Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2461 del 04/02/2020

Cassazione civile sez. III, 04/02/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 04/02/2020), n.2461

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21015/2017 R.G. proposto da:

S.N. – in proprio e quale tutore di S.A. e

F.G., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Daniela Fischi

e Pietro Migliosi;

– ricorrenti –

contro

Allianz S.p.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Michele Ricciardi;

– ricorrente incidentale –

e contro

B.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Fraschetti;

– ricorrente incidentale –

nonchè nei confronti di:

M.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Fraschetti;

– ricorrente incidentale –

e di

M.U.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 390/2017 della Corte d’appello di Perugia,

depositata il 31/05/2017;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avvocato Daniela Fischi, anche per delega dell’Avv. Migliosi;

udito l’Avvocato Paola Fraschetti;

udito l’Avvocato Michele Ricciardi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale;

l’accoglimento parziale del quinto motivo dello stesso ricorso; il

rigetto dei ricorsi incidentali.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.N. e F.G., quali esercenti la potestà parentale sul minore S.A. ed in proprio, convennero in giudizio avanti il Tribunale di Perugia B.G., la RAS S.p.A. (ora Allianz S.p.A.) ed i proprietari dell’autovettura condotta dal B. chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti a seguito del sinistro occorso il (OMISSIS), intorno alle 16,30, in località (OMISSIS), allorquando il predetto minore, subito dopo essere uscito alla guida del proprio ciclomotore da una stazione di servizio ed appena immessosi nella strada statale, veniva violentemente investito dall’autovettura condotta dal B. che sopraggiungeva percorrendo la stessa strada in direzione opposta.

Costituendosi in giudizio il B. e la compagnia assicuratrice resistettero alla domanda, eccependo l’esclusiva responsabilità del minore, per essersi immesso nel flusso della circolazione provenendo dalla stazione di servizio con manovra inattesa ed imprevedibile, seguendo una traiettoria perpendicolare all’asse stradale ed essendo peraltro sprovvisto del casco di protezione.

All’esito dell’istruzione condotta il Tribunale, con sentenza depositata il 7/4/2015 – ritenuto il concorso di colpa dello S. nella misura del 20% e stimata nel 100% la percentuale di invalidità permanente residuata a suo danno – condannò il B., la compagnia assicuratrice (nei limiti del massimale assicurativo) nonchè M.U. ed E. (terzi chiamati in causa ex art. 102 c.p.c., nella qualità di soci della cessata Automobili M. S.r.l., responsabile ex art. 2054 c.p.c., comma 3, nei limiti di cui all’art. 2495 c.c., comma 2) al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dagli attori, liquidati al netto della percentuale di colpa concorrente e al lordo degli acconti già versati dalla compagnia.

Compensò le spese di lite in ragione del 30%, condannando i convenuti e i terzi chiamati in causa, in solido (questi ultimi nei soli limiti di cui all’art. 2495 c.c., comma 2), alla rifusione della restante parte.

2. Tale decisione venne impugnata:

– con appello principale dall’Allianz S.p.A. (cui aderì il B.) in punto di riparto di responsabilità, determinazione della percentuale di invalidità permanente, quantificazione dei danni, mancata rivalutazione dei versamenti effettuati in acconto, regolamento delle spese;

– con appello incidentale da S.N. – quale tutore di S.A. – e da F.G. in punto di imputazione di responsabilità, quantificazione dei danni, regolamento delle spese.

3. In parziale accoglimento dell’appello principale e nel totale rigetto di quello incidentale, la Corte d’appello di Perugia, con sentenza depositata in data 31/5/2017, ha diversamente ripartito le percentuali di colpa concorrente, attribuendola in maggior misura (60%) ad S.A. e solo nella residua percentuale del 40% al B.; ha inoltre determinato nell’85%, in adesione alle conclusioni rassegnate dal c.t.u., la percentuale di invalidità permanente residuata a danno del primo, ritenendo immotivato lo scostamento in aumento operato dal primo giudice. Ha conseguentemente proporzionalmente ridotto il risarcimento spettante, così liquidando i rispettivi importi:

a) in favore di S.A.:

al) Euro 480.435,60 a titolo di “danno non patrimoniale (biologico)” (così testualmente in dispositivo), da invalidità permanente e temporanea, sulla base delle tabelle milanesi aggiornate al 2014, applicando l’aumento percentuale massimo del 25% ivi previsto per personalizzazione del danno;

a2) Euro 117.529,41 per danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica;

a3) Euro 240.000 per danno patrimoniale rappresentato dalle spese di assistenza generica e specifica già sostenute e da sostenere in futuro;

b) in favore dei prossimi congiunti S.N. e F.G., Euro 102.000 per ciascuno.

