Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24647 del 02/12/2016


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Cassazione civile sez. un., 02/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep. 02/12/2016), n.24647

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente Sezione –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente Sezione –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14520/2016 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SILVIO PELLICO

24, presso lo studio dell’avvocato CESARE ROMANO CARELLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato FAUSTO MALUCCHI, per delega in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI PISTOIA, CONSIGLIO NAZIONALE

FORENSE, PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 83/2016 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 14/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’8/11/2016 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito l’Avvocato Fausto MALUCCHI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SALVATO Luigi, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso

nei confronti del C.N.F., rigetto per il resto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Si controverte della sanzione della censura irrogata all’avvocato B.E., la quale, a seguito dell’esposto 30.4.07 della sua cliente S.A., fu ritenuta responsabile della violazione degli artt. 5, 6, 38, 40 e 42 del codice deontologico (2007) per avere tenuto una condotta non ispirata ai doveri di dignità, probità e decoro, per essere venuta meno al dovere di lealtà e correttezza nello svolgimento della propria attività professionale, per non aver compiuto gli atti inerenti al mandato conferito dal cliente, per aver violato l’obbligo di informazione verso il cliente in merito allo stato delle singole pratiche, per non avere restituito al cliente i documenti consegnati al momento del conferimento del mandato.

2.- In particolare, il COA di Pistoia reputò accertato che la professionista: non aveva avanzato, nei termini di legge, opposizione a tutte le cartelle esattoriali consegnatele a tale scopo dalla cliente, dicendo poi alla medesima che la situazione era sotto controllo e che il giudice aveva anzi emesso un provvedimento di sospensione dell’esecutività della cartella asseritamente impugnata; aveva indicato, su espressa richiesta della cliente di notizie sulle opposizioni, un numero di r.g. di un’opposizione relativa ad una sola delle cartelle e per di più di importo assai inferiore rispetto a quella per la quale era stato conferito mandato, già definita con sentenza di rigetto e non preceduta da alcun provvedimento sospensivo; aveva mostrato alla cliente, senza consegnarglielo, un provvedimento di sospensione di una delle cartelle; aveva prima mostrato alla cliente la cartella per la quale ella aveva chiesto di procedere con l’impugnazione e poi, in un successivo incontro, aveva dichiarato di non averla mai avuta.

3.- Dapprima sospeso per la pendenza di procedimento penale nei confronti della B. per appropriazione indebita di una delle cartelle, quella di importo di Euro 17.646,22 a danno della S., il procedimento disciplinare aveva ripreso il suo corso dopo la di lei assoluzione con formula piena in sede penale, definitiva in virtù della sentenza della corte di appello di Firenze del 19.1.12, fondata sull’esclusione del fine di profitto della peraltro pacifica circostanza di fatto del trattenimento della cartella da parte dell’imputata presso di sè.

4.- All’esito, il COA di Pistoia, con decisione del 21.9.12 (depositata il 26.11.12 e notificata il 12.12.12), esclusa una corrispondenza tra i fatti coperti dal giudicato penale di assoluzione e quelli posti a base della incolpazione, sulla base degli atti del procedimento penale – soprattutto le dichiarazioni della figlia dell’esponente e di una delle dipendenti della professionista – aveva così ritenuto provati i fatti resi oggetto dell’esposto e la B. responsabile delle contestazioni mossele, irrogandole la sanzione della censura, per l’assenza di precedenti disciplinari.

5.- L’impugnazione proposta, con atto depositato il 29.12.12, dalla B. è stata poi rigettata dal CNF con sentenza n. 83 del 14.4.16, notif. il 12.5.16, per la cui cassazione ricorre oggi la professionista, affidandosi ad un unitario motivo e con atto notificato a partire dal 10.6.16; nessuno degli intimati avendo svolto attività difensiva, la ricorrente ha anche depositato istanza di sospensiva “ai sensi dell’art. 351 c.p.c.”, ma la trattazione del ricorso nel merito è stata fissata direttamente per la pubblica udienza del giorno 8.11.16.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

6.- La ricorrente svolge avverso la sentenza del CNF un motivo indifferenziato di “violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, difetto di motivazione e/o insufficiente e illogicità della stessa”, con cui, illustrate le circostanze in fatto da ritenersi pacifiche e richiamata l’assoluzione in sede penale, contesta:

– l’interpretazione data dal COA prima e dal CNF sul carattere pacifico del trattenimento presso di sè della cartella;

– la prevalenza attribuita nella gravata sentenza agli elementi del procedimento penale anzichè alla conclusiva circostanza della definitiva assoluzione;

– la valutazione di logicità delle versioni e di attendibilità tanto della esponente S. che della dichiarante sua figlia Z.K., sulla base di un’invocata riconsiderazione del tenore della dichiarazione della dipendente L.A.;

– la stessa utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti nel corso del procedimento penale (le dichiarazioni della S., della Z. e della L.), svoltosi con il rito abbreviato.

7.- Il ricorso è stato notificato non solo al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Pistoia ed al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, ma anche al Consiglio Nazionale Forense: ma, quanto a quest’ultimo, esso va qualificato inammissibile, atteso che il CNF è il giudice che ha emesso la decisione qui impugnata e che per definizione non può essere parte del procedimento di impugnazione (per tutte: Cass. Sez. Un., 24 gennaio 2013, n. 1716; Cass. Sez. Un., 22 luglio 2016, n. 15207).

8.- Ciò posto, l’unitario motivo è inammissibile anche nei confronti degli altri intimati, perchè, in disparte i profili di formulazione con il richiamo ad una norma di legge incongruente, esso si risolve nella sollecitazione di una rilettura del merito del materiale istruttorio considerato dal giudice disciplinare.

9.- Va premesso che non è stato contestato in diritto il principio applicato dal CNF per giustificare la non estensione o il carattere non vincolante del giudicato penale di assoluzione (con richiamo – v. pagine 5 e seguente della gravata sentenza – a Cass. Sez. Un. pen., 28.10.08 n. 40049, o a Cons. Stato, sez. 4^, sent. n. 2971/12) in relazione ai fatti oggetto di incolpazione.

10.- Tanto comporta che in questa sede l’unica doglianza mossa sul punto dalla ricorrente si risolve nella deduzione dell’utilizzo, quale prova, di dichiarazioni rese in separato procedimento al di fuori della possibilità di un diretto intervento da parte sua: doglianza che però è – se non inammissibile per genericità, comunque – infondata.

11.- In forza di principi generali, la prova formata in un processo diverso acquisisce il rango di prova c.d. atipica e la sua ammissibilità, salva ed impregiudicata l’applicazione di regole speciali ed espresse sull’utilizzabilità (che non operano nel procedimento disciplinare in esame), dipende solo dalle regole sul contraddittorio dettate per il processo in cui la si vuole introdurre, nel rispetto dei diritti che in quel medesimo processo hanno le parti di produrle e di contrastarne le risultanze.

12.- La censura della ricorrente sarebbe stata astrattamente ammissibile (e sempre che avesse poi avuto tutti gli altri requisiti di legge) quindi soltanto nel caso in cui ella si fosse doluta di un illegittimo rifiuto dei giudici disciplinari di ammettere prove a confutazione di quegli elementi raccolti al di fuori del contesto di quel procedimento, prime fra tutte una nuova convocazione delle dichiaranti: ma, con tutta evidenza, la doglianza oltretutto posta a base di un vizio motivazionale e di una violazione di una norma inconferente – riguarda l’aspetto in sè dell’utilizzo della prova formata nel procedimento penale, siccome diverso da quello disciplinare; e, in quanto tale, è priva di fondamento.

13.- Poichè quegli elementi sono stati ritualmente acquisiti, la loro valutazione sfugge al sindacato che, sotto il profilo della logica, la ricorrente impropriamente invoca da queste Sezioni Unite.

14.- A tale riguardo, occorre ricordare che, per giurisprudenza assolutamente consolidata (per tutte e fra le più recenti: Cass. Sez. Un., 20 settembre 2016, n. 18395; Cass. Sez. Un., 22 luglio 2016, n. 15203), “le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Cass., S.U., n. 2637 del 2009)”; e non è quindi consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale.

15.- D’altra parte, quanto al vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità, deve rilevarsi che il presente ricorso è, ratione temporis, soggetto all’applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134: e, in relazione a tale modificazione, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare il principio – che si applica anche al procedimento disciplinare (tra le altre: Cass. S.U., n. 15287 del 2016; Cass., S.U., n. 18395 del 2016) – che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; sicchè è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., S.U., nn. 8053, 8054 e 19881 del 2014).

16.- Ora, in primo luogo, del tenore testuale completo delle sentenze assolutorie la ricorrente non fornisce in ricorso la menzione, nonostante la gravata sentenza disciplinare sia univoca nell’indicare come pacifica la circostanza del fatto materiale del trattenimento del documento – solo dando atto dell’assenza del fine di trarre profitto, ciò che è indicato come ragione determinante dell’assoluzione con formula piena in sede penale – e gli stessi passaggi estrapolati dalla B. in ricorso non siano univoci nell’escluderla (appunto riferendosi piuttosto alla considerazione del peculiare elemento soggettivo o prospettando quello oggettivo in termini dubitativi): e già tale frammentarietà, che implica oltretutto la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, elide in radice ogni possibilità di verifica della sussistenza dei soli gravissimi vizi denunziabili a queste Sezioni Unite, ricordati sopra al punto 15.

17.- In secondo luogo e in via dirimente, peraltro e vista la mancata impugnativa del principio di diritto posto a base dal CNF della sua decisione, va rilevato che la considerazione del tenore letterale e la comparazione tra le dichiarazioni esaminate, la valutazione di attendibilità dei dichiaranti, la stessa conclusione sulla sussistenza dei fatti e la loro ricostruzione in base ad una ponderazione o comparazione delle dette risultanze, attengono al merito della sentenza gravata e quindi le doglianze della ricorrente si infrangono contro il principio di diritto richiamato sopra, al punto 14.

18.- Per avere invocato un controllo non consentito in questa sede, l’indifferenziato motivo del ricorso per cassazione va dichiarato inammissibile anche nei confronti degli altri intimati, ma non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, per non avervi alcuno svolto attività difensiva.

19. – Infine, trova applicazione – mancando ogni discrezionalità al riguardo (Cass. 14 marzo 2014, n. 5955) – il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da essa proposta, a norma del detto art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte, pronunciando a sezioni unite:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso da essa proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2016

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