Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2460 del 04/02/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Civile Sent. Sez. L Num. 2460 Anno 2014
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA

sul ricorso 23129-2012 proposto da:
SAVINO

CELESTE

SVNCST38T57G482J,

titolare

dell’omonima azienda agricola, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA QUINTINO SELLA, 41, presso
lo studio dell’avvocato MARGHERITA VALENTINI,
rappresentato e difeso dall’avvocato DEL VECCHIO
2013

MASSIMILIANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3310

contro

MASSARO GIOVANNI C.F. MSSGNN38S05L0491, domiciliato
in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA

Data pubblicazione: 04/02/2014

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato NICOLETTI VALFREDO, giusta delega in
atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 195/2012 della CORTE D’APPELLO
Z-

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 20/11/2013 dal Consigliere Dott. PIETRO
VENUTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

DI LECCE SEZ. DIST. DI TARANTO R.G.N. 83/2009; 1

R.G. n. 23129/12
Ud. 20 nov. 2013

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza in data 11 aprile
– 2 luglio 2012, ha confermato la decisione di primo grado che
aveva condannato Savino Celeste al pagamento, a favore di
Massaro Giovanni, della complessiva somma di € 81.800 a titolo
di lavoro straordinario ed altro nel periodo settembre 1970 dicembre 1996, in cui il medesimo aveva svolto le mansioni di
responsabile della coltivazione dei fondi e del controllo degli
operai.
Per quanto ancora qui rileva, la Corte territoriale ha
ritenuto che la Savino fosse tenuta anche al pagamento delle
differenze retributive relative al periodo in cui il Massaro aveva
lavorato presso altra azienda appartenente a diverso soggetto,
poi ceduta alla Savino; che l’eccezione di prescrizione era
infondata, non essendo il rapporto di lavoro soggetto al regime di
stabilità reale e non decorrendo quindi la prescrizione in
costanza del rapporto; che il lavoratore aveva diritto al
pagamento del lavoro straordinario, forfetizzato in due ore
giornaliere; che erano dovute al Massaro le voci retributive
previste dalla contrattazione collettiva, avendo il datore di lavoro
implicitamente aderito a tale contrattazione; che gli spettava
altresì la c.d. indennità di “capo” in virtù della previsione di cui
al contratto provinciale, per avere il Massaro coordinato e diretto
l’attività degli operai.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso
Savino Celeste sulla base di cinque motivi. Il lavoratore ha
resistito con controricorso.482t4sbolo -S4i ,Getskfrev inc-14,A1^a- •

SVOLGIMENTO I EL PROCESSO

2

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo del ricorso è denunziata violazione e
falsa applicazione degli artt. 2732, 2733, 2697, comma 2, cod.
civ., 115, 116 cod. proc. civ. nonché vizio di motivazione su
punti decisivi della controversia.
Si deduce, con riguardo all’applicabilità del regime di

non attribuire valore confessorio ai sensi dell’art. 229 cod. proc.
civ. alle dichiarazioni contenute nell’atto introduttivo del
giudizio, laddove era stato affermato che il Massaro aveva diretto
nelle stagioni della raccolta sino a 70 unità e, normalmente,
cinque o sei unità. Ciò tanto più che il ricorso introduttivo era
stato sottoscritto anche dal lavoratore.
Tali ammissioni hanno prodotto l’effetto di dispensare la
controparte dall’onere della prova, con la conseguenza che i fatti
ammessi dovevano ritenersi pacificamente acquisiti.
La Corte di merito, ad avviso del ricorrente, ha reso altresì
una motivazione carente ed illogica, laddove ha ritenuto che le
risultanze della prova testimoniale, con riguardo al requisito
dimensionale, erano state generiche e contrastanti, risultando
viceversa sufficienti ai fini dell’applicazione al rapporto in esame
della tutela reale.
Inoltre, ha errato la Corte territoriale nel ritenere che la
questione relativa alla computabilità degli avventizi nel numero
dei dipendenti fosse tardiva, e quindi nuova, perché formulata in
sede di appello, trattandosi di una mera integrazione
dell’eccezione di prescrizione ritualmente sollevata in primo
grado.
La Corte anzidetta, ad avviso del ricorrente, era in possesso
peraltro, sulla base delle circostanze allegate nel giudizio di
primo grado, di tutti gli elementi per ricavare la media numerica
dei lavoratori occupati nell’azienda, tenuto conto altresì delle
ammissioni del ricorrente contenute nell’atto introduttivo.

