Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24600 del 02/10/2019

Cassazione civile sez. I, 02/10/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 02/10/2019), n.24600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16735/2015 proposto da:

Vitis Rauscedo Soc. Cooperativa Agricola, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

delle Milizie n. 76, presso lo studio dell’avvocato Infascelli

Francesca, rappresentata e difesa dall’avvocato Cassini Alberto,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

L.C., e L.I., in proprio e quali eredi di

L.T., e P.M.L., quale erede di

L.T., elettivamente domiciliati in Roma, Via della Scrofa n. 64,

presso lo studio dell’avvocato Zunarelli Stefano, che li rappresenta

e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 264/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 22/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/06/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il Tribunale di Pordenone rigettava la domanda proposta dalla società cooperativa Vitis Rauscedo e accoglieva in parte quelle proposte in via riconvenzionale da L.T., C. e I.: per l’effetto condannava l’attrice a corrispondere ai predetti convenuti alcuni importi, ritenuti dovuti in base a un accordo concluso tra le parti il 7 gennaio 2008, con cui era stato regolato il recesso dei predetti L. dalla società. Riteneva il Tribunale che i conferimenti dei soci dovessero essere pagati in denaro, non in natura, e che dai versamenti andassero detratti gli eventuali acconti ricevuti dai soci stessi per il conferimento dell’annata agraria 2007-2008; affermava, inoltre, che, a norma dell’art. 7 della predetta convenzione, dovesse attuarsi l’integrale azzeramento delle reciproche posizioni di debito e credito delle parti: ciò che, ad avviso del detto giudice, trovava conferma nell’art. 9 dell’accordo con cui le parti avevano “rinunciato ad ogni futura causa collegata sia al rapporto societario che a quello mutualistico”.

2. – La società cooperativa Vitis Rauscedo proponeva gravame che la Corte di appello di Trieste respingeva: essa disattendeva, infatti, i rilievi critici dell’appellante vertenti sull’interpretazione delle clausole di cui agli artt. 3, 4 e 7 del richiamato accordo e riteneva inoltre infondata la censura con cui la società cooperativa aveva lamentato la maggiorazione degli importi capitali liquidati con gli interessi di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002.

3. – Contro la sentenza della Corte friulana, pronunciata il 22 aprile 2015, Vitis Rauscedo ricorre per cassazione, con tre motivi. Resistono con controricorso L.C. e L.I., in proprio e nella qualità di eredi di L.T., e, nella sola qualità di erede del predetto, P.M.L.. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione dei canoni legali di interpretazione di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè violazione o falsa applicazione dell’art. 2516 c.c.. La censura investe il tema delle modalità attraverso cui avrebbero dovuto remunerarsi i conferimenti. Assume la ricorrente che l’interpretazione resa dalla Corte di merito non poteva condividersi, nè sul piano letterale, nè su quello sistematico. Ricorda, poi, che a norma dell’art. 8 dell’accordo il rapporto mutualistico si era estinto solo il 31 gennaio 2003 e che l’assegnazione in natura doveva operare anche per i soci receduti. Aggiunge che il termine “pagamento”, che compariva nell’art. 4 dell’accordo, non era incompatibile con una liquidazione in natura dei conferimenti.

Col secondo motivo è lamentata una ulteriore violazione dei canoni legali di interpretazione, e ciò avendo specifico riguardo agli artt. 1362,1363 e 1367 c.c.; è inoltre dedotta la violazione degli artt. 1241 e 1243 c.c., nonchè dell’art. 2697 c.c.. La doglianza è riferita alla lettura che la Corte di merito ha dato dell’art. 7 dell’accordo: sostiene la ricorrente che la formulazione della clausola imponeva di detrarre dalle spettanze dei L. gli acconti loro erogati fino al 28 ottobre 2007; rileva, poi, che la Corte distrettuale aveva errato nell’interpretare il contenuto di tre documenti che recavano dichiarazioni di contenuto ricognitivo: richiama, in particolare, un prospetto che indicava come il costo delle forniture di materiale vivaistico ai tre controricorrenti sopravanzasse l’ammontare dei conferimenti spettanti a questi ultimi e riferisce di un’ammissione formulata dai L. nella comparsa di risposta depositata in primo grado.