La Corte ha quindi dato atto (v. dispositivo, lett. d) che “le somme sopra indicate sono state determinate nell’attualità (c.d. taxatio) mentre devono essere monetizzate alla data del sinistro (c.d. aestimatio), tenuto conto degli acconti versati” (questi ultimi specificati, anche con riferimento alle date dei singoli versamenti, in motivazione, al paragrafo 19.1.1) ed ha conseguentemente avvertito che “il conteggio andrà eseguito secondo i criteri indicati da Cass. 6347/2014…, dalla data del sinistro sino alla data di pronuncia della… sentenza” e che “gli interessi legali sulla somma cosi determinata decorreranno dalla sentenza al saldo”.

Quanto al regolamento delle spese infine ha, da un lato, confermato quello stabilito dal tribunale per il relativo giudizio, dall’altro, quanto alle spese del secondo grado, ne ha posto l’onere a carico degli appellanti incidentali.

3. Avverso tale sentenza S.N. – in proprio e quale tutore di S.A. – e F.G., propongono ricorso per cassazione articolando sette motivi; vi resistono Allianz S.p.A., B.G. e M.E., depositando controricorsi, i primi due proponendo a loro volta ricorsi incidentali: Allianz S.p.A. con tre mezzi, B. con due.

S.N., F.G. e B.G. hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Il nuovo tutore di S.A. ha depositato “comparsa di costituzione in giudizi del nuovo difensore”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I. Osservazioni preliminari.

1. Va preliminarmente rilevata l’irritualità del conferimento dell’incarico al nuovo difensore da parte del (nuovo) tutore di S.A., avvenuto attraverso il rilascio di procura speciale (non già nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ma) in calce di “comparsa di costituzione in giudizi del nuovo difensore”.

Trattandosi di giudizio nella specie già pendente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 (v. art. 58, comma 1), non può trovare applicazione il nuovo disposto dell’art. 83 c.p.c., comma 3 (come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 9), che ora ammette (integrando, sul punto, la precedente versione della medesima norma) la costituzione in giudizio della parte anche mediante il conferimento della procura speciale con apposizione in calce o a margine “della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato”. Pertanto, nel caso in esame, ricadente sotto la previgente disciplina del citato art. 83 c.p.p., comma 3, per la nomina del nuovo difensore sarebbe stato necessario osservare, in via esclusiva, le forme prescritte dello stesso art. 83 c.p.p., comma 2, non essendo ammesse altre modalità (v. ex aliis Cass. 20/01/2016, n. 955; 21/11/2011, n. 24632; 09/02/2011, n. 3187).

II. Ricorso principale.

1. Con il primo motivo del ricorso principale S.N. e F.G. denunciano “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancata valutazione dell’art. 143 C.d.S., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Si dolgono che la Corte d’Appello, nel determinare il riparto di responsabilità nella causazione del sinistro, non ha valutato che l’autoveicolo, in violazione dell’art. 143 C.d.S., non teneva strettamente la destra e che ove non avesse deviato verso sinistra l’incidente non si sarebbe verificato.

Lamentano che tale circostanza è stata completamente ignorata avendo la Corte territoriale trascurato i motivi dell’appello incidentale.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunciano “violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 c.c. e degli artt. 141,142 e 143C.d.S. e art. 445 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Lamentano che la Corte d’Appello, al predetto fine, non ha tenuto conto della velocità dell’autoveicolo che in un centro abitato aveva superato il limite di ben 30 Km/h e non teneva la sua destra, omettendo altresì di considerare che le prove testimoniali avevano dimostrato che lo S. indossava il casco e che, in sede penale, il B. aveva concordato la pena ex art. 444 c.p.p..

Contesta altresì il convincimento espresso in sentenza che, al momento dell’incidente, il ragazzo non indossasse il casco, poichè illogico e immotivato e contrastante con le prove testimoniali raccolte e con le risultanze della consulenza tecnica.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano “violazione e falsa applicazione degli artt. 3,4,31 e 32 Cost. e degli artt. 1223, 1226, 2042, 2054 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, per avere la Corte d’appello liquidato il danno non patrimoniale senza adeguata attenzione a tutte le “componenti fisiche, psichiche e spirituali del dolore umano” limitandosi ad un mero calcolo tabellare.

