Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2468 del 04/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 2468 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 7724-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

3678

ZAVATTA MONICA;
– intimati –

avverso la sentenza n. 271/2012 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 04/02/2014

di ANCONA, depositata il 15/03/2012 r.g.n. 659/2007;
avverso la sentenza non definitiva n. 762/2011 della
CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 19/10/2011
r.g.n. 659/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

NOBILE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO

R.G. 7724/2013

7

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Wfra

Con sentenza n. 271 del 2006 il Giudice del lavoro del Tribunale di
Ancona, in accoglimento della domanda proposta da Monica Zavatta nei

contratto di lavoro concluso tra le parti, dal 2-11-1998, per “esigenze
eccezionali” ex art. 8 =l 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., con
la conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato da tale data, e
condannava la società al ripristino del rapporto e alla corresponsione delle
retribuzioni a decorrere dalla costituzione in mora dell’8-4-2004, oltre interessi
legali e rivalutazione monetaria (cumulativamente dalla maturazione al
soddisfo) nonché ai relativi contributi previdenziali.
La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
.

riforma con il rigetto della domanda di controparte.
La Zavatta si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza non definitiva depositata il
19-10-2011, respingeva l’appello limitatamente alle statuizioni circa la
declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine, circa
, l’accertamento della prosecuzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato
tuttora in essere nonché circa la condanna della società alla riammissione della
Zavatta nel posto di lavoro.
Con successiva sentenza definitiva depositata il 15-3-2012 la detta Corte
territoriale condannava, poi, la società al pagamento in favore della Zavatta
della “indennità onnicomprensiva di cui all’art. 32, comma 5, della legge n.
183 del 2010, nella misura di otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di

confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al

fatto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria ISTAT come per legge dal
contratto di lavoro al saldo.”

)#

Per la cassazione delle dette sentenze la società ha proposto ricorso con
quattro motivi.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza non definitiva nella
parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo
consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di
interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di
tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione
di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le
circostanze atte a contrastare tale presunzione.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
2

La Zavatta è rimasta intimata.

ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione

ro

del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,

tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni
rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente
ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei
comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver richiamato la
giurisprudenza di legittimità in materia, ha rilevato che alcun altro elemento di
fatto in qualche modo significativo è emerso oltre il decorso del tempo (nella
specie neppure rilevante, trattandosi di poco meno di un triennio), mentre,
invece, i contrasti giurisprudenziali, all’epoca, sulla validità dei contratti a
termine giustificavano un “atteggiamento di prudente attesa da parte della
lavoratrice” e la reiterazione di tali contratti risultava tali da creare nella
lavoratrice stessa “la ragionevole attesa di una nuova chiamata”, di guisa che il
comportamento della medesima non poteva considerarsi chiaramente ed
3

Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca

univocamente come indicativo di una volontà di risolvere definitivamente il
rapporto.

o,

Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.

legge e del vizio di motivazione) la sentenza non definitiva nella parte in cui ha
ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato
(per “esigenze eccezionali…”) oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi
collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997 ed all’uopo sostiene la insussistenza
di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi.
Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia
dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al
ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
4

Con il secondo motivo la società censura (sotto i profili della violazione di

procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi

dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto
collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
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vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste

n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto anche il secondo
motivo.

cui ha determinato in otto mensilità della retribuzione mensile di fatto la
indennità di cui all’art.32 comma 5 della legge n. 183/2010. Sostiene la
ricorrente che la Corte di merito non avrebbe proceduto ad una “completa ed
espressa analisi dei criteri di legge” ed erroneamente avrebbe escluso
l’applicabilità nel caso di specie della riduzione del limite massimo a sei mesi
ai sensi del comma sesto del citato articolo 32, avendo essa società “fin dal
2006 sottoscritto con le 00.SS. accordi volti alla stabilizzazione dei rapporti di
lavoro convertiti a seguito di provvedimenti giudiziali ed a costituire una
graduatoria dalla quale attingere in ipotesi di necessità”. In particolare la
ricorrente sostiene che, in base all’interpretazione letterale della norma, il fatto
oggettivo della adozione di detti accordi, a prescindere dalla estensibilità o
meno degli stessi in concreto nel caso in esame, sarebbe sufficiente a ritenere
applicabile la riduzione alla metà del limite massimo dell’indennità de qua.
Tale motivo in parte è inammissibile e in parte è infondato.
Come è stato precisato da questa Corte (v. Cass. 29-2-2012 n. 3056)
l’indennità in esame “configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice
offerta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di
penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo,
ed è liquidata dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dal citato art.32 (che
richiama i criteri indicati nell’art. 8 1. 604/1966), a prescindere dall’intervenuta
6

Con il terzo motivo la società censura la sentenza definitiva nella parte in

costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno
effettivamente subito dal lavoratore, trattandosi di indennità “forfetizzata” e
“onnicomprensiva” per i darmi causati dalla nullità del termine nel periodo
cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza del termine alla sentenza di

In senso conforme a quanto già affermato dalla Corte Costituzionale e da
questa Corte di legittimità è stata poi emanata la legge n. 92 del 28-6-2012 (in
G.U. n. 153 del 3-7-2012), che all’art. 1 comma 13, con chiara norma di
interpretazione autentica, ha così disposto: “La disposizione di cui al comma 5
dell’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che
l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore,
comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo
compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il
quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
Ciò posto, sulla base di tali premesse e dei principi generali sul sindacato
di legittimità, in specie ex art. 360 n. 5 c.p.c., ritiene il Collegio che ben può
affermarsi che, anche nella fattispecie in esame (al pari di quanto più volte
affermato da questa Corte con riguardo all’indennità di cui all’art. 8 della legge
n. 604 del 1966 —v. Cass. 5-1-2001 n. 107, Cass.15-5-2006 n. 11107, Cass. 146-2006 n. 13732), la determinazione tra il minimo il massimo della misura
dell’indennità de qua spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di
legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.
Orbene nel caso in esame la Corte di merito ha affermato che “in relazione
ai criteri stabiliti nell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, tenuto conto delle
dimensioni nazionali della società datrice di lavoro e della connotazione
7

conversione del rapporto)”.