1.1. – I due motivi, che vertono sul significato attribuito dalla Corte di appello ad alcune clausole dell’accordo transattivo, sono inammissibili.

La vicenda oggetto di lite trae le mosse dall’accordo del 7 gennaio 2008, con cui era stato disciplinato il recesso dei soci L. dalla Cooperativa Vitis e la materia del contendere ha riguardato principalmente il significato da attribuire alle pertinenti disposizioni di tale accordo. Alla Corte triestina sono state poste due questioni.

La prima riguardava la modalità attraverso cui avrebbe dovuto regolarsi il corrispettivo dei conferimenti degli originari convenuti, attori in riconvenzionale: risultava infatti essere controverso se tale corrispettivo dovesse essere versato in denaro, o anche in natura. Il giudice distrettuale ha ritenuto: che le clausole nn. 3, 4 e 6 della convenzione non prevedessero la possibilità di remunerazione in natura; che il termine “pagamento” fosse comunemente da riferire al versamento in denaro; che l’art. 4 cit. facesse menzione del “valore unitario” dei conferimenti determinato dall’assemblea, il che a suo avviso implicava che si facesse “riferimento come mezzo di pagamento, al denaro e non al bene in natura”; che, del resto, l’art. 5 dello statuto sociale prevedesse che il ricavato delle vendite fosse ripartito tra i soci conferenti previa deduzione delle spese e degli oneri fiscali; che il riferimento allo “scambio mutualistico”, contenuto nella clausola n. 8 dell’accordo, valesse ad individuare il conferimento alla società cooperativa che si sarebbe attuato nonostante i L. non fossero più soci; che, essendo questi ultimi receduti, non potessero valere i principi mutualistici adottati dalla cooperativa per remunerare i propri soci.

La seconda questione verteva sull’interpretazione della clausola n. 7 dell’accordo. Secondo la Corte di appello, correttamente il Tribunale aveva rilevato che con tale disposizione contrattuale le parti avessero inteso azzerare i reciproci rapporti di dare e avere esistenti al 31 agosto 2007, data di chiusura del bilancio societario. Il giudice distrettuale ha osservato, in proposito, che gli appellati avevano rinunciato a un giudizio di rendimento del conto e a un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci della cooperativa, nonchè all’integrale pagamento dei conferimenti effettuati nella campagna 2006-2007 (per modo che una interpretazione della clausola nel senso voluto dalla controparte avrebbe reso privi di causa l’intero accordo e la stessa clausola n. 7); ha menzionato, in proposto, le clausole nn. 9 e 11 e ha precisato che, ove il termine “compensazione” fosse da interpretare nel senso di compensazione “per quantità corrispondenti sino alla concorrenza salvo conguaglio”, la società cooperativa avrebbe dovuto produrre in giudizio le proprie scritture contabili, anche in vista di una eventuale consulenza tecnica. Il giudice del gravame ha poi escluso che da alcune missive prodotte in giudizio potesse desumersi che le parti avessero inteso addivenire a una vera e propria compensazione di partite, con riferimento ai rapporti di debito e credito, condividendo, in sintesi, l’assunto dei L., secondo cui tali corrispondenze contenevano la proposta di una modifica del precedente accordo, attese le reiterate inadempienze di Vitis: proposta cui l’odierna ricorrente non aveva tuttavia aderito.

