Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24683 del 02/12/2016


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Cassazione civile sez. lav., 02/12/2016, (ud. 06/10/2016, dep. 02/12/2016), n.24683

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6829/2011 proposto da:

D.A.R. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA MARTIRI DI BELFIORE 2 presso lo studio dell’avvocato RICCARDO

CHILOSI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

FONDO DI PREVIDENZA PER I DIRIGENTI DI AZIENDE COMMERCIALI E DI

SPEDIZIONE E TRASPORTO N.M., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente iomiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO 25, presso preso lo studio dell’avvocato ETTORE

PAPARAZZO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9036/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/03/2010 r.g.n. 2976/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA MARCELLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza 15 marzo 2010, la Corte d’appello di Roma rigettava le domande di D.A.R. di condanna del datore Fondo di Previdenza per i Dirigenti di Aziende Commerciali e di Spedizione e di Trasporto N.M. alla reintegrazione nelle mansioni precedenti o equivalenti e al risarcimento del danno da demansionamento e da menomazione dell’immagine professionale: così riformando la sentenza del primo giudice, che, dato atto della sua rinuncia alla domanda di reintegrazione nelle mansioni per pensionamento, aveva condannato il Fondo al pagamento, in favore del lavoratore, della somma di Euro 48.066,20 (anzichè di quella maggiore di Euro 200.000,00 richiesta).

In esito a scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale escludeva il denunciato demansionamento, per il mantenimento al lavoratore delle mansioni di responsabile degli uffici di gestione e manutenzione del patrimonio immobiliare e della qualifica di quadro in qualità di assistente, con una contrazione tuttavia delle sue attività e conseguente riduzione del personale a lui sottoposto, a seguito di una documentata (nè contestata) legittima riorganizzazione aziendale, comportante un accorpamento delle funzioni in tre macroaree, per effetto di una drastica dismissione del patrimonio immobiliare.

Essa riteneva pertanto una giustificata limitazione quantitativa, non anche qualitativa, delle mansioni del lavoratore, senza perdita di professionalità nè di immagine, per il mantenimento del livello di quadro e del relativo trattamento retributivo nell’insindacabile mutato assetto organizzativo aziendale; pure negando, infine, che egli fosse rimasto sostanzialmente inoperoso.

Con atto notificato l’11 marzo 2011, D.A.R. ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste il Fondo di Previdenza N.M. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea configurabilità di una dequalificazione per “giustificato motivo oggettivo” connessa ad esigenze organizzative e produttive del Fondo di previdenza M.N. (in difetto di alcun collegamento a licenziamenti collettivi nè individuali, tanto meno per giustificato motivo oggettivo) e insufficiente e incongrua motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, giustificante la sussistenza di un c.d. “patto di demansionamento”.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea attribuzione al lavoratore dell’onere probatorio della dequalificazione professionale subita e omessa e carente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine alle posizioni processuali delle parti e ai fatti dimostrati.

Con il terzo, il ricorrente deduce vizio di contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nell’esclusa violazione datoriale dell’art. 2103 c.c., nonostante la ravvisata sussistenza di indici rivelatori della dequalificazione professionale del lavoratore.

I tre motivi illustrati, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati.

Nella comune convergenza dei profili di denuncia nella doglianza di dequalificazione professionale del lavoratore, essi non colgono la reale portata decisoria della sentenza impugnata.

Ed infatti, premessa l’incontestata ricostruzione in fatto della vicenda (dall’ultimo capoverso di pg. 5 al quinto di pg. 6 della sentenza), la Corte territoriale ha chiaramente e nettamente escluso il demansionamento di D.A.R. per il suo mantenimento delle mansioni originarie, del livello di inquadramento e del trattamento retributivo (così al terz’ultimo capoverso di pg. 6, al penultimo di pg. 8 e ancora al penultimo di pg. 11 della sentenza).

In esito ad argomentato e critico esame delle risultanze istruttorie, esente da alcun vizio logico nè giuridico (tanto meno di contraddittorietà), la Corte capitolina ha ritenuto una mera contrazione quantitativa (depotenziamento) e non qualitativa di mansioni, senza riflessi negativi sulla professionalità specifica del lavoratore (così in particolare al primo e secondo capoverso di pg. 8 e al terz’ultimo di pg. 9 della sentenza): in esatta applicazione dei principi regolanti il controllo giudiziale sul corretto esercizio dello ius variandi datoriale (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 8 al primo di pg. 9 della sentenza). E ciò sulla base dell’accertato (e neppure contestato) processo di riorganizzazione aziendale (essenzialmente consistito nell’accorpamento dei vari settori in tre macro aree anche per effetto della drastica dismissione del patrimonio immobiliare del Fondo previdenziale, ridotto da 2.000 a 380 immobili e della parimenti significativa contrazione dei contratti di locazione da 1.500 a 300): insindacabile dal giudice sotto i profili della razionalità nè dell’adeguatezza economica, non potendo il controllo giudiziale essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta imprenditoriale (Cass. 18 aprile 2007, n. 9263; Cass. 28 aprile 2009, n. 9921; Cass. 2 marzo 2011, n. 5099; Cass. 30 maggio 2016, n. 11126)

Sicchè, l’accertamento in fatto compiuto è insindacabile in sede di legittimità, per la devoluzione ivi del solo controllo, sotto i profili di correttezza giuridica e di coerenza logico – formale, delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).

Dalle superiori discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna D.A.R. alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2016

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