Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24602 del 01/12/2016


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Cassazione civile sez. VI, 01/12/2016, (ud. 21/10/2016, dep. 01/12/2016), n.24602

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21236-2015 proposto da:

PIETRO IL PESCATORE S.N.C., P. IVA (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CRISTOFORO COLOMBO 440, presso lo studio dell’avvocato SARA TASSONI,

rappresentato e difeso dagli avvocati ERASMO PATRIZIO CINQUANTA e

CARLA MASTRACCI giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ST.

D’AQUINO 7, presso lo studio dell’avvocato GIOVARRUSCIO LUCA,

rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE TRABUCCO giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2456/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

emessa il 30/03/2015 e depositata il 20/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FRANO SCO ANTONIO

GVNOVISE.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 20 luglio 2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.:

“Con sentenza in data 20 aprile 2015, la Corte d’Appello di Roma ha respinto gli appelli interposti dalla società Pietro il pescatore snc (principale) e D.C.C. (incidentale) contro la sentenza del Tribunale di latina che, a sua volta, aveva respinto la domanda di annullamento del lodo irrituale proposto dalla medesima società in relazione all’ipotizzato errore valutativo della quota sociale a seguito dell’esclusione dalla società della socia D.C..

Secondo la Corte territoriale, per quello che qui ancora rileva, i pretesi errori arbitrali, oggetto di motivi di impugnazione che reiteravano le censure al lodo svolte in prime cure, non erano errori di fatto ma pretesi errori valutativi, ossia errori di giudizio.

Avverso la decisione ha proposto ricorso, notificato il 2 settembre 2015, la società (facendo valere la violazione degli artt. 1427 e 2289 c.c. nonchè omissione di fatti decisivi) contro cui resiste, con controricorso, la socia.

Il ricorso, proposto per il sindacato del doppio giudizio (conforme) in materia di lodo arbitrale irrituale, si palesa manifestamente inammissibile, avendo questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 22374 del 2006) già esaminato casi siffatti ed affermato il principio secondo cui: “Il lodo arbitrale irrituale non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo o l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico e dell’arbitro stesso.”.

Di conseguenza, con riferimento il controllo in cassazione, della corretta valutazione del giudizio sul lodo irrituale da parte dei giudici di merito, non è possibile far valere censure che attengano ai presunti vizi del giudizio sul dictum arbitrale come se essi fossero frutto di un arbitrato rituale, e richiamando i principi di diritto elaborati dalla stessa Corte di cassazione nella materia della valutazione di aziende o di cespiti aziendali.

Infatti, il giudice di merito (e particolarmente la Corte territoriale) ha affermato che l’arbitro irrituale non ha commesso errori di fatto (unica possibilità di sindacato in suo potere) ma ha utilizzato criteri valutativi, non condivisi dalla società, e rispetto ai quali il giudice statale non si può sovrapporre in chiave sostitutiva, facendo prevalere (ove in ipotesi corretti) i criteri formalizzati adottati dalla giurisprudenza rispetto a quelli impiegati dall’arbitro irrituale.

L’inammissibilità dell’odierno ricorso è ancora più evidente oggi, in riferimento alle sentenze (come quella oggetto del presente giudizio) pubblicate oltre il termine di trenta giorni successivo all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012 (che ha convertito il D.L. n. 83 del 2012), in quanto le doglianze del tipo esaminato s’infrangono sull’interpretazione dei poteri della Corte di cassazione così chiariti dalle SU civili (nella Sentenza n. 8053 del 2014): la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Difettando, complessivamente, il tono dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, se ne deve disporre il giudizio camerale ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. e art. 375 c.p.c., n. 1″.

Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia contenuta nella relazione di cui sopra, alla quale non risultano essere state mosse osservazioni critiche;

che, perciò, il ricorso, manifestamente inammissibile, deve essere dichiarato tale, in ossequio al principio di diritto sopra richiamato;

che, alla reiezione (lato sensu) del ricorso, consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali di questa fase, in favore della parte resistente, liquidate come da dispositivo, oltre che il raddoppio del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte,

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questa fase del giudizio, che liquida – in favore della parte resistente – in complessivi Euro 5.100,00, di cui 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione sesta civile – 1 della Corte di cassazione, dai magistrati sopra indicati, il 21 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2016

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