Lamentano in particolare che, “in base alla documentazione prodotta in giudizio, alle prove acquisite ed ai risultati della consulenza tecnica d’ufficio, la voce di danno morale intesa quale sofferenza soggettiva non si può ritenere adeguatamente risarcita con la sola applicazione dei valori monetari-tabellari” ma avrebbe dovuto procedersi “ad una personalizzazione liquidando un’ulteriore somma poichè si deve ristorare non solo il pretium doloris derivante dalla commissione di un reato ma anche ogni pregiudizio ai valori della persona umana subito a seguito del sinistro” (si cita in proposito in ricorso il precedente di Cass. 22/09/2015, n. 18611, non massimato, là dove afferma, in motivazione, pag. 13, con riferimento ad un caso analogo, che “le componenti fisiche, psichiche e spirituali del dolore umano, meritano una migliore attenzione rispetto al calcolo tabellare dove la personalizzazione è pro quota, mentre deve essere ad personam”).

Lamentano inoltre una errata determinazione da parte della Corte d’appello del periodo di invalidità temporanea, poichè non corrispondente all’intera durata del ricovero in ospedale.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono “nullità della sentenza sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1223 c.c., per omessa pronuncia su domande formulate dai ricorrenti in appello, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, circa la determinazione delle spese mediche, farmaceutiche, di assistenza e terapeutiche”.

Lamentano che la Corte d’Appello non ha esaminato nemmeno uno dei documenti prodotti a fondamento della domanda di risarcimento del danno emergente e di quello futuro, limitandosi a tenere conto solo di quanto liquidato dal Tribunale, che aveva eseguito al riguardo una valutazione sommaria e come tale errata, e omettendo peraltro di considerare la mancata contestazione dei convenuti che si erano sul punto limitati a sostenere la correttezza della valutazione del primo giudice (in quanto fondata sui calcoli operati dal c.t.u.).

5. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano “violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223 e 1282 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, per avere la Corte d’Appello disposto che gli acconti versati dalla compagnia assicuratrice, da detrarre dalle somme liquidate a titolo di risarcimento dei danni, fossero “opportunamente rivalutati e maggiorati degli interessi”, in tal modo erroneamente accogliendo una domanda della compagnia (quella volta appunto alla rivalutazione degli acconti e al calcolo degli interessi sugli stessi) per la prima volta formulata in appello.

Lamentano altresì che in tale calcolo la Corte d’appello ha applicato un erroneo tasso d’interesse dell’1,50%, non corrispondente alla misura dell’interesse legale variato più volte nel corso degli anni in questione.

6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano “nullità della sentenza sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 2,29 e 30 Cost. e art. 1223 c.c., per omessa pronuncia su domande formulate in appello, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Lamentano che la Corte d’Appello non ha valutato correttamente il danno subito dai genitori, anche tenuto conto che gli stessi, non avendo la possibilità di far fronte ai relativi costi, si sono fatti carico delle necessità di assistenza continuativa del figlio macroleso.

7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono infine “violazione e falsa applicazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Lamentano che la Corte territoriale non ha valutato il motivo di gravame incidentale con il quale si censurava la liquidazione delle spese di lite operata dal primo giudice, poichè immotivatamente distante dagli importi indicati nella dettagliata nota spese prodotta.

III. Ricorsi incidentali.

1. Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale Allianz S.p.A. denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,116 e 277 c.p.c. e degli artt. 1227 e 2056 c.c..

Lamenta che la Corte d’appello, pur avendo affermato in sentenza il mancato uso del casco da parte di S.A. al momento del sinistro, non ha considerato in alcun modo tale circostanza ai fini della valutazione del concorso di colpa del danneggiato, nè ha fornito alcun elemento per far supporre che lo avesse escluso.

Deduce sul punto anche vizio di omessa pronuncia, essendo stata tale questione specificamente prospettata tra i motivi di appello.

Pienamente sovrapponibili sono le doglianze svolte da B.G. con il primo motivo del proprio ricorso incidentale.

2. Con il secondo motivo la compagnia assicuratrice denuncia “ulteriore violazione” degli artt. 112 e 277 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che la Corte d’appello, pur avendo ritenuto legittimamente proposta la domanda di condanna degli appellati alla restituzione delle somme versate loro in eccesso rispetto al risarcimento effettivamente dovuto, ha poi omesso di pronunciare su tale domanda, pur avendo determinato a tal titolo un importo inferiore agli acconti versati.

Rileva che “un semplice calcolo matematico” (poi esplicitato alle pagine 23-24 del controricorso, ricorso incidentale) “dimostra che S.A. aveva già ricevuto l’intero risarcimento a lui dovuto con il versamento di Euro 700.000 del 6 marzo 2003”.

Analogamente rileva che anche il credito risarcitorio degli stretti congiunti risultava ampiamente saldato al momento della pronuncia della sentenza d’appello, sicchè anche per loro la Corte d’appello avrebbe dovuto pronunciarsi sulla domanda di condanna alla restituzione delle somme versate in eccesso.

