Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24578 del 05/10/2018

Cassazione civile sez. II, 05/10/2018, (ud. 08/05/2018, dep. 05/10/2018), n.24578

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3836/2014 R.G. proposto da:

D.M.I., rappresentata e difesa dall’avv. Luca Pardini, con

domicilio eletto in Roma, Via Cicerone n. 44, presso lo studio

dell’avv. Francesco Carluccio;

– ricorrente –

contro

B.R., e Z.M., rappresentati e difesi dall’avv.

Martia Concetta Lanzillotti, con domicilio eletto in Roma, Via

Archimede n. 112, presso lo studio Pietro Magno;

– controricorrenti-

nonchè

L.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 801/2012,

depositata in data 22.11.2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 8 5.2018 dal

Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.M.I. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Brindisi, in data 25.1.1995, L.G., quale appaltatore, e Z.M. e B.R. quali progettista e direttore dei lavori, chiedendone la condanna al risarcimento del danno provocato dall’esecuzione di lavori presso un complesso immobiliare composto da 44 unità a schiera.

Z.M. e B.R. hanno eccepito di aver eseguito i soli calcoli delle strutture e di aver operato in esecuzione di un progetto redatto dall’architetto M.G..

Il L. ha sostenuto che lavori erano conformi al progetto e che i danni erano derivati dalle opere eseguite direttamente dalla committente.

Sono intervenute volontariamente in giudizio la Gaci di C.C. s.a.s, la Service s.a.s di C.V., la Marna di C.M. s.a.s. e la Gestur di C.G. s.a.a, quali acquirenti di talune porzioni del complesso immobiliare, chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento del danno per l’imperfetta esecuzione delle opere.

Con autonoma citazione del 17.2.1995, la D.M. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal B. e dallo Z., per il pagamento di Euro 44.463.000 oltre accessori, a titolo di corrispettivo dell’incarico professionale relativo alla progettazione e alla direzione dei lavori.

Le due cause sono state riunite e, all’esito, con sentenza del 4 marzo 2008, il Tribunale ha accolto la domanda risarcitoria e ha condannato gli attuali resistenti al pagamento di Euro 83.086,55, oltre accessori e spese processuali.

La pronuncia è stata integralmente riformata in appello.

La Corte distrettuale ha rilevato che le parti avevano stipulato in data 17.11.1993, contestualmente alla consegna dei lavori, un atto di transazione con la quale la committente aveva rinunciato a qualsiasi pretesa per i danni da ritardata consegna delle opere o i difetti delle costruzioni, ottenendo una cospicua riduzione del corrispettivo dell’appalto. Ha ritenuto che, sebbene la transazione avesse lasciato sussistere a carico dell’appaltatore la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c., la committente poteva avvalersene solo con riferimento ai difetti manifestatisi successivamente al perfezionamento della transazione.

Ha quindi respinto la domanda risarcitoria.

Per la cassazione di questa sentenza Isabella D.M. ha proposto ricorso in tre motivi, illustrati con memoria. B.R. e Z.M. hanno depositato controricorso, mentre L.G. non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo censura la violazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza ritenuto che la norma è applicabile solo in caso di rovina dell’edificio e non anche in presenza di difetti che ne compromettano il pieno godimento. Si assume, inoltre, che la rinuncia contenuta nell’atto di transazione non poteva riferirsi alla garanzia per rovina dell’edificio ma solo ai vizi contemplati dall’art. 1667 c.c..

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha ritenuto, con accertamento in fatto, che la rinuncia alla garanzia, contenuta nell’atto di transazione del 17.11.1993, ricomprendeva tutti i difetti già sussistenti al momento del contratto, inclusi quelli oggetto della domanda proposta dalla committente, ed ha perciò escluso che la D.M. potesse ottenere il risarcimento del danno.

Tale convincimento non è censurabile per violazione di legge, poichè la Corte distrettuale non ha affatto asserito che l’art. 1669 c.c. riguarderebbe la sola rovina dell’edificio o i difetti di tale gravità da compromettere l’integrità dell’immobile, con esclusione di quelli relativi ad elementi principali o accessori dell’opera idonei a pregiudicarne la funzionalità e la normale utilizzazione (Cass. 2017/7756; Cass. 2017/27315; Cass. 2013/84), ma, interpretando il contenuto del contratto, ha ritenuto che la committente avesse rinunciato a far valere la garanzia per i difetti sussistenti al momento del perfezionamento della transazione, oggetto della domanda giudiziale.

