Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24609 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 04/11/2020, (ud. 24/06/2020, dep. 04/11/2020), n.24609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27167-2016 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA BELLA

VILLA 66D, presso lo studio dell’avvocato TATIANA TARLI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELO SPENA;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE N. (OMISSIS), in persona

del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FASANA 21, presso lo studio dell’avvocato MICHAEL LOUIS STIEFEL,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE FERRARO;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 24/10/2016,

R.G.N. 1072/2016.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. con decreto 24 ottobre 2016, il Tribunale di Napoli rigettava l’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 98 L. Fall., dall’ing. C.E. avverso lo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. in liq., dal quale era stato escluso il credito insinuato in via privilegiata di Euro 162.534,20, sulla base di un rapporto di lavoro subordinato, costituito il 13 febbraio 2008 e cessato il 30 giugno 2014, per la mancanza di prova della prestazione lavorativa e della sua stessa giustificazione;

2. in via preliminare, esso escludeva la violazione del contraddittorio per avere il giudice delegato in sede di accertamento disatteso la conclusione del curatore di ammissione del credito, in quanto non vincolante;

3. nel merito, riteneva che il creditore, assunto poco prima della messa in liquidazione della società, di cui era socio ed era stato amministratore unico dal 1980 al 2005, non avesse provato lo svolgimento dell’attività lavorativa subordinata, non risultando alcun atto ascrivibile agli elementi caratterizzanti la subordinazione ed essendo piuttosto emerso il rimborso in suo favore di ingenti somme per spese a titolo diverso;

4. avverso il decreto, con atto notificato il 23 novembre 2016, il lavoratore ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva il Fallimento con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 95 L. Fall., art. 2697 c.c., artt. 112 e 115 c.p.c., nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione e vizio motivo, per erroneo rigetto dell’opposizione della censura di ultrapetizione della decisione di esclusione del credito insinuato allo stato passivo del fallimento, sul rilievo officioso del giudice delegato di assenza di prova della prestazione lavorativa e della sua necessità, nonostante il parere del curatore di ammissione del credito e sull’autonomo rilievo di una compensazione con ingiustificati rimborsi di spese, integrante un’eccezione in senso proprio; oltre che per erroneo rigetto da parte del Tribunale della doglianza di violazione del contraddittorio tra le parti, non avendo il giudice delegato in sede di accertamento, quand’anche legittimato al contestato esercizio di poteri di rilievo officioso, concesso un termine per deduzioni difensive: (primo motivo);

2. esso è infondato;

2.1. non ricorre la violazione del principio di corrispondenza del chiesto al pronunciato, tanto sotto il profilo di ultra che di extra petizione, che si sostanzia nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicchè il vizio di ultra o extra petizione sussiste quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori ricorrente (Cass. 11 aprile 2018, n. 9002; Cass. 21 marzo 2019, n. 8048);

2.2. in particolare, non incorre nella violazione dell’art. 112 c.p.c. il tribunale che, esercitando il proprio potere d’ufficio di accertare la fondatezza della domanda proposta, rigetti l’opposizione allo stato passivo proposta dal creditore, dovendo l’accertamento sull’esistenza del titolo dedotto in giudizio essere compiuto dal giudice ex officio in ogni stato e grado del processo, nell’ambito proprio di ognuna delle sue fasi, in base alla risultanze rite et recte acquisite nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole processuali (Cass. 6 novembre 2013, n. 24972, con specifico riguardo al rilievo del tribunale, nella vigenza del regime introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 e dal D.Lgs. n. 169 del 2007, applicabili ratione temporis, della mancata prova del rapporto di lavoro subordinato, in difetto di eccezione sul punto dalla curatela fallimentare; Cass. 12 novembre 2019, n. 29254);

2.3. in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure rileva(va) rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perchè non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove (Cass. 6 agosto 2015, n. 16554; Cass. 8 agosto 2017, n. 19734; Cass. 24 maggio 2018, n. 12973): non potendo poi essere correttamente qualificato alla stregua di eccezione di compensazione (come al primo capoverso di pg. 9 del ricorso) l’argomento probatorio tratto dal giudice delegato (ripreso anche dal Tribunale) della risultanza in favore del creditore di “rilevanti importi già percepiti per rimborsi spese del tutto privi di giustificazione” (così al primo capoverso di pg. 2 e al terzo di pg. 4 del decreto);

2.4. neppure sussiste una violazione del diritto di difesa, non ricorrendo alcuna lesione del contraddittorio tra le parti, avendo il Tribunale ritenuto il difetto di prova del rapporto di lavoro dedotto quale causa petendi della domanda di insinuazione del creditore, nell’alveo pertanto degli elementi costitutivi della pretesa, non integrante questione da sottoporre al contraddittorio tra le parti, a norma dell’art. 101 c.p.c., comma 2, suscettibile di rendere nulla la sentenza (Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 12 settembre 2019, n. 22778; Cass. 12 dicembre 2019, n. 32485);

2.5. il Tribunale ha esattamente applicato i suenunciati principii di diritto, di cui ha pure dato succinto, ma argomentato conto (al terzo capoverso di pg. 3 del decreto);