3. Con il terzo motivo – cui è pienamente sovrapponibile il secondo motivo del ricorso incidentale del B. – la società assicuratrice denuncia infine “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Entrambi i ricorrenti incidentali lamentano che erroneamente la Corte territoriale, pur avendo riformato la decisione di primo grado, ne ha confermato la statuizione sulle spese.

Rilevano di contro in particolare che S.A., avendo ricevuto prima di iniziare la causa più di quanto a lui spettante a titolo di risarcimento, avrebbe dovuto considerarsi totalmente soccombente già in primo grado.

Soggiungono inoltre che, per il secondo grado, la statuizione sulle spese non appare chiara, essendo la condanna pronunciata in dispositivo in favore della “parte appellata”, laddove Allianz, risultata vincitrice per essere stato accolto il suo gravame, era invece appellante principale.

IV. Motivi in punto di riparto della responsabilità del sinistro.

1. Le statuizioni in tema di riparto di responsabilità del sinistro sono attinte, ovviamente da punti di vista opposti, dal primo e dal secondo motivo del ricorso principale e, rispettivamente, dal primo motivo di entrambi i ricorsi incidentali.

Tutti detti motivi si appalesano inammissibili, sotto diversi profili.

2. Il primo motivo del ricorso principale lo è anzitutto per la sovrapposizione, in ordine alla medesima questione (ossia la valutazione del comportamento tenuto dal conducente dell’autovettura nell’occorso), di censure (omessa pronuncia, error iuris e omesso esame) certamente incompatibili tra di esse.

Vi è dunque un evidente difetto di specificità del motivo, risultando palesemente disatteso il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, che impone l’indicazione, a pena appunto di inammissibilità, de “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”, il quale comporta – come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte -“l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.” (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).

3. Non è comunque certamente a parlarsi di omessa pronuncia, posto che ad integrare tale vizio non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. Cass. n. 10636 del 2007). E’ vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado che deve essere fatto valere dal ricorrente attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass. n. 11844 del 2006; n. 24856 del 2006 e n. 12952 del 2007), tuttavia nella specie i ricorrenti non hanno dedotto – se non del tutto genericamente e comunque in palese inosservanza degli oneri di specifica indicazione degli atti imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6 – che sul punto fosse stato proposto uno specifico motivo d’appello (Cass. 16/05/2012, n. 7653).

4. Per il resto detto motivo, così come pure il secondo motivo del ricorso principale, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme evocate in rubrica, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze istruttorie, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle prove, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito.

Palesemente privo di pregio è poi al riguardo il riferimento alla sentenza di “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., non potendosi certo alla stessa attribuire alcun effetto vincolante in sede civile tanto meno ai fini della graduazione delle colpe, la quale ovviamente non esclude ma anzi implica la responsabilità del conducente dell’autovettura fatta valere in sede penale.

5. Analoghi rilievi possono svolgersi con riferimento al primo motivo dedotto in entrambi i ricorsi incidentali.

Anche in tal caso, al di là della contraddittoria e comunque infondata prospettazione di un vizio di omessa pronuncia, le censure si volgono, in sostanza, inammissibilmente, a sollecitare una nuova valutazione degli elementi di causa ai fini di una diversa ponderazione delle colpe concorrenti.

Varrà peraltro rimarcare che, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti incidentali, la circostanza del mancato uso del casco risulta espressamente considerata in sentenza (tanto che i ricorrenti principali si dolgono del convincimento espresso in tal senso) e anche valorizzata ai fini della riforma della decisione di primo grado sul punto in contestazione, ciò ricavandosi dall’inciso contenuto a pag. 9, righi 22-23, della sentenza, ove si legge “gli aspetti in precedenza esaminati” – tra i quali è certamente da ricomprendere il mancato uso del casco, sul quale poco prima la sentenza si sofferma dando ragione degli elementi che inducono ad affermarlo – “conducono a non condividere il modo in cui il Tribunale ha distribuito il grado di responsabilità”.

Il fatto che poi la sentenza non dia espressamente conto del peso attribuito a tale circostanza nel riconoscere alla vittima dell’incidente il 60% della colpa, apparentemente soffermandosi a tal fine solo sull’altra violazione allo stesso rimproverabile dell’inosservanza dell’obbligo di dare la precedenza al veicolo sopraggiungente, può al più legittimare una censura di insufficienza motivazionale non più deducibile quale motivo di ricorso per cassazione.

E’ noto infatti che, ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, non è più consentito il sindacato della Corte se non nei casi di anomalia motivazionale talmente grave da risolversi in vizio di violazione di legge costituzionalmente rilevante, esclusi quindi i casi di motivazione insufficiente o contraddittoria (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053).