Ciò detto, l’articolazione dei due motivi in esame denota, anzitutto, una carenza in punto di autosufficienza, dal momento che la società istante ha trascritto solo parzialmente le clausole contrattuali da essa menzionate, non consentendo alla Corte di apprezzare in modo completo il senso delle deduzioni svolte con le censure: va rammentato, in proposito, che ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici si impone la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, e ciò ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (Cass. 3 settembre 2010, n. 19044; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 7 marzo 2007, n. 5273; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; nel senso, sostanzialmente conforme, che ove venga fatta valere la inesatta interpretazione di una norma contrattuale, il ricorrente per cassazione à tenuto, in ossequio al principio dell’autosufficienza del ricorso, a riportare nello stesso il testo della fonte pattizia invocata, al fine di consentirne il controllo al giudice di legittimità, che non può sopperire alle lacune dell’atto di impugnazione con indagini integrative: Cass. 8 marzo 2019, n. 6735; Cass. 11 luglio 2007, n. 15489). Il difetto di specificità delle censure è evidente avendo riguardo non solo alle clausole di cui agli artt. 3, 4 e 7 (pag. 4 del ricorso), su cui è incentrata la controversia, ma sulle altre (le nn. 8, 9 e 11) comunque indirettamente implicate nel processo ermeneutico, per avervi la Corte di merito fatto richiamo nello spiegare il significato delle prime.

In secondo luogo, occorre evidenziare che le doglianze della società istante che investono l’attività interpretativa si risolvono nella enunciazione critica delle conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito: enunciazione che prescinde, però, da una puntuale rappresentazione delle ragioni poste a fondamento della doglianze basate sulla errata applicazione dei criteri posti dagli artt. 1362,1363 e 1367 c.c.. Occorre considerare, al riguardo, che ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato (sentenze sopra citate): nella fattispecie, invece, la ricorrente non è andata oltre alla generica prospettazione di quello che, a proprio avviso, sarebbe il senso che alle clausole dovrebbe essere assegnato sul piano letterale e sistematico. In tal senso, non vale – ad esempio – opporre che la nozione di “pagamento” non risulti incompatibile con una remunerazione in natura: proprio il valore semantico assegnato dalla Corte di appello al termine in questione spiega, infatti, come essa abbia preso in considerazione il senso letterale di tale parola. Nè può avere rilievo il fatto che la ricorrente dissenta dal affermazione espressa, sul punto, dal giudice distrettuale (il quale ha ritenuto che l’espressione impiegata vada riferita al corrispettivo in denaro), giacchè il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, sicchè è inammissibile ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465); infatti, non è consentito con la censura in esame muovere una critica al risultato interpretativo, raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899): e va del resto ricordato, in tema, che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass. 17 marzo 2014, n. 6125; Cass. 25 settembre 2012, n. 16254, Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).

Inammissibile è pure la censura di violazione o falsa applicazione dell’art. 2516 c.c., giacchè sul punto la ricorrente si è limitata a dedurre che, in base alla decisione impugnata, i L. verrebbero a conseguire un trattamento differenziato e più favorevole a dispetto della disciplina statutaria e alla “mutualità prevalente” evocata nella convenzione transattiva. L’applicazione della indicata norma alla fattispecie per cui è causa è in realtà esclusa dalla stessa Corte di appello, che ha rimarcato come i conferimenti per l’annata vivaistica 2007-2008, che qui vengono in esame, costituivano adempimento di obbligazione assunta con l’accordo del 7 gennaio 2008, “e non già del rapporto sociale-mutualistico contestualmente sciolto”. A fronte di tale rilievo, non risulta chiarito in quali termini sia da intendere la denunciata violazione o falsa applicazione di legge. E’ da rimarcare, in proposito, che nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010).

A un non diverso esito conduce l’esame della censura vertente sulla violazione o falsa applicazione degli artt. 1241 e 1243 c.c., formulata dalla ricorrente nel secondo motivo, per contrastare la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, in forza dell’art. 7 del concluso accordo, i rapporti di dare o avere tra le parti dovessero essere “azzerati”. Ciò di cui si duole l’istante è, qui, l’accertamento speso dal giudice di gravame sul piano interpretativo con riferimento alla richiamata disposizione contrattuale (e cioè, in definitiva, la circostanza per cui la Corte del merito avrebbe erroneamente opinato che nella fattispecie non fosse convenuta alcuna compensazione di partite debitorie e creditorie): non viene quindi in questione la prospettazione di un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge, la quale implica un problema interpretativo della stessa, quanto, piuttosto, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, la quale inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr.: Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315).

