Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24620 del 02/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 02/10/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 02/10/2019), n.24620

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13663/2015 proposto da:

A.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 58,

presso lo studio dell’avvocato ROMANO CERQUETTI, rappresentato e

difeso dall’avvocato SANTI GIOACCHINO GERACI;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO BONIFICA 3 AGRIGENTO, in persona del legale rappresentante

pro tempore domiciliato ope legis presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato MASSIMILIANO

MARINELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1839/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 20/11/2014 R.G.N. 2176/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

1. A.C. convenne in giudizio il Consorzio di Bonifica 3 Agrigento e chiese che venisse accertato e dichiarato l’avvenuto svolgimento di mansioni superiori a decorrere dal marzo 1998, come vice responsabile della manutenzione e dal 2005 come responsabile del servizio di prevenzione e protezione (S.P.P.). Il Tribunale di Sciacca respinse la domanda e la Corte di appello di Palermo, investita del gravame da parte dell’ A., ne ha confermato la sentenza.

2. La Corte di merito ha ritenuto che il Tribunale avesse correttamente, nell’esercizio del potere discrezionale attribuitogli, ridotto i testi da assumere ad uno solo. Ha inoltre evidenziato che, effettivamente, sussisteva un vizio di allegazione del fatto costitutivo della domanda. Ha rilevato che ciò nonostante il Tribunale aveva posto a confronto le declaratorie evidenziando i tratti caratteristici della qualifica rivendicata rispetto a quella posseduta. Ha poi ritenuto provato che le funzioni vicarie erano state svolte solo in via eccezionale e con riguardo a quelle di responsabile del servizio prevenzione e protezione (2005 2008) non ha rinvenuto nell’organizzazione aziendale un tale servizio. Ha sottolineato che, per effetto dell’entrata in vigore del t.u. di sicurezza, nel 2008 la posizione venne assegnata ad un soggetto e che i requisiti necessari per rivestirla erano diversi e maggiori rispetto a quelli posseduti dal ricorrente.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.C. con cinque motivi cui ha resistito il Consorzio con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza in relazione alla violazione dell’art. 99 e 112 c.p.c.. Osserva il ricorrente che in mancanza di una richiesta in tal senso della parte, che aveva instato per un rinvio della decisione in pendenza di trattative, la Corte territoriale non avrebbe potuto, come invece aveva fatto, trattenerla in decisione.

4. Con il secondo motivo di ricorso è, poi, denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 1, art. 420 c.p.c., comma 6 e art. 429 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Sostiene il ricorrente che se la Corte territoriale riteneva di disattendere la richiesta comune di rinvio per trattative doveva invitare le parti a concludere discutendo la causa.

5. Le censure possono essere esaminate congiuntamente, in quanto censurano sotto diversi profili la scelta della Corte di merito di decidere la controversia sebbene, a dire del ricorrente, le parti avessero concordemente chiesto un rinvio, sono infondate.

5.1. Va qui ribadito che non vi è alcuna norma del codice di rito, ed in particolare per le controversie soggette al rito del lavoro, che imponga al giudice, in primo grado o in appello, di differire l’udienza di discussione a richiesta del difensore di una delle parti. Inoltre va rammentato che costituisce un principio di ordine generale, ai sensi dell’art. 24 Cost., comma 2, quello secondo cui la “difesa tecnica”, obbligatoria nel processo penale, si presenta nel giudizio civile piuttosto come un onere. Il diritto di difesa garantito dalla norma costituzionale, nel giudizio civile è sufficientemente tutelato allorchè sia assicurato il principio del contraddittorio che non può ritenersi leso solo perchè il giudice abbia disposto che nell’udienza fissata per tale scopo si proceda alla discussione della causa nell’assenza del difensore di una delle parti (ben consapevole della detta udienza e degli incombenti processuali in essa previsti) (cfr. Cass. 02/02/1996 n. 894 che ha escluso che, in caso di impedimento del difensore all’udienza fissata per la discussione il giudice abbia l’obbligo di differirla).

