Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24620 del 22/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/11/2011, (ud. 26/10/2011, dep. 22/11/2011), n.24620

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STILE Paolo – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7514/2009 proposto da:

R.A., + ALTRI OMESSI

tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 32, presso

lo studio dell’avvocato MESSINA MARINA, rappresentati e difesi

dall’avvocato BARBONI Domenico, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

MINSTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza definitiva n. 753/2 008 della CORTE D’APPELLO di

NAPOLI, depositata il 25/03/2008 R.G.N. 1728/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/10/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato BARBONI DOMENICO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 5.2/25.3.2008 la Corte di appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da D.G. e dagli altri ricorrenti indicati in epigrafe, tutti dirigenti amministrativi o tecnici presso l’Ufficio scolastico regionale della Campania, per accertare il loro diritto a percepire, per ciascun incarico di presidente ovvero di componente dei nuclei di valutazione dei capi di istituto, svolto nel periodo febbraio – dicembre 2000, i compensi previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 25 e dall’art. 41 del CCNL del comparto scuola del 1999.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, a fronte della chiara volontà dell’Amministrazione di considerare l’attività di tutti i componenti interni all’Amministrazione come attività istituzionale rientrante nei doveri di ufficio, la pretesa dei dipendenti non trovava fondamento in alcuna norma di legge o di contratto che affermasse una diversa valutazione di tale attività e che, comunque, introducesse un trattamento economico distinto e aggiuntivo rispetto a quello normalmente corrisposto.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso D. G. e gli altri ricorrenti indicati in epigrafe con un unico motivo.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con un unico motivo i ricorrenti, lamentando violazione dell’art. 36 Cost., dell’art. 2099 c.c., del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24 commi 1 e 3 e art. 53, in combinato disposto con la L. n. 448 del 2001, art. 16, comma 1, nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 25, comma 1, osservano come la corte territoriale aveva mancato di considerare che l’incarico di presidente o componente dei nuclei di valutazione non potesse considerarsi inerente alle ordinarie funzioni dei dirigenti scolastici, trattandosi di compiti aggiuntivi connessi a specifica nomina, e che nemmeno era invocabile il principio di omnicomprensività del trattamento retributivo dei dirigenti ministeriali, non essendo tale principio, all’epoca di conferimento degli incarichi in esame, ancora vigente.

Il ricorso è inammissibile per violazione del precetto dell’art. 366 bis c.p.c..

A norma, infatti, di tale disposizione, deve ritenersi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione in cui il quesito di diritto si risolve in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, inidonea ad individualizzare l’errore di diritto ascritto alla sentenza impugnata e a costituire, al tempo stesso, una regula iuris suscettibile di trovare applicazione anche in casi ulteriori a quello deciso dalla sentenza impugnata (v. SU. n. 26020/2008; SU n. 26014/2008).

Per come è di tutta evidenza nella fattispecie, se si considera che il quesito formulato (“Voglia Codesta Ecc.ma Corte accertare e dichiarare la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 24, commi 1 e 3 e art. 53, in combinato disposto con la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 16, comma 1 e del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 25, comma 1, che affligge la sentenza impugnata; e che dalla corretta applicazione di dette norme consegue il diritto dei ricorrenti ad un compenso corrispettivo – per ciascun incarico conferito e svolto – per la prestazione lavorativa aggiuntiva e non rientrante negli ordinari doveri d’ufficio svolta su incarico dell’amministrazione, di importo pari a Euro 12.911,42…”) si risolve in una affermazione apodittica e circolare, o, in altri termini, nel risultato atteso dai ricorrenti con la proposizione del ricorso, ma senza che sia possibile individuare, attraverso una sintetica rappresentazione dei termini logici e normativi rilevanti, la questione di diritto oggetto della causa, ed, in particolare, la corretta interpretazione della disciplina, che si assume violata, che giustificherebbero tale esito, così come l’errore di valutazione che inficerebbe, in relazione allo stesso risultato, la sentenza impugnata.

Il che rileva anche sul piano della concreta corrispondenza fra quesito e questione controversa.

Deve rilevarsi, infatti, che è inammissibile il quesito di diritto ove non vi sia corrispondenza (o vi sia solo parziale corrispondenza) fra quesito e motivo, sicchè il primo non sia esaustivamente riferibile alla questione controversa posta col motivo di impugnazione, rappresentandone la sintesi logico-giuridica.

Per come già precisato da questa Suprema Corte (cfr. ad es. SU n. 14385/2007; Cass. n. 11535/2008), il rispetto del requisito della imprescindibile attinenza dei quesiti al decisum è condizione indispensabile per la valida proposizione del quesito medesimo, sotto pena della sua genericità e della conseguente equiparazione, per difetto di rilevanza, alla mancanza stessa di un quesito. Il che deve ripetersi anche per il quesito puramente assertivo, che non consente, come si è detto, di evidenziare sia il nesso fra la fattispecie e il principio che si chiede venga affermato, sia la regola, diversa da quella posta a base del provvedimento impugnato, la cui auspicata adozione condurrebbe ad un esito difforme della controversia.

Con la conseguenza che, nel caso, risulta confermata l’assenza dei requisiti essenziali della fattispecie normativa, che impongono, per come va conclusivamente ribadito, che il quesito sia esplicito e collocato in una parte del ricorso a ciò specificatamente deputata e che lo stesso si risolva in una sintesi logico giuridica della questione che ha determinato l’instaurazione del giudizio, con l’individuazione, immediatamente percepibile da parte del giudice di legittimità, dell’errore di diritto che si assume compiuto e della diversa regola che si sarebbe dovuta applicare, realizzandosi, attraverso la risposta al quesito, quel collegamento fra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione di un principio giuridico generale, in assenza del quale l’investitura stessa del giudice di legittimità deve ritenersi inadeguata.

Il ricorso (che, peraltro, ripropone tesi già esaminate e disattese nei precedenti di questa Suprema Corte: v. Cass. n. 5306/2009; Cass. n. 17513/2010) va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese, che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 5.000,00 per onorari, oltre ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2011

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