Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24671 del 02/12/2016


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Cassazione civile sez. lav., 02/12/2016, (ud. 20/09/2016, dep. 02/12/2016), n.24671

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CORBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11263/2014 proposto da:

F.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FABIO MASSIMO 45, presso lo studio degli avvocati GIOVANNI

PELLETTIERI e ROSA TRONCELLITI, che lo rappresentano e difendono

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ATAC – AZIENDA PER LA MOBILITA’ DEL COMUNE DI ROMA S.P.A., C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PRENESTINA 45, presso lo

studio dell’avvocato MARINA DI LUCCIO, che la rappresenta e difende

giusta procura speciale notarile e memoria di costituzione nuovo

difensore del 19/7/2016, in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8405/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/10/2013 r.g.n. 1242/2013;

udita la reazione della causa svolta nella pubblica udienza del

2L,09/2P16 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito l’Avvocato TRCNCELLITI ROSA;

udito l’Avvocato DI LUCCIO MARINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 18.3.2013 F.A., dipendente della Trambus s.p.a. con mansioni di conducente, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale del lavoro di Roma n. 17938/12 che aveva rigettato la sua domanda diretta ad accertare l’inefficacia, nullità o annullabilità e comunque la sproporzione della “destituzione” disposta nei suoi confronti in data 20.4.2009 con ripristino del rapporto e corresponsione del risarcimento del danno. Si costituiva l’Atac chiedendo il rigetto dell’appello. La Corte di appello con sentenza del 28.10.2013 rigettava l’appello. La Corte territoriale osservava che non risultava violato l’art. 434 c.p.c., così come novellato in quanto sostanzialmente emergevano chiaramente dall’atto di appello le parti e le ragioni decisorie della sentenza impugnata contestate con l’atto di appello. Nel merito osservava che l’Atac aveva contestato al dipendente che, nonostante lo stato di malattia, era stato trovato alle ore 21 presso il paese ove risiedeva in una pizzeria con un grembiale nero svolgendo attività inerente l’ordinazione dei pasti, il servizio, la stesura e la riscossione del conto; l’appellante era stato invitato a fornire le sue giustificazioni, poi non pervenute. Ai sensi dell’art. 5 comma quinto Regolamento All. A al R.D. n. 148 del 1931, in relazione all’art. 45, nn. 3 e 8, era stata disposta la destituzione. La Corte di appello riteneva che, a parte la violazione degli obblighi di correttezza riscontrabile nella vicenda non previste nelle ipotesi di destituzione applicate, emergeva la commissione di un’azione disonorevole ed immorale posto che il dipendente aveva svolto attività lavorativa in stato di malattia. La Corte aggiungeva che i fatti erano stati ammessi dal dipendente in sede di interrogatorio libero (riportandone alcuni stralci) e che lo stato di malattia è incompatibile in linea di principio con lo svolgimento di attività lavorativa. La comunicazione della GDF che aveva sorpreso l’appellante non era incompleta posto che risultava lo svolgimento di attività lavorativa ed erano chiaramente indicati i luoghi della stessa. La compatibilità tra malattia ed attività svolta doveva essere dimostrata dall’appellante e la sanzione non appariva sproporzionata visto il carattere moralmente e socialmente disdicevole dello svolgimento di attività, pur in stato di malattia, come tale idonea ad incrinare il rapporto fiduciario tra le parti.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il F. con 5 motivi corredati da memoria ex art. 378 c.p.c.; resiste controparte con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si allega la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 45 del regolamento allegato al R.D. n. 148 del 1931, e all’art. 15 disp. att. c.p.c.: l’art. 45 del citato regolamento era stato tacitamente abrogato vista l’applicabilità della L. n. 300 del 1970, art. 7, dopo la privatizzazione del rapporto.

