Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24600 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/11/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 04/11/2020), n.24600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15548 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Sala Diffusion s.n.c. di D.A. e B.M., in persona del

legale rappresentante pro tempore, D.A.C. e

M.B., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Gaspare Falsitta, Silvia

Pansieri e Rita Gradara per procura speciale in calce al ricorso,

elettivamente domiciliati in Roma, via largo Somalia, n. 67, presso

lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato,

presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 21, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 52/42/2013, depositata il giorno 16

aprile 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 31

gennaio 2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Sala Diffusion s.n.c. di D.A. e B.M., esercente attività di servizi dei saloni di barbiere e parrucchiere, nonchè ai soci, rispettivi avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2006, 2007 e 2008, erano stati rilevati maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, con conseguente maggiore Irap, Iva e Irpef, avendo applicato al costo del lavoro dichiarato un coefficiente del 33,49%, risultante dalla media di incidenza registrata nella provincia di Pavia e avendo ritenuto che la gestione risultava antieconomica; avverso i suddetti avvisi la società ed i soci avevano proposto separati ricorsi; la Commissione tributaria provinciale di Pavia, previa riunione, aveva accolto i ricorsi, avendo ritenuto che, nella fattispecie, era stato violato l’obbligo del contraddittorio; avverso la suddetta pronuncia l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello; la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto parzialmente l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussisteva violazione dell’obbligo del contraddittorio preventivo, in quanto l’ufficio non è tenuto a interpellare il contribuente quando le incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione dei redditi presentata derivano dal contenuto intrinseco delle dichiarazioni e dal confronto tra la dichiarazione ed i dati di cui l’ufficio abbia la disponibilità; sussisteva, nella fattispecie, l’antieconomicità della gestione; le circostanze addotte dai contribuenti, relative all’anno 2006, potevano valere solo ai fini di una riduzione della pretesa per il suddetto anno;

avverso la suddetta pronuncia hanno proposto ricorso i contribuenti affidato a due motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 146 del 1998, art. 10, e, più in generale, del principio del contraddittorio nel caso di accertamenti eseguiti secondo procedure standardizzate; in particolare, parte ricorrente lamenta che, poichè nella fattispecie l’accertamento era stato compiuto sulla base di parametri o medie di settore, era necessaria l’attivazione del contraddittorio preventivo;

il motivo è inammissibile;

l’argomento di fondo, sulla cui base i ricorrenti basano la ragione di censura in esame, risiede nella circostanza che, essendo l’accertamento basato sugli studi di settore, era necessaria l’instaurazione del contraddittorio preventivo;

tuttavia, il motivo difetta di specificità, non avendo parte ricorrente riprodotto il contenuto degli avvisi di accertamento al fine di consentire a questa Corte di apprezzare la valenza della censura proposta, non potendo rilevare la circostanza che i suddetti avvisi sono stati allegati al ricorso (vd. pag. 9), senza, tuttavia, riprodurre i passaggi sulla cui base potere apprezzare la rilevanza della contestazione prospettata;

invero, dall’esame della sentenza si evince che gli avvisi di accertamento erano fondati sulla ritenuta antieconomicità della gestione in considerazione del numero dei lavoratori impiegati e del risultato negativo o limitato del reddito dichiarato, unitamente al fatto che i soci traevano sostentamento unicamente dall’attività dell’impresa; in questo contesto, il riferimento al coefficiente del 33,49%, risultante dalla media di incidenza registrata nella provincia di Pavia, ha costituto il parametro di riferimento ai soli fini della concreta determinazione del maggior ricavo non dichiarato, piuttosto che come elemento su cui fondare la non correttezza dei ricavi dichiarati;

va quindi osservato che, stando a quanto risulta dalla sentenza, l’accertamento fiscale da cui muove la presente controversia origina dalla constatata antieconomicità della gestione svolta tenuto conto dei costi sostenuti per i lavoratori e dei redditi dichiarati nella contabilità, per giungere a ritenere insufficienti i ricavi dichiarati;

per tale accertamento, l’orientamento consolidato di questa Corte è fermo nel ritenere che l’Amministrazione finanziaria è gravata, si, di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, ma sempre che il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Cass. Sez. Un., n. 24823 del 09/12/2015, Rv. 637604-01, Cass. civ., 710/2018);

circa la c.d. prova di resistenza, relativa ai tributi armonizzati (contestati nella presente fattispecie), parte ricorrente si limita ad affermare (vd. pag. 11) che “se i contribuenti fossero stati regolarmente invitati ad un previo contraddittorio, avrebbero potuto rappresentare tutta una serie di circostanze giustificative dell’incidenza dei costi sul fatturato (le dipendenti in congedo di maternità, il venire meno dell’accordo con (OMISSIS), le spese di avviamento del nuovo punto vendita, etc.”;

si tratta, invero, di profili meramente affermati, senza alcuna allegazione e quindi privi di specificità, in particolare la parte non ha assolto all’onere di specificare che, già in sede di ricorso originario, i profili in esame erano stati dedotti al fine di sostenere la dedotta violazione del principio del contraddittorio;

la sentenza censurata, quindi, avendo ritenuto non necessario, nella fattispecie, l’obbligo del contraddittorio preventivo, non è in contrasto con i suddetti principi;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, consistente nelle circostanze idonee a giustificare l’incidenza del costo del lavoro sul fatturato;

il motivo è infondato;

va osservato che questa Corte (Cass. civ., 26 ottobre 2018, n. 27310) ha più volte precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato, esclude la sindacabilità della correttezza logica della motivazione sotto il profilo della sua insufficienza o contraddittorietà, potendo denunciarsi in cassazione solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, purchè risultante dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, mentre, l’omessa motivazione, viene parametrata ad un “minimo costituzionale”, esaurendosi nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;

nella fattispecie in esame non ricorrono i vizi motivazionali denunciati in quanto la motivazione della sentenza impugnata, seppur sintetica, è adeguata, alla stregua dei canoni individuati dalle Sezioni Unite, ed il percorso argomentativo e logico risulta chiaramente espresso, avendo il giudice del gravame tenuto conto delle circostanze addotte dalla contribuente, esprimendo, tuttavia, una valutazione della rilevanza delle stesse ai soli fini di una riduzione del maggiore imponibile accertato;

nè può ragionarsi in termini di omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia, in quanto, come detto, il fatto storico dedotto dalla ricorrente è stato specificamente preso in considerazione dal giudice del gravame, sicchè, in realtà, con il presente motivo viene sollecitata una non ammissibile rivalutazione degli elementi di fatto, al fine di pervenire ad una diversa valutazione della rilevanza degli stessi, in particolare ai fini non della riduzione dell’imponibile (come ritenuto dal giudice del gravame) ma del totale annullamento della pretesa;

in conclusione, il primo motivo è inammissibile, il secondo infondato, con conseguente rigetto del ricorso e condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna al pagamento delle spese di lite che si liquidano in Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

 

 

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