V. Motivi in punto di quantificazione dei danni.

1. Attengono a tale tema i motivi terzo, quarto e sesto del ricorso principale.

2. Con il terzo motivo i ricorrenti principali si dolgono, come detto, di una del tutto inadeguata ponderazione, a fini risarcitori, del danno morale sofferto dalla vittima primaria.

Più precisamente, la prospettazione censoria muove dal richiamo della sentenza del primo giudice nella parte in cui ha ritenuto, secondo i ricorrenti correttamente, di liquidare il danno da lesione alla salute sulla base di una percentuale invalidante del 100% (pur nella consapevolezza della minor percentuale dell’85% stimata dal c.t.u.) allo scopo di adeguatamente compensare tutti i pregiudizi, anche di carattere morale, che nel caso concreto sono conseguiti all’evento lesivo; essa si appunta quindi sulla riduttiva valutazione operata dal giudice d’appello in quanto, di contro, inidonea a dar conto di tali concrete conseguenze nella loro molteplicità (e dunque anche sul versante soggettivo-morale).

In tale direzione la censura appare osservante degli oneri di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, essendo opportunamente riprodotta in parte qua – per stralcio testuale e per sintesi – la motivazione della sentenza di primo grado ed essendo individuata la parte della sentenza d’appello nella parte, criticata, in cui da quella si discosta.

Ciò premesso la censura, così proposta, appare meritevole di accoglimento, nei termini appresso precisati, nella parte in cui omette qualsiasi specifico riferimento alle sofferenze interiori patite dalla vittima primaria.

La Corte d’appello, nel liquidare il danno sofferto dalla vittima primaria, fa invero sempre testuale riferimento (sia nella intitolazione del relativo paragrafo (v. pag. 11 della sentenza, p. 15.5), sia nella illustrazione del calcolo, sia infine nel dispositivo) al solo “danno biologico”, da invalidità permanente e temporanea.

Non vi è invece alcun espresso riferimento alle sofferenze morali le quali non possono considerarsi comprese nella nozione di danno biologico.

Va al riguardo richiamata la più recente ed ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass. 17/01/2018, n. 901; 27/03/2018, n. 7513; 28/09/2018, n. 23469) in tema di risarcimento del danno alla persona, e vanno, in particolare, ribaditi, per la loro diretta rilevanza nel caso di specie, i seguenti principi.

A) Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.).

B) La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Corte Cost. n. 233 del 2003; Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-26975) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:

a. di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;

b. di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

C) Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.) e del recente intervento del legislatore sul D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139 (Codice delle assicurazioni private), modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17 – la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale e, cioè, tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sè, della paura, della disperazione), quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

D) Nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Cass. nn. 8827-8828 del 2003; Cass. Sez. U. n. 6572 del 2006; Corte Cost. n. 233 del 2003) – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sè stesso – quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sè”).

E) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

F) Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno c.d. esistenziale, appartenendo tali c.d. “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.).

G) Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all’art. 139 cod. ass. “non è chiusa anche al risarcimento del danno morale”), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 lett. e), cod. ass., introdotta – con valenza evidentemente interpretativa – dalla legge di stabilità del 2016.

Alla luce di tali principi la decisione impugnata appare dunque criticabile per la evidente obliterazione di ogni considerazione dei pregiudizi di carattere morale o soggettivo conseguenti alle gravissime lesioni subite dalla vittima primaria e alle assai precarie condizioni di vita che, come è sostanzialmente pacifico in causa, risiedono a suo carico in modo permanente.

E’ bensì vero che la sentenza dichiara esplicitamente di applicare, ai fini della liquidazione, la tabella elaborata dal Tribunale di Milano aggiornata al 2014, la cui nota esplicativa, come noto, precisa che nel valore del punto base è calcolata anche la componente del danno morale.

Ed è altresì vero che la sentenza poi applica, all’importo calcolato sulla base di tale tabella, anche la “personalizzazione massima del 25%, anche questa determinata secondo i parametri delle tabelle milanesi”.

Ciò però non è sufficiente a riconoscere nella liquidazione operata una effettiva e adeguata valutazione delle sofferenze morali, in assenza di alcun riferimento alla loro consistenza e gravità nel caso concreto.

Alla luce dei principi e degli indici di diritto positivo su richiamati appare invero anzitutto non corretta l’invocazione di un criterio standard di liquidazione anche riferito al danno morale; tanto meno appare giustificata la postulazione di un tetto massimo di personalizzazione del danno.