Il motivo, a prescindere dal rilievo per cui nel motivo non si ricostruisce come sia stata sottoposta in appello la doglianza in parola (la sentenza impugnata non ne parla sicchè sembrerebbe una “questione nuova”), appare infondato alla stregua dell’orientamento di questa Corte secondo il quale “il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri – ivi inclusa la procedura di irrogazione delle sanzioni disciplinari – è regolato da una normativa speciale costituente un corpus compiuto ed organico, non derogato dalle leggi generali successive relative al lavoro privato, onde il ricorso alla normativa generale è possibile soltanto ove si riscontrino in essa lacune tali che non siano superabili neanche attraverso l’interpretazione estensiva o analogica di altre disposizioni appartenenti allo stesso corpus o relative a materie analoghe o secondo i principi generali dell’ordinamento” (Cass. n. 5551/2013) per cui la normativa contestata non è stata abrogata. Se si fosse voluto, anche implicitamente, sostenere invece che tale normativa debba essere oggi applicata in modo compatibile con la L. n. 300 del 1970, art. 7, emerge dalla sentenza impugnata che il fatto è stato previamente contestato al dipendente che è stato chiamato a difendersi (cosa che non ha ritenuto di fare in sede disciplinare, ma solo in giudizio) e che la proporzionalità della sanzione è stata esaminata dai Giudici di appello.

Con il secondo motivo si allega la nullità della sentenza ex artt. 56 e 161 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 45, punto 6 del regolamento del R.D. n. 48 del 1931, ed agli artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c.. L’addebito era rimasto sfornito di prova perchè il Rapporto della GDF non indicava le mansioni svolte dal ricorrente.

Il motivo, che in realtà sembrerebbe porre un problema di adeguatezza della motivazione, appare palesemente infondato posto che la sentenza impugnata ha ricordato che il lavoratore (che aveva anche un contratto di associazione in partecipazione per operare nella pizzeria ove fu sorpreso benchè in stato di malattia) aveva in sede di interrogatorio libero ammesso i fatti, come risulta dalla trascrizione delle sue dichiarazioni in sentenza; inoltre per la GDF, anche se non se ne descrivono le mansioni, il ricorrente lavorava nella pizzeria.

Con il terzo motivo si allega l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione agli artt. 5, 45 n. 6 del Regolamento allegato al r.d. n. 148 del 1931, ed ai principi generali del nostro ordinamento costituzionale. Non si trattava di un fatto disonorevole ed immorale tale da rendere il dipendente indegno della pubblica stima.

Il motivo appare inammissibile in quanto il “fatto” di cui si discute e cioè la gravità della condotta del dipendente trovato a lavorare in una pizzeria mentre era in stato di malattia e tale da integrare l’ipotesi di destituzione di cui all’art. 45, n. 6, del Regolamento prima citato è già stato valutato nei suoi contorni dai Giudici di merito e pertanto tale valutazione, dopo la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis, non può essere sindacata come vizio di motivazione posto che l’accertamento operato dai Giudici di appello supera certamente la soglia del “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014).

Con il quarto motivo si allega la violazione dell’art. 2697 c.c.: la prova in ordine dell’incidenza dell’attività lavorativa sul recupero psico-fisico del dipendente spettava al datore di lavoro.

Il motivo appare infondato in quanto il principio affermato dalla sentenza impugnata risulta anche recentemente confermato da questa Corte che ha stabilito che “il lavoratore, al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia, ha l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando, peraltro, le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto” (Cass. n. 586/2016).

Nel motivo peraltro non si allega in alcun modo elementi per ritenere tale compatibilità non emergendo dal motivo neppure quale fosse la malattia sofferta dal ricorrente.

Con il quinto motivo si allega la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 45 all. R.D. n. 148 del 1931, artt. 1175, 1375, 2104, 2105, 2119 e 2697 c.c.. La condotta del ricorrente non era stata valutata.

Il motivo appare inammissibile per quanto già detto a proposito del terzo motivo: il “fatto” di cui si discute e cioè la gravità della condotta del dipendente trovato a lavorare in una pizzeria mentre era in stato di malattia e tale da integrare l’ipotesi di destituzione di cui all’art. 45, n. 6, del Regolamento prima citato è già stato valutato nei suoi contorni dai Giudici di merito e pertanto tale valutazione, dopo la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis, non può essere sindacata come vizio di motivazione posto che l’accertamento operato dai Giudici di appello supera certamente la soglia del “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014).

Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.

La Corte ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 100,00 per esborsi, nonchè in Euro 3.500,00 per compensi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.

La Corte ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2016

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