite di esercizio.

5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’artt. 1362 e ss. c.c., sostenendo che, nell’interpretazione della volontà delle parti, la sentenza impugnata si è limitata a fare riferimento alle scritture contabili di essa ricorrente, senza valutare i rapporti intercorsi tra le parti ed il loro comportamento complessivo, dettagliatamente descritti nella relazione del c.t.u. nominato in primo grado.

6. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1815 c.c., nonchè la contraddittorietà della motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto applicabile la presunzione di onerosità del mutuo, pur avendo accertato che il versamento era annotato come debito infruttifero nelle scritture contabili di essa ricorrente e non era annotato come credito fruttifero in quelle della Sebin.

7. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, concernente la qualificazione del versamento effettuato dalla società attrice, sono infondati.

La conclusione cui è pervenuta la Corte di merito, secondo cui la predetta dazione aveva avuto luogo a titolo di mutuo oneroso, anzichè di finanziamento soci infruttifero, trova infatti giustificazione non già nel mero richiamo alle risultanze della contabilità della Sebin, così come ricostruita dal c.t.u. nominato nel corso dell’istruttoria, ma in una valutazione globale degli elementi documentali acquisiti agli atti, nell’ambito della quale hanno trovato spazio anche l’esame delle scritture contabili dell’IHC, dal cui contenuto la sentenza impugnata ha desunto il riconoscimento dell’avvenuta effettuazione del versamento a titolo di finanziamento, nonchè la considerazione dell’appostazione in bilancio dell’importo versato tra i debiti diversi, ritenuta indicativa dell’avvenuta ricezione dello stesso per un titolo che ne implicava la restituzione.

Tale iter argomentativo, immune da vizi logici, non trova smentita nella circostanza, fatta valere dalla ricorrente, che nella contabilità della stessa il versamento fosse stato imputato alla Proema, in qualità di socio dell’IHC, come finanziamento infruttifero, e compensato con perdite di esercizio, avendo la sentenza impugnata sottolineato specificamente la contraddittorietà degli elementi risultanti dalla predetta contabilità, con la conseguente valorizzazione, ai fini della decisione, di alcuni soltanto degli stessi, e precisamente di quelli che trovavano riscontro nelle scritture contabili della società attrice. Pur traducendosi in una parziale esclusione della rilevanza probatoria degli elementi acquisiti, tale apprezzamento non si pone in alcun modo in contrasto con l’art. 2709 c.c., il quale, nel disporre che i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione costituiscono prova contro l’imprenditore, ma la parte che intenda trarne vantaggio non può scinderne il contenuto, non impone affatto di prestarvi fede o di considerarle inattendibili nella loro totalità, ma solo di valutarle integralmente, quale che sia la parte a favore o a carico della quale depongono, trattandosi di elementi che, al pari delle altre prove, restano assoggettati al prudente apprezzamento del giudice, ai fini della libera formazione del suo convincimento (cfr. Cass., Sez. 3, 11/11/2005, n. 22896; 7/04/1989, n. 1679; Cass., Sez. 2, 18/03/1999, n. 2473). In quest’ottica, non merita censura neppure l’esclusione del carattere infruttifero del mutuo, essendo stata espressamente rilevata l’insufficienza dell’annotazione contenuta nella contabilità della convenuta, ai fini della dimostrazione di una specifica pattuizione in tal senso, con la conseguente applicazione della presunzione di onerosità stabilita dall’art. 1815 c.c.,

Nel contestare la valenza probatoria attribuita ai predetti elementi, ai fini della ricostruzione della comune intenzione delle parti, la ricorrente non è d’altronde in grado d’indicare le lacune argomentative o le incongruenze del ragionamento seguito dalla Corte di merito, ma si limita a lamentare l’omessa valutazione dei complessi rapporti intercorsi tra le stesse, così come descritti dal c.t.u. nella sua relazione, senza tener conto della specifica attenzione che la sentenza impugnata ha riservato alla posizione ed alle qualifiche rivestite dai soggetti cui risultavano imputati i versamenti annotati nella contabilità, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso la denuncia di violazione delle regole ermeneutiche, una diversa ricostruzione della fattispecie, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logico – formale delle argomentazioni svolte a fondamento della decisione. In tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può infatti investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con la conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito, che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr. Cass., Sez. 3, 26/05/2016, n. 10891; 10/02/2015, n. 2465; Cass., Sez. lav., 15/04/2013, n. 9070).

8. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente, che si liquidano come dal dispositivo, in misura pari alla media prevista dai vigenti parametri e con esclusione del compenso relativo alla fase decisionale, in considerazione della relativa complessità delle questioni trattate e del mancato deposito di memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Nei rapporti con il curatore del fallimento, non occorre invece provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017

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