La censura basata sulle corrispondenze epistolari menzionate nella sentenza impugnata prospetta, poi, un difetto di autosufficienza, in quanto il contenuto dei detti documenti non è trascritto, nè riprodotto per estratto, nelle parti significative. Tale carenza si estende al contenuto della ammissione dei L. (cfr. pag. 22 del ricorso), di cui non è dato puntualmente conto: sicchè la deduzione appare finanche non comprensibile. Sfugge, del resto, al sindacato di legittimità – essendo riservato al giudice del merito – l’esame circa il contenuto che potesse attribuirsi alle missive in questione; è poi invocato a sproposito l’art. 2697 c.c., giacchè la violazione di tale disposizione si configura soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707): ciò che nella fattispecie non ha avuto luogo.

2. – Il terzo motivo oppone, ancora, la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.; denuncia, altresì, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2002, artt. 1, 2 e 5, nonchè dell’art. 2249 c.c.. La ricorrente contesta l’applicabilità, nella fattispecie, dell’interesse operante per le transazioni finanziarie, rilevando come il conferimento da parte di soci di una cooperativa non integri un contratto tra imprese, quanto, piuttosto, l’adempimento di un obbligo di natura mutualistica e statutaria. Rileva, inoltre, che l’attività imprenditoriale agricola non è normalmente annoverabile fra le attività commerciali previste dell’art. 2249 c.c., comma 1.

2.1. – Il motivo non è fondato.

E’ anzitutto fuorviante ogni considerazione basata sull’asserita natura agricola dell’attività dell’organismo cui siano conferiti i prodotti della coltivazione per provvedere ad operazioni di trasformazione e di vendita in vista del completamento del relativo ciclo produttivo. Quel che rileva, è, invece, la possibilità di ricondurre l’accordo concluso in data 7 gennaio 2007 alla categoria delle “transazioni commerciali” di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002.

Sono tali, a norma dell’art. 2, lett. a), D.Lgs. cit., “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”.

Nella fattispecie veniva per l’appunto in questione la consegna di prodotti vivaistici dietro pagamento di un corrispettivo in denaro. Tale consegna, secondo quanto accertato dalla Corte di merito, non poteva essere oggetto di un conferimento di soci alla società cooperativa: e ciò in quanto essa è stata operata in un momento successivo a quello in cui il recesso ha prodotto il suoi effetti. La contraria opinione della società istante, la quale reputa che il rapporto mutualistico valesse a regolamentare un vero e proprio conferimento (il quale doveva essere posto in atto entro il 31 gennaio 2008), non può trovare ingresso, in quanto riflette un accertamento di fatto, quanto al prodursi dell’effetto del recesso, che era rimesso al giudice del merito. Del resto, l’assunto della società ricorrente, per la quale in base all’art. 8 dell’accordo il rapporto mutualistico sarebbe venuto meno solo il 31 gennaio 2008 (con la conseguenza che fino a quella data i L. avrebbero dovuto ritenersi soci della cooperativa) è espresso con una censura che non spiega, come dovrebbe, in quale modo la decisione impugnata avrebbe violato i prescritti canoni interpretativi. Già trattando del primo motivo ci si è soffermati sul rilievo, formulato nella sentenza impugnata, per cui i conferimenti in questione costituivano adempimento di una obbligazione estranea al rapporto mutualistico, osservandosi, con riferimento alla doglianza ivi richiamata, come tale affermazione non fosse stata efficacemente aggredita da parte della ricorrente.

Alla stregua dell’accertamento del giudice del gravame, dunque, deve concludersi che il trasferimento di prodotti programmato resti estraneo al novero dei diritti e degli obblighi che, all’interno della società, vanno riferiti ai soci di questa: tale trasferimento coinvolgeva distinte soggettività imprenditoriali (essendo anche i coltivatori diretti imprenditori: cfr. art. 2083 c.c.) e avrebbe dovuto essere remunerato con un prezzo. Correttamente la Corte di Trieste ha ritenuto dunque applicabile la disciplina di cui al cit. D.Lgs. n. 231 del 2002.

3. – Il ricorso è respinto.

4. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

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