stabilità al rapporto, che la sentenza impugnata ha errato nel

3

Ancora, per determinare il numero dei dipendenti, elementi
utili il giudice d’appello avrebbe potuto trarre dalla estensione
dei terreni e dal tipo di coltivazione ivi esistente.
2. Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che, per
individuare il tipo di tutela da riconoscere al lavoratore
facente capo al datore di lavoro, il computo dei dipendenti va
effettuato tenendo conto della normale occupazione dell’impresa
con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento e
non anche a quello successivo di preavviso, senza dare rilevanza
alle contingenti e occasionali contrazioni o anche espansioni del
livello occupazionale aziendale. Tale criterio, inoltre, deve essere
riferito ai lavoratori dipendenti e non semplicemente agli addetti
o agli occupati, non potendosi considerare dipendenti tutti coloro
che prestino la propria attività per l’azienda, ma solo quelli ad
essa legati da rapporto di subordinazione (Cass. 10 settembre
2003 n. 13274 e, con riferimento al criterio della normale
occupazione, Cass. 4 settembre 2003 n. 12909; Cass. 10
febbraio 2004 n. 2546).
Al riguardo le valutazioni effettuate dal giudice di merito
costituiscono un apprezzamento di fatto riservato a tale giudice e
sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente
motivate (Cass. 2 gennaio 2000 n. 609; Cass. 8 maggio 2001 n.
6421).
Nella specie, la Corte territoriale, dopo aver dichiarato
inammissibile la documentazione prodotta da Savino Celeste in
sede di gravame, perché tardiva, ha accertato, sulla scorta delle
dichiarazioni rese dai testi e del registro delle retribuzioni
relativo all’anno 1980, che i salariati fissi alle dipendenze della
odierna ricorrente erano soltanto due.
Ha aggiunto che la questione circa la computabilità dei
lavoratori avventizi nel numero dei dipendenti ai fini
dell’accertamento della stabilità del rapporto era stata posta

licenziato, conseguente ai limiti dimensionali dell’organizzazione

4

tardivamente e che, in ogni caso, era priva di fondamento, poiché
i criteri cui aveva fatto riferimento l’appellante, relativi alla
estensione dei terreni e alla loro coltivazione, non erano
sufficienti ai fini della individuazione del numero medio dei
lavoratori impiegati.
Trattasi di un iter argomentativo congruo, coerente e privo

Ne consegue che, una volta escluso dal giudice di merito
che gli operai avventizi potessero essere considerati dipendenti,
diventa irrilevante accertare se alle ammissioni contenute negli
scritti difensivi debba o meno essere attribuito valore
confessorio, avendo il ricorrente affermato nel ricorso
introduttivo che gli operai agricoli

“nella normalità della

coltivazione erano 5” e dovendosi al riguardo rilevare che, ai fini
della tutela reale, l’art. 18 St. lav., nel testo anteriore alla c.d.
riforma Fornero, richiede che il datore di lavoro occupi alle sue
dipendenze più di cinque prestatori di lavoro.
Quanto alla censura relativa alla valutazione delle prove,
deve ricordarsi che spetta in via esclusiva al giudice di merito il
compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di
assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la
concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del
processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la
veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente
prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti.
Conseguentemente il vizio di motivazione su un asserito
punto decisivo della controversia sussiste solo se nel
ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza,
sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi
della controversia, e non può invece consistere in un
apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello
preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla
Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito
della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico –

di vizi logici, che si sottrae al sindacato di legittimità.

5

formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione
fatta dal giudice del merito.
Alla stregua di tutto quanto precede deve escludersi che il
rapporto fosse soggetto al regime di stabilità reale, con la
conseguenza che la prescrizione non operava in costanza del
rapporto di lavoro.
Con il secondo motivo è denunziata erronea

interpretazione e falsa applicazione dell’art. 437 cod. proc. civ.
nonché vizio di motivazione su un punto controverso e decisivo
per il giudizio.
Si afferma che la Corte di merito non avrebbe dovuto
dichiarare inammissibile la documentazione prodotta in sede di
gravame (libri delle retribuzioni, modelli 770, visura camerale
dell’impresa agricola), trattandosi di documenti che, in quanto
capaci di determinare un positivo accertamento dei fatti di
causa, erano indispensabili ai fini della decisione.
Tale documentazione avrebbe avuto lo scopo di integrare
un quadro probatorio già parzialmente delineato e non già di
supplire ad una carenza probatoria dei fatti posti a base della
eccezione di prescrizione.
4. Anche questo motivo è infondato.
Nel rito del lavoro l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio,
nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con
quello della ricerca della verità, involge un giudizio di
opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente
discrezionale del giudice di merito, che può essere sottoposto al
sindacato di legittimità soltanto qualora la sentenza di merito
non adduca una adeguata spiegazione in ordine alla decisione
adottata (cfr. Cass. 12717/10; Cass. 4611/06; Cass. 7011/05).
Nella specie la Corte di merito ha ritenuto, con motivazione
adeguata, che si sottrae alle critiche che le vengono mosse, di
non potere superare l’intervenuta decadenza conseguente alla
tardiva produzione attraverso l’ammissione d’ufficio di

3.