Occorre al riguardo invero osservare che:

– a differenza del danno biologico, il danno morale, ossia la sofferenza soggettiva, non avente fondamento medico legale, sfugge per definizione ad una valutazione aprioristica, ma deve essere allegato, provato e valutato nella sua concreta, multiforme e variabile fenomenologia che nessuna ragione logica, oltre che nessun fondamento positivo, consente di rapportare in termini standardizzati alla gravità della lesione all’integrità psico-fisica;

– in ogni caso non risultano mai specificati i criteri e il fondamento statistico della commisurazione del punto base omnicomprensivo postulato nelle tabelle applicate.

Quanto alla personalizzazione del danno converrà peraltro ancora notare che, nel caso di specie, questa è giustificata in sentenza in termini (“considerate le circostanze dolorose conseguenti al sinistro che incidono fortemente sulla condizione di vita del giovane A.”) che non appaiono con certezza riferibili alle sofferenze di carattere psicologico piuttosto che non al dolore fisico ed ai pregiudizi di carattere dinamico-relazionale propriamente riconducibili alla nozione di danno biologico (la sola voce, ripetesi, di danno non patrimoniale alla persona espressamente considerata in sentenza).

3. Le restanti censure svolte con il terzo motivo (errata determinazione del periodo di invalidità temporanea), nonchè quelle di cui al quarto ed al sesto motivo, si appalesano invece inammissibili.

3.1. La prima di esse, diversamente da quella prima esaminata, non espone un vizio di sussunzione o erronea applicazione di norme di diritto, ma impinge piuttosto evidentemente nella ricognizione del fatto, alla stregua di una mera asserzione oppositiva ed in termini del tutto estranei al paradigma censorio di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che consente il sindacato di legittimità sulla motivazione solo per l’ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Dirimente appare peraltro il rilievo che, come evidenziato dagli stessi ricorrenti, la valutazione della Corte recepisce sul punto una valutazione del c.t.u. (ciò che com’è noto esaurisce i compiti motivazionali del giudice del merito salvo che non siano contro la stessa proposte tempestive e specifiche critiche, non meramente oppositive, nella specie nemmeno dedotte: v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815); a fronte di tale dato i ricorrenti si limitano a richiamare il diverso opinamento del primo giudice e, per tramite di esso, propongono la parametrazione della invalidità temporanea totale alla durata stessa del ricovero in ospedale (10 mesi), omettendo però di indicare dove, come e quando tale fatto sia stato dedotto e acquisito al processo e soprattutto se lo stesso sia stato effettivamente negletto dal c.t.u. (per il che avrebbero dovuto riportare almeno la parte della relazione di consulenza a tale aspetto dedicata), e di argomentarne comunque la decisività, posto che la permanenza in ospedale non necessariamente è di per sè significativa, nell’ultima fase di stabilizzazione delle lesioni, di uno stato di invalidità totale.

3.2. Il quarto motivo è inammissibile per l’evidente novità della questione dedotta.

La sentenza d’appello, a proposito delle spese mediche di assistenza già sostenute e da sostenere in futuro, dà espressamente atto (v. pag. 12, p. 17) che: a) queste sono state determinate dal Tribunale sulla scorta di “apposita c.t.u.”; b) “sulla suddetta determinazione di importi non v’è stata opposizione dalle parti”.

La Corte territoriale invero recepisce la quantificazione già operata in primo grado, limitandosi soltanto a ridurla proporzionalmente in ragione della diversa graduazione di colpa nella causazione del sinistro.

A fronte di tale puntuale e specifico rilievo, che ovviamente sottende la mancata proposizione di specifico motivo di gravame sul punto, non può trovare ingresso sotto nessun profilo la censura svolta con il quarto motivo, tantomeno sul piano della omessa pronuncia, la cui deduzione si appalesa non sorretta da alcuna specifica indicazione (salvo quella evidentemente generica e inidonea secondo cui “con la comparsa di costituzione e risposta con appello incidentale la difesa degli odierni ricorrenti indicava in maniera precisa e puntuale il suddetto credito in ordine al quale non sussiste alcuna contestazione”: v. ricorso, pag. 34, in fine).

E’ appena il caso di rilevare al riguardo che, perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia è necessario, da un lato, che al giudice di merito siano state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state per il principio dell’autosufficienza riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica altresì dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 19/3/2007, n. 6371; Cass., Sez,. Un., 28/7/2005, n. 15781).

Del pari, se è vero che allorquando viene denunciato un error in procedendo – quale indubbiamente è il vizio di ultra o extrapetizione – la Corte di Cassazione è anche giudice del fatto ed ha il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia per il sorgere di tale potere-dovere è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (v. Cass., 19/3/2007, n. 6440; Cass., 23/1/2004, n. 1170), in quanto il diretto esame degli atti processuali è sempre condizionato ad un apprezzamento preliminare della decisività della questione (v. Cass., 16/4/2003, n. 6055).

