Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24675 del 02/12/2016

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2016, (ud. 28/09/2016, dep. 02/12/2016), n.24675

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19762-2014 proposto da:

C.G. C.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEGLI SCIPIONI 8, presso lo studio dell’avvocato CATERINA

ALAGGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato FILIPPO FERRARA,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.B.H. CITTA’ DI BARI HOSPITAL S.P.A. P.I. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE MAZZINI 73, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO

AUGUSTO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1117/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 05/05/2014 r.g.n. 239/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2016 dal Consigliere Dott. BALESTRIERI FEDERICO;

udito l’Avvocato FERRARA FILIPPO;

udito l’Avvocato MERICO PAOLA per delega Avvocato AUGUSTO ENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 4 novembre 2008 C.G. chiedeva accertarsi l’illegittimità del licenziamento intimatogli ex L. n. 223 del 1991, in data 10 maggio 2002 dalla CBH – Città di Bari Hospital s.p.a. (d’ora in avanti CBH) per inesistenza dei presupposti di legge, con condanna della datrice di lavoro alla reintegra e al risarcimento dei danni L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

Radicatosi il contraddittorio, la convenuta eccepiva che il ricorrente era incorso nella decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, e che l’azione proposta si era prescritta ex art. 1442 c.c..

Nel merito deduceva l’infondatezza della domanda.

Con sentenza del 9 giugno 2011 il Tribunale di Bari rigettava il ricorso, accogliendo l’eccezione di decadenza sollevata dalla convenuta.

Riteneva il primo giudice che il ricorrente non aveva fornito prova dell’impugnativa del licenziamento nel termine di sessanta giorni; che, a tal fine, non poteva tenersi conto della lettera datata 30 maggio 2002, perchè esibita dal ricorrente soltanto alla prima udienza e non anche unitamente al deposito del ricorso, sicchè la produzione era da ritenersi tardiva.

Con ricorso del 17 gennaio 2012 interponeva appello il C.. Resisteva l’appellata.

Con sentenza depositata il 14 maggio 2014, la Corte d’appello di Bari rigettava il gravame, ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione dell’azione (per il trascorrere di oltre cinque anni dall’impugnativa di licenziamento).

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il C., affidato a due motivi. Resiste la CBH s.p.a. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2343, 346 e 436 c.p.c., nonchè art. 329 c.p.c., comma 2, e art. 101 c.p.c., in relazione all’art. 24 Cost..

Lamenta che la sentenza impugnata accolse l’eccezione di prescrizione meramente riproposta in sede di appello dalla società, che avrebbe invece dovuto proporre appello incidentale sul punto.

Il motivo è infondato, posto che la società CBH è risultata vittoriosa in primo grado sicchè non avrebbe neppure potuto proporre appello incidentale. Richiamando (come è pacifico in causa) tutte le sue difese ed eccezioni (tra cui anche quella di prescrizione) la società ha adempiuto perfettamente l’onere su di essa gravante ex art. 346 c.p.c. (cfr., ex aliis, Cass. n. 3253/2012, Cass. n. 13430/2003), trattandosi di eccezione inerente fatti costitutivi del diritto.

2. – Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1442, in relazione all’art. 2113 c.c., nonchè della L. n. 108 del 1990, art. 5 e degli artt. 410 e 412 bis c.p.c., come introdotti dal D.Lgs. n. 80 del 1998 in vigore all’epoca dell’introduzione del giudizio.

Lamenta che l’azione di annullamento del licenziamento (del 10.5.02) venne proposta tempestivamente essendo stato tempestivamente impugnato il recesso in data 7.6.02, ed essendo stato proposto entro il quinquennio (25.3.06) la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Anche tale motivo è infondato.

Come già osservato da questa Corte (Cass. n. 18732/2013, Cass. ord. n. 20586/2015, Cass. n. 24366/2010), l’azione volta ad impugnare il licenziamento illegittimo, in quanto diretta a fare valere un vizio di annullabilità, si prescrive in cinque anni, e tale prescrizione determina – al pari della decadenza dall’impugnativa del licenziamento – l’estinzione del diritto di far accertare l’illegittimità del recesso datoriale e, quindi, di azionare le conseguenti pretese risarcitorie, residuando, in favore del lavoratore licenziato, la sola tutela di diritto comune per far valere un danno diverso da quello previsto dalla normativa speciale sui licenziamenti, quale ad esempio quello derivante da licenziamento ingiurioso.

Questa Corte ha in sostanza chiarito che in tema di impugnativa di licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., che decorre dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione (Cass. n. 24366/2010).

Con costante orientamento (cfr. Cass. n. 28514/08; Cass. n. 11116/06; Cass. n. 28428/05; Cass. n. 9502/93), cui va data continuità anche nella presente sede, questa S.C. ha quindi statuito che, una volta osservato il termine di decadenza previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, con l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento che si assume essere privo di giusta causa o di giustificato motivo, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento può essere proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., ma si tratta di termine insuscettibile di essere interrotto se non dalla proposizione stessa dell’azione giudiziale e non anche dal compimento di attività diversa, come l’istanza per il tentativo di conciliazione stragiudiziale.

Invero, l’azione di annullamento del licenziamento, come tutte le azioni costitutive, è espressione di un diritto potestativo, in quanto tale caratterizzato dalla situazione di soggezione, anzichè d’obbligo, in cui versa il soggetto passivo (il che importa l’irrilevanza di ogni suo comportamento ai fini della realizzazione del diritto, rimessa alla sola attività del titolare), nonchè dal sostanziarsi la realizzazione del diritto in un mutamento soltanto giuridico e non materiale.

Questa duplice caratteristica esclude la possibilità di atti interruttivi, sia perchè l’attività di realizzazione da parte del titolare produce l’estinzione satisfattiva dello stesso, sia per la predetta irrilevanza di ogni condotta del soggetto passivo, che rende giuridicamente non configurabile un atto di intimazione nei suoi confronti, atto di intimazione che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., comma 4, interrompe la prescrizione dei soli diritti di credito (in tal senso è unanime la dottrina, nonchè – in generale – pure la più remota giurisprudenza di questa Corte Suprema: v. Cass. n. 2414/76; Cass. n. 3713/71; Cass. n. 2546/69; Cass. n. 500/64). In altre parole, mentre la domanda giudiziale costituisce idoneo atto interruttivo riguardo a qualsiasi diritto suscettibile di prescrizione (e perciò è causa generale d’interruzione), la costituzione in mora del debitore (art. 2943 c.c., u.c.) può avere tale efficacia limitatamente ai diritti di obbligazione e non riguardo al diritto potestativo di annullamento di un negozio giuridico (quale è il licenziamento).

Per i fini che qui interessano, chiarito che, come deduce lo stesso ricorrente, la comunicazione al datore di lavoro della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione – avvenuta nel termine di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6 – impedisce la decadenza sancita dalla medesima norma (ma non interrompe la prescrizione), non rileva quanto dedotto dal ricorrente col secondo motivo, e cioè che ai sensi dell’art. 2113 c.c., comma 4, (che stabilisce l’inoppugnabilità delle rinunzie e transazioni intervenute in sede sindacale e davanti al giudice), sia stata posta sullo stesso piano l’attività della commissione di conciliazione e quella giudiziale, con la conseguenza che il tentativo di conciliazione, atto obbligatorio di giurisdizione condizionata (C. Cost. n. 276/2000), non potrebbe non interrompere la prescrizione dell’azione.

Tale tesi si pone in netto contrasto con la riferita opinione espressa da questa Corte, condivisa dal Collegio. Deve comunque evidenziarsi che la citata pronuncia del giudice delle leggi (Sent. n. 276/00) ha solo stabilito che l’interpretazione logico – sistematica della Legge di delega 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4, lett. g), induce a ritenere che l’affidamento al legislatore delegato della messa a punto di “procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” comprenda anche l’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie sul rapporto di lavoro privato “ex” art. 409 c.p.c.. D’altra parte, la tutela del diritto di azione non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento e la disciplina del tentativo obbligatorio di conciliazione “de quo” si ispira a criteri che rendono intrinsecamente ragionevole il limite dell’immediatezza della tutela giurisdizionale. Non è stata, pertanto, ritenuta fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 410, 410 bis e 412 bis c.p.c., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, artt. 36, 37 e 39 e dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 38, art. 19, impugnati, in riferimento agli artt. 76, 3 e 24 Cost., in quanto, nel rendere obbligatorio il tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro ex art. 409 c.p.c., avrebbero ecceduto i limiti della delega conferita con il menzionato art. 11, comma 4, lett. g), introducendo un inutile ostacolo allo svolgimento della giurisdizione.

Tale principio non intacca minimamente quanto osservato da questa Corte circa l’inidoneità del tentativo obbligatorio di conciliazione ad interrompere il termine di prescrizione dell’azione di annullamento del licenziamento, riguardando solo una legittima condizione (di procedibilità) per l’accesso alla giurisdizione, senza produrre effetti interruttivi sulla prescrizione.

3. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2016

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