6

documenti che avrebbero potuto e dovuto essere prodotti nel
giudizio di primo grado.
5. Il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione
degli artt. 2112 cod. civ., 113 cod. proc. civ. nonché vizio di
motivazione su un punto decisivo per il giudizio.
Si sostiene che all’epoca del trasferimento dell’azienda in

nel testo allora vigente, prevedeva che l’acquirente fosse
obbligato in solido con l’alienante per i crediti vantati dal
prestatore di lavoro al momento del trasferimento, sempre che
l’acquirente ne avesse avuto conoscenza all’atto del trasferimento
o i crediti risultassero dai libri dell’azienda trasferita o dal
libretto di lavoro.
Tali ipotesi, aggiunge il ricorrente, non ricorrevano nella
fattispecie in esame.
Inoltre, la Corte di merito ha ritenuto, errando, che tale
questione fosse stata proposta per la prima volta in appello, non
considerando, da un lato, che essa riguardava un profilo
attinente alla individuazione della norma giuridica applicabile
alla fattispecie e quindi rimesso al potere officioso del giudice;
dall’altro che si trattava di una questione relativa alla
legittimazione passiva del titolare del debito, rilevabile d’ufficio in
ogni stato e grado del giudizio.
6. Il motivo è inammissibile.
Come risulta dalla sentenza impugnata il ricorrente, nel
proporre appello avverso la sentenza di primo grado, ha
sostenuto di non essere tenuto al pagamento degli eventuali
debiti facenti capo al precedente titolare dell’azienda agricola in
quanto la cessione dell’azienda non era stata provata in giudizio.
Inoltre, secondo l’appellante, la responsabilità del cessionario era
limitata ai soli debiti risultanti dai libri contabili obbligatori, ai
sensi dell’art. 2112 cod. civ., nella formulazione all’epoca vigente.
La Corte territoriale ha respinto la prima censura,
ritenendo provata la cessione dell’azienda sulla scorta delle

cui il Massaro già lavorava (dicembre 1979), l’art. 2112 cod. civ.,

7

risultanze probatorie acquisite. Quanto all’altra censura ha
rilevato che essa era inammissibile, essendo stata proposta per
la prima volta in appello, e, peraltro, si poneva in contraddizione
con la prima. Inoltre, sotto il profilo della violazione dell’art.
2560, comma 2, cod. civ., dedotto dall’appellante, il motivo di
gravame era infondato, posto che tale disposizione era relativa

invece dall’art. 2135 c.c. “.
La ricorrente ripropone in questa sede la questione
dell’applicabilità dell’art. 2112 cod. civ., deducendone
l’ammissibilità.
Ma, trattandosi di questione non esaminata dalla Corte di
merito perché tardiva, essa, pur concernendo l’applicazione di
norme giuridiche, è inammissibile anche in questa sede, in
quanto implicante accertamenti di fatto riservati al giudice di
merito (cfr., in questi termini, Cass. 20518/08; Cass. 25546/06;
Cass. 3664/06).
7. Con il quarto motivo è denunziata violazione e falsa
applicazione degli artt. 2727, 2729 cod. civ. e 115, comma 1,
cod. proc. civ.
La sentenza impugnata è censurata per avere ritenuto che
il datore di lavoro abbia implicitamente prestato adesione alla
contrattazione collettiva nel corrispondere le retribuzioni al
Massaro, contenendo le buste paga espresso riferimento alle voci
previste da tale contrattazione.
Ma se tale argomento, secondo la ricorrente, può valere per
il periodo di lavoro svolto dal Massaro alle dipendenze di essa
ricorrente, in ragione delle buste paga acquisite agli atti, non
altrettanto può dirsi per il periodo anteriore, in ordine al quale,
non risultando alcuna busta paga, non avrebbe potuto la Corte
di merito ritenere che il precedente datore di lavoro avesse
aderito implicitamente al contratto collettivo.
8. Il motivo è inammissibile.