essenzialmente pretestuosa della apposizione del termine al contratto di lavoro,
bilanciate dalla limitata anzianità di servizio della persona lavoratrice , si

iqgg

ritiene equo determinare l’indennità onnicomprensiva in prossimità del termine
medio delle otto mensilità, nella assenza di deduzioni specifiche tali da

In tal modo la Corte territoriale non è incorsa né nel vizio di assenza di
motivazione, né in alcuna illogicità o contraddittorietà (che peraltro neppure
viene dedotta dalla ricorrente).
La censura pertanto risulta infondata, risultando peraltro inammissibile,
nel contempo, la revisione del “ragionamento decisorio” sul punto, in sostanza
proposta dalla ricorrente, comunque non sussumibile nel “controllo di logicità
del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 n. 5 c.p.c.” (v., fra le altre, Cass. 76-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).
Infondata è poi la censura riguardante l’interpretazione dell’art. 32 comma
sei citato.
Appare infatti evidente che la “presenza” di contratti o accordi collettivi
“che prevedano l’assunzione anche a tempo indeterminato, di lavoratori già
occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie”, deve
essere effettiva in relazione alla fattispecie concreta e non ipotetica o astratta.
Ciò che rileva, al fine della riduzione alla metà del limite massimo
previsto dalla norma, è la possibilità di una applicazione in concreto dei citati
contratti o accordi collettivi.
Orbene la stessa società nel ricorso riconosce che nel caso di specie non
era possibile, alla data della emissione della sentenza impugnata, l’adesione del

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giustificare una liquidazione superiore o inferiore”.

Zavatta agli accordi di stabilizzazione (essendo questi già in vigore fino al 3112-2010 e successivamente nuovamente soltanto dal 18-5-2012).
Tanto basta per rigettare anche la censura in esame.
Infine con il quarto motivo la società assume che l’indennità di cui all’art.

e/o rivalutazione non essendo applicabile nella fattispecie l’art. 429 c.p.c.(non
potendosi la stessa indennità annoverare tra i “crediti di lavoro”). In subordine
la ricorrente deduce che, in ogni caso, gli accessori non potrebbero che
decorrere dalla sentenza.
La censura principale è infondata in quanto l’indennità in esame deve
essere annoverata tra i “crediti di lavoro” ex art. 429, comma 3, c.p.c.., giacché,
come più volte è stato affermato da questa Corte, tale ampia accezione si
riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli
aventi natura strettamente retributiva (ad esempio, fra le altre, per i crediti
liquidati ex art. 18 1. n. 300/1970 v. Cass. 23-1-2003 n. 1000, Cass. 6-9-2006 n.
19159; per l’indennità ex art. 8 della legge n. 604 del 1966 v. già Cass. 21-21985 n. 1579; per le somme a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c.
v. Cass. 8-4-2002 n. 5024). D’altra parte l’indennità in esame rappresenta
comunque il ristoro (seppure “forfetizzato” e “onnicomprensivo”) dei danni
conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro,
relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della
sentenza di conversione del rapporto (cfr.in tal senso C. Cost. n. 303/2011,
Cass. 29-2-2012 n. 3056, nonché da ultimo art. 1 comma 13 legge n. 92 del 286-2012).
Fondata è invece la censura subordinata.
9

32 citato non sarebbe suscettibile di alcuna maggiorazione a titolo di interessi

Dalla natura, infatti, di liquidazione “forfetaria” e “onnicomprensiva” del
danno relativo al detto periodo consegue che gli accessori ex art. 429, terzo
comma, c.p.c. sono dovuti soltanto a decorrere dalla data della detta sentenza,
che, appunto, delimita temporalmente la liquidazione stessa.

Corte territoriale ha fissato la decorrenza degli interessi e della rivalutazione
“dal contratto di lavoro” (in contrasto con il carattere “onnicomprensivo” e
“forfetario” della indennità de qua).
L’impugnata sentenza, va pertanto cassata in relazione alla censura accolta
e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel
merito fissandosi la decorrenza degli interessi legali e della rivalutazione
monetaria nella data della sentenza (nel caso di specie di primo grado del 7-32006) che ha statuito sulla conversione del rapporto (dichiarando che il
rapporto tra la Zavatta e la società era a tempo indeterminato fin dall’origine e
da considerare ancora in corso).
Infine, mentre va confermata la statuizione sulle spese dei giudizi di
merito, ricorrono le ragioni ex art. 92 c.p.c., in considerazione della novità
delle questioni relative alla indennità ex art. 32 citato, per compensare le spese
del presente giudizio di cassazione tra le parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi tre motivi•, accoglie in parte il quarto, cassa la
sentenza definitiva in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito,
fissa nella data della sentenza che ha statuito sulla conversione del rapporto la
decorrenza degli interessi legali e della rivalutazione monetaria; conferma la

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In tal senso va, pertanto accolto, in parte, il quarto motivo, in quanto la

statuizione sulle spese dei giudizi di merito e compensa le spese del giudizio di
cassazione.

Roma 12 dicembre 2013

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