Giova considerare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 si riferisce al tipico “error in iudicando” e, nel menzionare la violazione o falsa applicazione di legge, sintetizzai due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, cioè quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso esaminato e – il secondo – l’applicazione della norma alla fattispecie concreta, una volta correttamente individuata ed interpretata. In relazione al primo momento, la violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata. La falsa applicazione consiste invece o nell’assumere la fattispecie concreta sotto una norma non applicabile o nel trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 13.12.2012, n. 22912; Cass. 26.9.2005, n. 18782; Cass. 11.8.2004, n. 15499; Cass. 7.8.2003, n. 11936).

Per contro, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e invade la tipica valutazione del giudice di merito.

2. Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 1362,1363 e 1365 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza omesso di considerare che la rinuncia contenuta nell’atto di transazione integrava una mera clausola di stile, priva di reale contenuto dispositivo ed inidonea a ricomprendere anche i difetti riconducibili alla previsione dell’art. 1669 c.c..

Il motivo è infondato.

La Corte distrettuale ha rilevato che la transazione era intervenuta a comporre il conflitto insorto tra le parti – prima della proposizione del giudizio – con riferimento alle pretese economiche dell’impresa appaltatrice e al danno lamentato dalla committente a causa del ritardo con cui erano stati completati i lavori alle ultime otto palazzine e per i difetti relativi alle costruzioni già ultimate e consegnate in data 17.11.1993. Tali questioni sono state poi oggetto dell’accertamento tecnico preventivo espletato su ricorso dell’appaltatore depositato in data 25.7.1998, dopo pochi mesi dal perfezionamento della transazione del 17.11.1993 e dalla instaurazione del giudizio.

In tale contesto il riferimento – contenuto nell’atto transattivo – ai vizi delle opere e alla relativa garanzia spettante alla committente (cui quest’ultima aveva rinunciato), non poteva costituire una mera clausola di stile priva di effettivo contenuto dispositivo, poichè le parti contraenti avevano chiaramente mostrato di voler definire anche tale aspetto, anche nel punto in cui avevano fatto salva l’azione accordata dall’art. 1669 c.c..

Le clausole di stile sono costituite soltanto da quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelino la funzione di semplice completamento formale, mentre non può considerarsi tale la clausola che abbia un concreto contenuto volitivo ben determinato, riferibile al negozio posto in essere dalle parti e alla volontà ivi espressa (Cass. 29.9.2011, n. 19876; Cass. 28.7.1983, n. 5203; Cass. 3.12.1970, n. 2540).

3. Con il terzo motivo si censura la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per aver la Corte distrettuale ritenuto che la committente avesse rinunciato alla garanzia con riferimento ai vizi già manifestatisi al momento della transazione, benchè nessun prova fosse stata fornita in merito dall’appaltatore. Si lamenta inoltre che il giudice di primo grado avrebbe immotivatamente sottostimato il danno agli immobili, in contrasto con gli esiti della c.t.u., che aveva quantificato il pregiudizio derivante dai difetti delle opere in Euro 204.018.000.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

L’art. 2697 c.c. può considerarsi violato solo qualora il giudice abbia erroneamente posto l’onere della prova dei fatti di causa a carico di una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata mentre, nel caso in esame, la circostanza che la committente avesse rinunciato alla garanzia con riferimento ai vizi oggetto della domanda risarcitoria è stata desunta dal contenuto dell’atto di transazione e dalla “successione cronologica delle vicende dedotte in giudizio” e quindi sulla base delle risultanze processuali che il giudice di merito, cui compete il potere di valutare le prove, ha ritenuto sufficienti a giustificare la soluzione adottata.

La sentenza non è incorsa nella violazione degli artt. 115 e 166 c.p.c., poichè dette norme sono invocabili solo allorchè si alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza vaglio critico, elementi soggetti invece a valutazione.

Nessuna censura – da tale prospettiva – può muoversi per il fatto che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti, attribuendo maggior forza di convincimento a quelle ritenute idonee a sostenere la decisione (Cass. 27.12.2016, n. 27000; Cass. Cass. n. 26965 del 2007; Cass. n. 20119 del 2009; Cass. n. 13960 del 2014).

3.1. In merito alla quantificazione del danno la censura è inammissibile poichè essa attinge direttamente la pronuncia di primo grado, che è stata integralmente sostituita da quella di secondo grado, e che, quindi, non è direttamente ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Sussistono le condizioni per dichiarare che la ricorrente è tenuta a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17; che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed E 3500,00 per compenso, oltre ad iva, cnap e rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%.

Si dà atto che la ricorrente è tenuta a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

Così deciso in Roma, il 8 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2018

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