3.3. Anche il sesto motivo deve considerarsi inammissibile.

Anch’esso anzitutto denuncia un vizio di omessa pronuncia che certamente non è nella specie configurabile, per le stesse ragioni già illustrate sopra con riferimento al primo motivo del ricorso principale: una decisione sul punto evidentemente nella sentenza esiste, mentre ad essere censurata è solo la completezza e adeguatezza del percorso motivazionale.

Pur considerando peraltro la censura sotto tale profilo -prescindendo, dunque, in una prospettiva sostanzialistica (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), dall’improprio riferimento in rubrica ad un presunto error in procedendo – appare manifesta l’estraneità della doglianza ai già ricordati presupposti e limiti del vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Occorre al riguardo rammentare che, secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. U 22/09/2014, n. 19881; Sez. U n. 8053 del 2014, cit.).

Nel caso di specie non si censura affatto l’omesso esame di fatti, storici, decisivi nei termini sopra detti, bensì una supposta incompleta valutazione delle reali e molteplici esigenze di assistenza e cura del macroleso, in particolare sul piano dei pesanti condizionamenti della stessa quotidianità di vita dei genitori conviventi.

Si tratta però di elementi che debbono già considerarsi valutati tra le conseguenze dinamico-relazionali dei danni sofferti, iure proprio, dai prossimi congiunti; le censure si palesano pertanto orientate secondo una prospettiva surrogatoria del potere esclusivo del giudice del merito di valutare le prove ed accertare i fatti (e, dunque, inammissibile anche nel regime di cui al previgente art. 360 c.p.c., n. 5).

VI. Motivi relativi al computo ed alla sorte degli acconti versati

1. Il quinto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale Allianz afferiscono, sotto diversi profili, al medesimo tema della imputazione e della sorte degli acconti versati.

2. Il primo di essi (ossia il quinto motivo del ricorso principale) è in parte inammissibile, in altra parte infondato.

Esso invero postula l’esistenza di statuizioni (rivalutazione degli acconti versati e maggiorazione degli interessi), che non è dato leggere nella sentenza impugnata.

Così come, a ben vedere, nemmeno è dato leggere alcuna statuizione di condanna alla restituzione di somme versate in eccedenza, tant’è che di ciò per l’appunto si duole, con il secondo motivo del proprio ricorso incidentale, la compagnia assicuratrice.

La sentenza piuttosto, ben diversamente, si limita a precisare: le modalità di attualizzazione delle somme liquidate a titolo di risarcimento; le modalità di calcolo su tali somme dei dovuti interessi compensativi (in funzione risarcitoria di ulteriore voce di danno da perdita della disponibilità finanziaria); come infine in tale calcolo debbano comprendersi e imputarsi gli acconti di volta in volta medio tempore versati.

Omette però, alla fine, di applicare in concreto tali criteri, sicchè manca in sentenza alcuna indicazione sul risultato della operazione di scomputo, nel rispetto dei criteri richiamati.

Ciò detto, ai fini comunque della disamina del quinto motivo di ricorso principale, non può non osservarsi che la Corte d’appello si attiene correttamente ai criteri più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, espressamene anzi richiamandoli.

Lungi dunque dal potersi ravvisare l’accoglimento di inammissibili domande nuove, quanto precisato in sentenza pertiene soltanto alla corretta modalità e tecnica di liquidazione del danno.

Varrà al riguardo rammentare che nelle obbligazioni risarcitorie, aventi natura di debito di valore, la somma spettante deve essere annualmente rivalutata secondo gli indici Istat dal momento dell’illecito sino al momento della liquidazione giudiziale, salvo che non venga liquidata in moneta attuale; al creditore spetta inoltre il risarcimento del danno derivante dal ritardo nel pagamento della somma predetta, consistente nel mancato godimento delle utilità che da essa avrebbe conseguito, il quale può essere liquidato attraverso la corresponsione degli interessi compensativi ad un saggio equitativamente individuato dal giudice ed eventualmente (ma non necessariamente) coincidente con quello legale (cfr. Cass. Sez. U 17/02/1995, n. 1712; successivamente v., in particolare, Cass. 18/07/2011, n. 15709 e Cass. 17/09/2015, n. 18243).

Dal momento della liquidazione giudiziale (momento in cui, con la pubblicazione della sentenza, l’obbligazione si converte in debito di valuta) non è più dovuta la rivalutazione monetaria, ma trova applicazione l’art. 1224 c.c., comma 1, sicchè sulla somma ormai definitivamente liquidata, non più soggetta a rivalutazione, spettano gli interessi moratori (di norma al tasso legale) sino al momento dell’effettivo pagamento.

