Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24616 del 01/12/2016


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Cassazione civile sez. VI, 01/12/2016, (ud. 10/05/2016, dep. 01/12/2016), n.24616

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26711/2013 proposto da:

C.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ATANASIO KIRCHLR 7, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA IASONNA,

rappresentata e difesa dagli avvocati MARIO DIANA, ERNESTO

PROCACCINI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A.

CARONCINI 6, presso lo studio dell’avvocato GENNARO CONTARDI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ATTILIO DORIA;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza N. 3970/13 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/05/2016 dal Consigliere Relatore Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato Francesco Procaccini difensore del ricorrrente che

si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Doria Affilio difensore del resistente che si

riporta al controricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione notificato in data 3.3.2011, C.A. conveniva dinanzi al Tribunale di Napoli G.A., per ottenere l’annullamento dell’atto di donazione stipulato per notaio M. in data (OMISSIS), con il quale aveva donato al sig. G. la nuda proprietà di 13 unità immobiliari site nel Comune di Napoli, riservando per sè il diritto di usufrutto.

La ricorrente sosteneva la propria incapacità naturale al tempo della donazione, a causa della presenza di un “disturbo dipendente di personalità in soggetto affetto da disturbo distimico”, tale da impedirle di avere cura dei propri interessi economici.

Il convenuto si costituiva deducendo in via principale l’infondatezza della domanda.

Il Tribunale di Napoli con sentenza n. 11799/2012 rigettava la domanda.

L’attrice proponeva appello con atto notificato in data 21.3.2013, lamentando la mancata ammissione delle prove orali richieste e di una consulenza tecnica medico legale.

Il G. resisteva alla impugnazione.

La Corte di Appello di Napoli con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., emessa in data 10 ottobre 2013, dichiarava inammissibile l’appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento e condannava l’appellante al pagamento delle spese di lite.

2) C.A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato su due motivi, impugnando sia la predetta ordinanza, sia la sentenza resa dal Tribunale.

G. ha resistito con controricorso.

Parte resistente ha rilevato più profili di inammissibilità del ricorso: l’inammissibilità dell’impugnazione dell’ordinanza ex art. 348 ter; l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, in presenza di pronunce di merito integralmente conformi; la mancata indicazione di fatti decisivi di cui sarebbe stato omesso l’esame; il difetto di autosufficienza per le omissioni nell’indicazione degli atti su cui il ricorso si fonda e per la mancata trascrizione dei capi di prova di cui la ricorrente lamenta la non ammissione.

Il giudice relatore ha avviato la causa a decisione con il rito previsto per il procedimento in Camera di consiglio, proponendo il rigetto del ricorso.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

2.1) Con il primo motivo la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 348 bis c.p.c. e dell’art. 115 c.p.c., in riferimento agli artt. 428, 775 e 2697 c.c.”.

La ricorrente sostiene che la non ammissione delle prove richieste le abbia impedito illegittimamente di far valere in giudizio il suo diritto, ed inoltre che le motivazioni addotte nei provvedimenti impugnati dai Giudici aditi, e cioè la sentenza del Tribunale e la ordinanza ex art. 348 ter, della Corte d’appello, risultano “palesemente contraddittorie e illegittime”.

Ciò perchè secondo la Corte di appello, in contrasto, secondo il ricorso, con il tribunale, si sarebbe trattato di una ipotesi di dolo e non di un’ipotesi di incapacità naturale. Inoltre la Corte di appello avrebbe prefigurato un atto di liberalità privo di ragionevolezza, smentendo il tribunale, secondo il quale l’atto di donazione era molto vantaggioso per la ricorrente.

3) Preliminarmente va rilevata la non impugnabilità con ricorso per cassazione dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..

Intervenendo per dirimere il contrasto emerso con riguardo all’impugnabilità o meno di tale ordinanza, la Corte di Cassazione (SU n. 1914/2016) ha stabilito che tale ordinanza è impugnabile solo per eventuali errores in procedendo commessi dal giudice di appello e non per vizi in indicando, come quelli dedotti in ricorso.

Pertanto il ricorso ex art. 360 c.p.c., esperito dalla sig.ra C. risulta in parte qua inammissibile.

3.1) Il ricorso è stato però rivolto anche avverso la sentenza del Tribunale di primo grado, giacchè ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3, “quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell’art. 360, ricorso per cassazione”.

Posto che la violazione dell’art. 115 c.p.c., lamentata dalla ricorrente, è apprezzabile in sede di ricorso per cassazione sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass. 324/2007; 14267/2006), la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione e del relativo apprezzamento” (cfr. Cass. 1414/2015).

Occorre rilevare che la sentenza impugnata è stata emessa il 15.10.2012, per cui trova applicazione il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 3, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile alle sentenze pubblicate dopo l’11.9.2012).

La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell’interpretare il testo novellato dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. SU 8053/2014; cfr. anche Cass. 26097/14).

4) La censura formulata alla stregua dei criteri previsti dalla vecchia norma va quindi considerata inammissibile.