3. il ricorrente deduce poi violazione e falsa interpretazione dell’art. 2729 c.c., commi 1 e 2, art. 2722c.c. e art. 112 c.p.c., nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per la ravvisata inesistenza del rapporto lavorativo tra le parti soltanto in sede di opposizione e comunque per il difetto, erroneamente ritenuto, della sua prova in base ad elementi presuntivi (quali in particolare l’assunzione poco prima della messa in liquidazione della società, di cui il ricorrente era stato socio ed amministratore unico dal 1980 al 2005, nell’indimostrato svolgimento di attività lavorativa subordinata, in assenza di alcun atto ascrivibile agli elementi caratterizzanti la subordinazione e nella risultanza piuttosto del rimborso di ingenti somme per spese sostenute a titolo diverso), a fronte della documentazione scritta prodotta e della dedotta prosecuzione dell’attività di impresa, in particolare attraverso gli affitti e le cessioni dei plurimi rami d’azienda nei quali esplicata la propria attività dirigenziale, oggetto delle prove orali dedotte e non ammesse e contestata la carica amministrativa nell’impresa fallita, per erronea indicazione nel registro delle imprese, risultando piuttosto amministratore di altra società (Gamma Conglomerati s.r.l.) (secondo motivo);

4. esso è inammissibile;

5. giova in via preliminare chiarire come la presente controversia, riguardante fattispecie sostanzialmente identica a quella rubricata a R.G. 25894/2016 decisa da questo medesimo collegio in pari adunanza camerale odierna, abbia un esito diverso da quella, per la semplice, ma insuperabile ragione del diverso percorso decisionale dei due decreti del Tribunale di Napoli (in diversa composizione) e della conseguente diversa devoluzione motiva dei due ricorrenti a questa Corte di legittimità, il cui giudizio è, come noto, a critica vincolata e nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto essa non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa (Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass. 6 marzo 2019, n. 6519);

5.1. in particolare, la controversia rubricata a R.G. 25894/2016 ha posto, alla base dell’esclusione del credito di C.A. dallo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. in liq., la questione di diritto della ritenuta impossibilità oggettiva della prestazione lavorativa (di dirigente) per la pendenza di un concordato preventivo di natura liquidatoria e pertanto esclusivamente finalizzato alla dismissione dei beni, incompatibile con l’attività tipica dirigenziale;

5.2. quella odierna qui in decisione si è invece focalizzata, nell’escludere il credito di C.E. dallo stato passivo del medesimo Fallimento, soltanto sull’accertamento in fatto dell’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato, per la verificata carenza di alcuna prova in tale senso: e il motivo in esame è naturalmente formulato in una tale prospettiva;

6. tanto premesso per doverosa chiarezza e ribadita, per le ragioni suindicate, l’esclusione del vizio di ultrapetizione denunciato, nel merito della censura, occorre sempre distinguere tra il contratto, e in genere i dati puramente documentali del rapporto di lavoro, dalla sua effettiva realizzazione negli elementi costitutivi precipui;

6.1. ebbene, secondo insegnamento assolutamente consolidato, perchè il rapporto di lavoro si abbia per realmente integrato, non basta certamente la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, essendo piuttosto decisivo il comportamento in concreto tenuto nell’attuazione del rapporto medesimo: non essendo i dati formali, seppure rilevanti, tuttavia determinanti, non esimendo pertanto il giudice dal puntuale accertamento del comportamento detto, per la sua idoneità, nei rapporti di durata, ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa volontà (Cass. 23 luglio 2004, n. 13872; Cass. 25 ottobre 2004, n. 20669); sicchè, occorre fare riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro (Cass. 15 giugno 2009, n. 13858; Cass. 9 agosto 2013, n. 19114);

6.2. è noto che la valutazione degli elementi probatori, ai fini della qualificazione del rapporto di collaborazione personale in termini di subordinazione, sia attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, essendo a tal fine sufficiente che da questa risulti che il convincimento si sia formato attraverso la valutazione degli elementi acquisiti considerati nel loro complesso, senza necessità di una specifica analisi e confutazione degli elementi ritenuti recessivi rispetto a quelli valutati di valore prevalente (Cass. 29 maggio 2008, n. 14371);

6.3. in tema poi di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile per error in iudicando (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e non gìà alla stregua del vizio motivo (art. 360, comma 1, n. 5), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. 26 giugno 2008, n. 17535; Cass. 4 agosto 2017, n. 19485); ed essendo incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito, in ordine alla valutazione del vizio motivo, dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 18 marzo 2003, n. 3983; Cass. 9 febbraio 2004, n. 2431; Cass. 4 maggio 2005, n. 9225; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1216; Cass. 8 marzo 2007, n. 5332; Cass. 7 luglio 2007, n. 15219; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1234);

6.4. in applicazione corretta dei suenunciati principi di diritto, per l’appropriato ricorso al ragionamento probatorio presuntivo nell’alveo dei suoi requisiti di utilizzazione, il Tribunale ha accertato l’inesistenza del rapporto lavorativo dedotto, apprezzando l’indubbia gravità e concordanza degli elementi acquisiti e con argomentata valutazione di inidoneità delle prove orali offerte (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 3 al terzo di pg. 4 del decreto): sicchè, la censura del ricorrente ne opera una confutazione di mera contrapposizione valutativa, senza alcun riferimento ad un non corretto procedimento di sussunzione, così da non configurare vizio di diritto denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per assenza dei presupposti costitutivi (Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 15 gennaio 2015, n. 635);

6.5. il mezzo si risolve allora in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento in fatto del giudice di merito, sollecitando una rivisitazione del merito, indeferibile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più in considerazione del ristretto ambito devolutivo individuato dal già citato novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

5. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

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