Ciò premesso, nell’ipotesi in cui tra il momento dell’illecito e il momento della liquidazione definitiva il creditore riceva degli acconti, lo scomputo di tali acconti dalla somma complessivamente spettante deve avvenire tenendo conto del su richiamato fondamento del diritto alla corresponsione degli interessi compensativi. Questo diritto – si è detto – trova fondamento non già nell’operatività di una regola di cumulo automatico tra rivalutazione e interessi (analoga a quella che si rinviene, ad es., nei crediti di lavoro: art. 429 c.p.c., u.c.) ma nell’esigenza di risarcire al creditore il danno (c.d. lucro cessante finanziario) che si presume essergli derivato dalla circostanza di non avere potuto disporre tempestivamente della somma medesima e di non averla potuta dunque impiegare in maniera remunerativa.

La liquidazione di questo danno, con riguardo al periodo compreso tra l’evento dannoso e la ricezione dell’acconto, deve dunque avvenire mediante la corresponsione degli interessi sull’intero capitale, dovendo gli stessi compensare il mancato godimento delle utilità ricavabili dal tempestivo investimento dell’intera somma dovuta.

Invece, con riguardo al periodo compreso tra il pagamento dell’acconto e la liquidazione definitiva, poichè il pregiudizio da lucro cessante si riduce al mancato godimento delle utilità derivanti dall’impiego remunerativo del capitale residuo, la corresponsione degli interessi compensativi deve avvenire, non sull’intera somma spettante a titolo di risarcimento, ma sulla somma che residua una volta detratto l’acconto versato e debitamente rivalutato.

I rilievi che precedono consentono di affermare – ribadendo principi già ripetutamente espressi da questa Corte (Cass. 19/03/2014, n. 6347; 20/04/2017, n. 9950; 31/10/2017, n. 25817) – che l’operazione di scomputo degli acconti già versati dalla somma complessivamente dovuta al creditore a titolo di risarcimento, per essere corretta, deve articolarsi nelle seguenti operazioni:

a) in primo luogo occorre rendere omogenei il credito risarcitorio e l’acconto devalutandoli alla data dell’illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione;

b) in secondo luogo occorre detrarre l’acconto dal credito;

c) in terzo luogo occorre calcolare, sulla base del saggio equitativamente individuato (che “può” ma non “deve” necessariamente coincidere con quello legale), gli interessi compensativi, distinguendo il periodo intercorrente tra la data dell’illecito e quella del pagamento dell’acconto (in relazione al quale gli interessi vanno calcolati sull’intero capitale) dal periodo intercorrente tra quest’ultima data e quella della liquidazione definitiva (in relazione al quale gli interessi vanno calcolati sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto rivalutato).

La sentenza impugnata, ripetesi, richiama correttamente detti criteri e non è pertanto in tale parte censurabile.

3. Il secondo motivo del ricorso incidentale Allianz deve invece considerarsi assorbito dall’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale.

La Corte d’appello infatti, essendo conseguentemente investita nuovamente della questione relativa alla quantificazione dei danni, sia pure sotto il limitato profilo attinto dal motivo accolto, dovrà in sede di rinvio operare i relativi calcoli, e nel far ciò dovrà ovviamente sempre considerare gli acconti già versati nelle date dei relativi versamenti, con l’avvertenza che, peraltro, sarà a tal fine necessario non solo indicare i criteri da applicare, ma anche precisare il saldo, a credito o a debito dell’una o dell’altra parte, che ne risulta al momento della pronuncia della sentenza.

VII. Motivi relativi alle spese.

1. Rimane conseguentemente assorbito l’esame dei restanti motivi, relativi al regolamento delle spese di primo grado, sul quale il giudice di rinvio dovrà necessariaHente nuovamente pronunciarsi all’esito del rinnovato esame delle questioni poste con il motivo accolto.

VIII. Conclusioni.

1. In accoglimento dunque, per quanto di ragione, del terzo motivo del ricorso principale – rigettato il quinto motivo, dichiarati inammissibili il primo, il secondo, il quarto e il sesto motivo del ricorso principale e il primo motivo di entrambi i ricorsi incidentali, dichiarati inammissibili i restanti motivi svolti sia nel ricorso principale che nei ricorsi incidentali – la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il terzo motivo del ricorso principale, nei termini di cui in motivazione; rigetta il quinto motivo del ricorso principale; dichiara inammissibili il primo, il secondo, il quarto e il sesto motivo del ricorso principale e il primo motivo di entrambi i ricorsi incidentali; dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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