Al fine di verificare se essa può essere accolta sotto la luce della nuova versione della norma, occorre compiere una valutazione preliminare, in quanto in base all’art. 348 ter c.p.c., comma 4, così come modificato del D.L. n. 83 del 2012, art. 54 e convertito dalla L. n. 134 del 2012, e applicabile al caso in esame, nel caso in cui la Corte di appello, nel motivare l’ordinanza di inammissibilità, conferma integralmente le ragioni e motivazioni del Tribunale in primo grado, non è ammesso il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma solo ai sensi dei numeri da 1 a 4 dello stesso articolo.

Nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass. 5528/2014).

Nel caso in esame tale dimostrazione non sussiste, essendovi una piena condivisione da parte della Corte territoriale della valutazione compiuta dal primo giudice circa l’insussistenza di un’incapacità naturale della donante.

La Corte, confermando integralmente le ragioni poste alla base della decisione del Tribunale, afferma che “le prove testimoniali, come correttamente valutate in primo grado, appaiono in larga parte irrilevanti ai fini della decisione o addirittura contradditorie” e comunque “prive di indispensabili riscontri documentali” nonchè “volte a rappresentare un’ipotesi di dolo e non di incapacità”.

Giova aggiungere che vi è piena concordanza, quanto alle ragioni inerenti le questioni di fatto poste a base della decisione impugnata (art. 348 ter, comma 4), tra la sentenza del tribunale e l’ordinanza della Corte di appello.

Esse concordano nel ritenere che gli elementi di fatto scrutinati (condizioni di salute documentate da certificati medici, irrilevanza delle prove testimoniali, analisi della perizia di parte, etc.) non sono tali da sorreggere un’ipotesi di incapacità naturale e “conseguente invalidità del negozio”.

Si vedano in proposito i ripetuti passaggi in cui l’ordinanza precisa di condividere la valutazione compiuta dal primo giudice (pag. 5); reputa corretta la valutazione delle prove testimoniali richieste (pag. 6); considera adeguatamente vagliato il contenuto congetturale della perizia di parte e la mancanza di dimostrazione di “precisi eventi” denotanti uno “squilibrio psichico della donna” (pag. 7 ordinanza).

Mette conto anche rilevare che la considerazione secondo cui i fatti allegati avrebbero potuto, in ipotesi, sostenere forse un’ipotesi di dolo del contraente che non quella di incapacità naturale dell’altro, è considerazione non contrastante con quanto ritenuto dal primo giudice, ma rafforzativa nell’escludere, in termini giuridici, la configurabilità di quanto sostenuto con la citazione e le impugnazioni.

L’applicabilità della norma da ultimo citata (art. 348 ter c.p.c.) quindi certa.

4) Con il secondo motivo, parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 191 c.p.c., per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, n.5, c.p.c.”.

5) Tale motivo è inammissibile in quanto formulato sulla base del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Vale quindi tutto quanto sopra esposto con riguardo al primo motivo.

L’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio riguarda, secondo quanto sostenuto dalla sig.ra C., la mancata ammissione di una consulenza tecnica di ufficio, considerata necessaria per gli accertamenti richiesti.

Nel caso di specie sia il Tribunale in primo grado che la Corte di appello hanno valutato in modo esauriente e coerente i fatti ritenuti rilevanti per la decisione del caso concreto, pervenendo alla conclusione che la fattispecie de qua non è riconducibile ad un’ipotesi di incapacità naturale della donante.

I giudici di merito sono pervenuti alla conclusione della non necessità della consulenza tecnica richiesta dalla ricorrente, non essendo la stessa idonea a scalfire le risultanze delle sentenze impugnate.

Quand’anche si volesse far rientrare tale motivo nel nuovo art. 360 novellato, bisogna ricordare (cfr. Cass. 10938/1996; Cass. 6641/2002) che la mancata nomina di un consulente tecnico di ufficio, attiene a un fatto che è stato valutato alla luce delle prove fornite e delle istanze svolte, sicchè non è configurabile alcuna omissione, unica ipotesi censurabile secondo la nuova normativa.

Da ultimo va rilevato che anche la doglianza circa la necessità di fare “ricorso ad una valutazione ex post dell’atto compiuto” (ricorso pag. 8) è infondata, perchè tale valutazione risulta effettuata dalla sentenza del tribunale a pag. 7 paragrafo c), laddove viene valutata la condotta successiva posta in essere dalla attrice, in cui viene analizzata la piena consapevolezza sulla portata della donazione espressa “a distanza di un anno e mezzo dal compimento dell’atto”.

Dunque non vi è stata alcuna omissione di valutazione di fatti controversi, profilo che rileva, quando ammesso, ai sensi del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5.

6) La Corte di Cassazione non ha dunque margini, ai sensi della normativa invocata per argomentare le censure (art. 360 c.p.c., n. 5) e degli argomenti spesi a loro sostegno, per ingerirsi nelle valutazioni formulate coerentemente ed esaurientemente dai giudici di merito.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

Va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite liquidate in Euro 5.000 per compenso, Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2016

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