5.2. Va inoltre ricordato che l’art. 420 c.p.c., u.c., dispone che nelle controversie soggette al c.d. rito del lavoro “le udienze di mero rinvio sono vietate”. Da tale norma si ricava perciò la regola della concentrazione del giudizio con il rito del lavoro che si pone in linea con il riformato art. 111 Cost., comma 2, che prevede che la legge debba assicurare la ragionevole durata del processo. Si tratta di regola per l’interpretazione delle singole norme di rito funzionalizzata alla celerità del giudizio che impone di contemperare il principio dell’impulso di parte che caratterizza il processo civile con il principio di rango costituzionale della necessità di definire i processi in tempi ragionevoli. E’ demandato allora al giudice di merito valutare in concreto la effettiva consistenza delle trattative che le parti asseriscono tra loro pendenti contemperando quindi l’esigenza di una definizione sollecita con l’opposta richiesta di differimento. La circostanza poi che il giudice del merito abbia solo implicitamente disatteso l’istanza di differimento dell’udienza (omettendo l’adozione di un esplicito provvedimento al riguardo) e che sia mancato un espresso invito, alle parti, a discutere la causa non comporta una violazione dell’art. 420, comma 4, nè dell’art. 437 c.p.c., comma 1. Si osserva infatti che se con riguardo al giudizio di primo grado, l’art. 420 c.p.c., prevede che nella prima udienza di discussione si svolgano una serie di attività processuali, scandite dalla disposizione (libero interrogatorio delle parti, tentativo di conciliazione, ammissione ed espletamento dei mezzi di prova etc.), sicchè il giudice – ove ritenga la causa matura per la decisione – deve, in primo luogo “invitare le parti alla discussione”, nel giudizio di appello, invece, l’art. 437 c.p.c., al comma 1, dispone che nell’udienza di discussione, terminata la relazione della causa, da parte del giudice incaricato il collegio “sentiti i difensori delle parti” pronunci sentenza, dando lettura del dispositivo nella stessa udienza, salva l’eventualità ritenga necessaria altra attività istruttoria (nella quale ipotesi adotta, con ordinanza, i provvedimenti del caso).

5.3. Tanto premesso va allora rilevato nessun obbligo aveva la Corte in quell’udienza, una volta sentiti i difensori delle parti, come imposto dall’art. 437, comma 1 citato, che hanno perciò avuto la facoltà di spiegare liberamente la propria attività di difesa, di provvedere, con ordinanza, sull’istanza di rinvio e, quindi, invitare le parti alla discussione.

6. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Osserva il ricorrente che l’appello è un mezzo volto a provocare un riesame del merito. Perciò la Corte di appello avrebbe dovuto verificare se il difetto di allegazione riscontrato dal giudice di primo grado c’era realmente e se poteva essere colmato con l’istruttoria chiesta.

7. La censura è infondata. Ed infatti la Corte di merito ha esattamente proceduto al riesame del merito della controversia ed ha evidenziato, non solo che il vizio di allegazione rilevato dal primo giudice esisteva, ma ha poi accertato che la comparazione effettuata dalla sentenza del Tribunale delle fasce funzionali riportate nelle declaratorie professionali era coerente con l’istruttoria svolta e non era smentita dalla documentazione allegata al ricorso (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).

8. Quanto al denunciato omesso esame di fatto decisivo per il ricorso, censura formulata nel quarto motivo con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va rilevato che diversamente da quanto affermato dal ricorrente la Corte territoriale ha dato atto di aver preso in esame la documentazione e nell’esercizio del suo potere discrezionale ha individuato quelli rilevanti spiegando le ragioni per cui ha escluso che l’ambito lavorativo cui era preposto il ricorrente non poteva essere considerato un autonomo settore, nei termini della declaratoria contrattuale rivendicata, ma piuttosto un servizio privo dell’autonomia necessaria. Va allora rammentato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. per tutte Cass. Sez. U. 07/04/2014 n. 8053).

9. In conclusione il ricorso deve esserre rigettato e per l’effetto va confermata anche la statuizione sulle spese, oggetto di quella che viene individuata nel ricorso quale l’ultima censura il cui esame resta evidentemente assorbito.

10. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto che il ricorrente è tenuto al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

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