“alle aziende commerciali e non a quelle agricole, disciplinate

8

La Corte territoriale ha accertato che, a seguito della
cessione dell’azienda, il rapporto di lavoro non subì alcuna
interruzione e che il lavoratore continuò a svolgere le stesse
mansioni e ad abitare, per tutta la durata del rapporto dedotta in
giudizio, nella stessa casa messagli a disposizione dal precedente
datore di lavoro ed ubicata all’interno della tenuta agricola.

contrattazione collettiva, tuttavia, come risultava dalle “buste
paga”, aveva corrisposto al Massaro voci retributive previste da
tale contrattazione, con ciò manifestando l’adesione implicita a
questa.
Il ricorrente ha censurato tale affermazione, sostenendo che
le buste paga prodotte riguardavano solo il periodo successivo
alla cessione dell’azienda e non anche quello precedente, onde
non poteva operare per tale periodo la presunzione di adesione
implicita.
Senonchè, non risulta che tale questione sia stata proposta
al giudice del gravame né il ricorrente ne precisa i termini.
Il Massaro deduce di avere eccepito la questione in primo
grado e di averla reiterata in appello; riporta la motivazione del
giudice di primo grado che, in effetti, ha fatto riferimento alle
buste paga emesse nel 1983 e nel 1985; afferma che nelle buste
paga relative al periodo anteriore al 1980 non vi erano riferimenti
alle voci retributive previste dalla contrattazione collettiva, ma, in
violazione del principio di autosufficienza, non indica, in
relazione a tutto ciò, i motivi di gravame sottoposti al giudice
d’appello in relazione al periodo antecedente alla cessione
dell’azienda né, tanto meno, ne riporta il contenuto, limitandosi
ad affermare di avere riproposto in appello la questione ora
dedotta. Da qui l’inammissibilità della censura in esame.
9. Il quinto motivo denunzia violazione e falsa applicazione
degli artt. 1 R.D.L. n. 692 del 1923 e 3 R.D. n. 1955 del 1923
nonché vizio di motivazione su un punto decisivo per il giudizio.

Ha poi affermato che, pur non avendo la Savino aderito alla

9

Si afferma che la cosiddetta indennità di “capo” di cui alla
contrattazione integrativa provinciale corrisposta al Massaro è
incompatibile con lo svolgimento di lavoro straordinario.
Il predetto lavoratore, sovrintendendo al lavoro degli operai
che, nelle stagioni della raccolta arrivavano sino a 70 unità,
poteva ragionevolmente essere considerato un impiegato agricolo

dell’orario di lavoro.
Ad avviso del ricorrente, a tale categoria di lavoratori,
prevista dal CCNL “degli impiegati agricoli”, spetta il compenso
per il lavoro straordinario solo se la prestazione lavorativa si
protragga oltre il limite di ragionevolezza del normale orario, a
causa della maggiore gravosità e della natura usurante
dell’attività lavorativa.
10. Anche questo motivo è inammissibile.
La Corte di merito, in risposta alla censura dell’appellante
secondo cui la c.d. indennità di “capo” non era prevista né dal
contratto collettivo né da altre disposizioni, ha affermato che
essa era stata chiesta ed attribuita in virtù della previsione di cui
al contratto provinciale del 30 luglio 1984 ed era costituita da
una maggiorazione del 5% sul salario contrattuale dei lavoratori
specializzati e non, responsabili del lavoro di altri operai.
Il ricorrente, trascurando del tutto tale motivazione, ha
osservato che l’indennità in questione è incompatibile con il
compenso per il lavoro straordinario; che le mansioni svolte dal
ricorrente erano riconducibili, in base alle previsioni del CCNL
degli impiegati agricoli – non meglio indicato e non prodotto alle mansioni di un impiegato agricolo di concetto di prima
categoria; che tale figura era esclusa dalle limitazioni dell’orario
di lavoro.
Ma, così facendo, ha omesso di esporre i motivi specifici,
completi e riferibili alla statuizione impugnata nonché di
precisare in quali violazioni è incorsa la sentenza impugnata nel
ritenere che l’indennità di “capo” era dovuta al ricorrente, in

di concetto con mansioni direttive, escluso dalle limitazioni

10

quanto specificamente prevista dal contratto provinciale sopra
richiamato a favore dei lavoratori responsabili del lavoro degli
altri operai.
11. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con la
conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di
questo giudizio, come in dispositivo.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio, che liquida, a favore del
resistente, in 100,00 per esborsi ed 3.500,00 per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma in data 20 novembre 2013.

P. Q . M .

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA