Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24673 del 03/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 03/10/2019, (ud. 06/02/2019, dep. 03/10/2019), n.24673

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8592-2012 proposto da:

G. ITALIANA SPA, in persona del proprio Presidente,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio

dell’avvocato FRANCESCO D’AYALA VALVA, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ANTONIO LOVISOLO giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI MANTOVA;

– intimata –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 46/2012 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 17/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/02/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE D’AURIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IMMACOLATA ZENO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza n. 334 del 1972 l’Intendenza di Finanze di Mantova, richiedeva alla ditta individuale G. Italiana di G.R. il pagamento della somma di Lire 322595 oltre accessori, per evasione Ige, avendo accertato che era stata venduta merce per 80739611 Lire senza emissione di fatture.

Avverso tale atto impositivo il contribuente proponeva ricorso amministrativo al Ministro delle Finanze, che lo rigettava, con decreto del 25 settembre 1985, confermando le valutazioni dell’ufficio fiscale periferico.

Il G.R., agendo nella qualità di ex titolare della azienda, nelle more conferita alla spa G. Italiana, citava davanti al tribunale di Brescia l’amministrazione delle Finanze dello Stato, ritenendo insussistenti i presupposti per l’accertamento induttivo, e la mancanza di prova dell’elemento soggettivo ai fini della irrogazione della pena pecuniaria.

Il tribunale di Brescia respingeva la domanda ritenendo che il procedimento logico seguito per individuare la merce non fatturata era corretto, avendo il Fisco considerato sia i costi che i ricavi nonchè il magazzino merci, laddove era onere dell’imprenditore dimostrare le ipotizzate perdite di esercizio.

Proponeva appello la G. Italiana spa, che ribadiva l’inconsistenza del processo logico presuntivo posto a base della pretesa.

La Corte di appello di Brescia considerava inammissibile l’appello in quanto la società era estranea al giudizio di primo grado e alla pretesa fiscale.

Proponeva ricorso in cassazione la società G. Italiana che si affidava a tre motivi di gravame con cui, sia pure sotto profili diversi, rilevava la nullità della sentenza per error in procedendo avendo deciso sulla inammissibilità dell’appello sotto il profilo del merito, la violazione dell’art. 111 c.p.c. in tema di successione a titolo particolare, e del vizio di ultra petizione.

L’Agenzia delle Entrate non presentava alcun controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con i motivi di gravame, da esaminare congiuntamente, stante la loro evidente stretta connessione, in sostanza la società ricorrente si duole che sia stato considerato inammissibile l’appello dalla stessa proposta avverso la sentenza di primo grado del tribunale di Brescia, per ragioni di merito ed in violazione del disposto di cui all’art. 111 c.p.c. che consentiva all’avente causa di proporre appello avverso la sentenza emessa nei confronti del suo dante causa.

Invero la sentenza di appello oggetto di ricorso in cassazione contiene un evidente errore di ultra petizione, visto che per concludere sulla inammissibilità del gravame, ha affermato che la società appellante non era debitore del fisco, in relazione al rapporto tributario dedotto in primo grado, valutando nel merito la controversia. In primo grado in cui non era intervenuto la società a cui era stata conferita l’azienda, mai si era discusso se fosse responsabile per il debito fiscale anche la società conferitaria dell’azienda in cui era maturato il rapporto fiscale da cui scaturiva la pretesa, sicchè tale tema in quanto nuovo non poteva essere esaminato in appello, peraltro ex officio. Inoltre la società proponendo l’appello non ha mai dedotto di ritenersi estranea al rapporto tributario, solo rilevando che la pretesa fiscale, in quanto illegittima non poteva considerarsi compresa nei rapporti aziendali, e quindi non poteva essere stata a lei trasferita nell’ambito del conferimento aziendale. In definitiva con il gravame la società G. si doleva della sentenza di primo grado poichè era stato ritenuto debitore fiscale il proprio dante causa, ritenendo quindi che a norma dell’art. 2560 c.c., comma 1, per tale debito, in quanto risultante già dai libri obbligatori (è la stessa oggi ricorrente a dedurre che pag. 4 “il conferente l’azienda aveva anche individuato un fondo di previsione per imposte varie per Lire 57029902 in cui era ricompreso anche l’ammontare dell’Ige per Lire 3229595”), dovesse risponderne, oltre che l’originario debitore, anch’essa in solido. E’ pacifico che l’effetto naturale del conferimento di un’azienda di una impresa individuale in una società di capitali – come nella fattispecie – è il trasferimento dei rapporti, attivi e passivi, inerenti all’azienda, pur permanendo la corresponsabilità della conferente per l’adempimento dei debiti non personali.

Ma ciononostante, la società G. non era legittimata, nè in proprio nè in nome e per conto dell’altro obbligato, a proporre appello avverso la sentenza in cui non era parte.

Poichè la carenza di legittimazione ad appellare è rilevabile anche di ufficio (nel caso peraltro risulta sollevata dalla Agenzia come deducibile dalla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza di appello) la decisione del giudice di appello va confermata sebbene con diversa motivazione, essendo conforme alla legge.

Infatti è assolutamente pacifico che la legittimazione a proporre appello (che si ricollega al principio di cui all’art. 81 c.p.c., inteso a prevenire una sentenza “inutiliter data”), è il potere che il soggetto ha di richiedere un riesame nel merito in tutto o in parte, con conseguente facoltà, per il giudice, di verificarne la esistenza in ogni stato e grado del procedimento (salvo il formarsi di un giudicato interno), e che ricorre in base alla sola prospettazione di colui che afferma di esser titolare del potere di promuovere l’appello.

Nella specie la parte sostiene di potere agire in appello essendo successore a titolo particolare. In realtà la parte poggia il suo diritto ad appellare sul principio processuale del trasferimento del diritto controverso in corso di causa, ma oblitera che nel caso in esame la cessione dell’azienda, avvenuta il 6/12/1978 mediante il conferimento, era ben antecedente all’instaurarsi della lite in primo grado avvenuta il 2/12/1985 e quindi a tale data vi era solo una solidarietà tra alienante ed acquirente verso il fisco con il sorgere di due distinti rapporti obbligatori. In definitiva la mancata evocazione in giudizio di primo grado del conferitario della azienda e non vertendosi in ipotesi di litisconsorzio necessario, impediva alla stessa di proporre appello ordinario. E’ pacifico nella giurisprudenza della Corte il principio secondo il quale, in ipotesi di responsabilità solidale tra coobbligati, si verte in causa scindibile (art. 322 c.p.c.), cosicchè, non essendo necessaria la presenza in giudizio del coobbligato, questi, ove non evocato nel giudizio di primo grado, neppure può proporre appello.

In conclusione con l’appello sono state proposte doglianze da parte di un soggetto che non aveva rivestito la qualità di parte del procedimento di primo grado, nè aveva acquistato il diritto controverso in corso di causa, in violazione del principio per cui la legittimazione a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, “spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, tenendo conto sia della motivazione che del dispositivo, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alle risultanze processuali nonchè alla titolarità del rapporto sostanziale,.” (Cass. 20789/2014, 16100/2006). Vero è che la qualità di parte nel giudizio di primo grado non discende solo dalla materiale partecipazione ad essa del soggetto interessato, e neanche dalla sua formale chiamata in causa, originaria o sopravvenuta; ma anche dalla qualificazione in termini di parte desumibile, indipendentemente dalla sua rispondenza alla realtà processuale, dalla stessa sentenza impugnata, ma nel caso la posizione della società G. non era stata minimamente esaminata, quindi tale soggetto non essendo in alcun modo raggiunto dalla sentenza di primo grado,non aveva diritto di impugnarla. (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 20789/14). Nulla per le spese.

PQM

La Corte rigetta i motivi del ricorso.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2019

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