Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24574 del 18/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 18/10/2017, (ud. 23/05/2017, dep.18/10/2017),  n. 24574

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1744-2012 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 74,

presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che lo

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10050/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/01/2011 R.G.N. 6282/2007.

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

ESAMINATI gli atti e sentito il consigliere relatore dr. De Gregorio Federico;

RILEVATO che POSTE ITALIANE S.p.a. con ricorso del 4/5 gennaio 2012 ha impugnato la sentenza n. 10050 in data 03-12-2010/12-01-2011, con la quale la Corte d’Appello di ROMA, rigettava l’impugnazione in via principale proposta dalla società, convenuta in primo grado, e quella incidentale dell’attore S.V., la cui domanda era stata accolta in ordine alla dedotta nullità del termine finale apposto al contratto di assunzione a tempo determinato con decorrenza primo ottobre 2001 sino al trentuno gennaio 2002, con conseguente condanna di parte datoriale al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni contrattualmente dovute dalla notifica del ricorso introduttivo del giudizio (non già dalla precedente messa in mora, di cui non era stata fornita idonea prova documentale, mediante produzione della richiesta del tentativo di conciliazione debitamente comunicata alla parte datoriale), oltre accessori di legge, spese di secondo grado per intero compensate;

che il suddetto contratto risulta stipulato per esigenze di carattere straordinario, nei sensi ivi indicati, C.C.N.L. 11 gennaio 2001, ex art. 25, per cui tuttavia, secondo i giudici di merito, non risultava provato il rispetto della percentuale di contingentamento (punto 3 dello stesso art. 25);

che il ricorso per cassazione di POSTE ITALIANE è affidato a cinque motivi, variamente articolati (con richiesta, ad ogni modo, di applicare lo jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in vigore dal 24-11-2010);

che, in sintesi, le censure mosse dalla società attengono al mancato accoglimento della reiterata eccezione di scioglimento del contratto per mutuo consenso, a pretesa errata valutazione della prova documentale fornita in relazione a quella richiesta circa la c.d. clausola di contingentamento, il cui mancato rispetto era stato peraltro genericamente dedotto da parte attrice, alla quantificazione del danno lamentato, per cui occorreva ad ogni modo considerare l’aliunde perceptum, nonchè ad ogni modo era applicabile l’indennizzo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32;

VISTO il controricorso in data 14-02-2012 nell’interesse del S. per resistere all’impugnazione avversaria, in seguito illustrato da memoria depositata in vista della fissata udienza, contestando tra l’altro l’ammissibilità del motivo concernente la pretesa violazione del citato art. 32, assumendone la irrituale formulazione;

che risultano dati rituali avvisi alle parti dell’adunanza fissata al 23 maggio 2017 ex art. 380 – bis c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il ricorso, a parte talune carenze espositive e di documentazione, rilevanti ex artt. 366 e 369 c.p.c., appare in buona parte infondato, poichè la Corte di merito ha correttamente applicato nella specie i principi di diritto affermati in materia da questa Corte con numerose pronunce emesse in casi analoghi;

che infatti non merita pregio la reiterata questione dell’asserita risoluzione del rapporto per effetto del preteso mutuo consenso, laddove il mero decorso del tempo, in assenza di circostanze significative di una chiara, univoca, certa e comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro costituisce un fatto pressochè irrilevante (Cass. 28 gennaio 2014, n. 1780; Cass. 1 luglio 2015, n. 13535; Cass. 22 dicembre 2015, n. 25844), trattandosi comunque di valutazione del significato e della portata del complesso di elementi di fatto di competenza del giudice di merito (Cass. 13 febbraio 2015, n. 2906), le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (Cass. 4 agosto 2011, n. 16932, con affermazione di principio ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1), da escludere nel caso di specie (per le ragioni già sufficientemente enunciate nella motivazione della pronuncia qui impugnata);

che in tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi necessariamente sulla base dell’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3, dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (Cass. lav. n. 4764 del 10/03/2015, in senso conforme n. 14284 del 2011.

Id. n. 8294 del 10/04/2006: la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha attribuito alla contrattazione collettiva l’identificazione delle ipotesi nelle quali è ammissibile l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, inserendosi nel sistema delineato dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, con la conseguenza che ai contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 23 suddetto, nella vigenza della L. n. 230 del 1962, sono applicabili non solo le disposizioni di cui all’art. 2 di questa legge, ma anche quelle di cui all’art. 3, in materia d’onere della prova a carico del datore di lavoro sulle condizioni che giustificano l’assunzione a termine. In particolare, una volta impugnata, da parte del lavoratore, la legittimità del contratto a termine per violazione della L. n. 230 del 1962, grava sul datore di lavoro, ai sensi dell’art. 3 della stessa legge, l’onere della prova relativa all’esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Conforme n. 4862 del 2005.

V. altresì Cass. lav. n. 14877 del 28/06/2006, secondo cui la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, non modifica l’onere della prova delle condizioni che giustificano sia l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l’eventuale temporanea proroga al termine stesso, onere che la L. n. 230 del 1962, art. 2, pone a carico del datore di lavoro, con la conseguenza che dal mancato assolvimento di tale onere probatorio deriva la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto. Conforme n. 381 del 2004.

Id. n. 6108 del 17/03/2014: ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, applicabile “ratione temporis”, l’unica condizione per il legittimo esercizio della cosiddetta delega in bianco conferita dal legislatore alla contrattazione collettiva è quella della specifica indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, sicchè l’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro stipulato con riferimento ad una fattispecie per la quale il contratto collettivo non contiene la espressa indicazione di tale percentuale è illegittima, non corrispondendo ad un tipo legale di contratto a termine.

Cfr. ancora Cass. lav. n. 4028 – 01/03/2016, secondo cui in tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine, l’art. 25 del c.c.n.l. dell’11 gennaio 2011 dei dipendenti postali prescrive che la verifica circa il superamento della soglia del 5 per cento del numero dei lavoratori in servizio sia svolta con riferimento alle assunzioni effettuate sino al 31 dicembre dell’anno solare precedente nella stessa regione, sicchè è illegittimo il computo fondato sul diverso criterio limitato alle assunzioni attive nel mese in cui è stato stipulato il contratto impugnato);

che nello specifico in punto di fatto la Corte di merito ha, insindacabilmente, rilevato: “la società datrice di lavoro -come espressamente eccepito dal lavoratore anche in questo grado – non ha assolto il predetto onere probatorio, non avendo al riguardo prodotto documentazione idonea ovvero articolato una prova testimoniale rilevante ed ammissibile, atteso che sia i documenti prodotti che i capitoli di prova articolati nel giudizio di primo grado non contengono alcun riferimento alla situazione occupazionale dell’anno precedente… nella fattispecie anno 2000 nella regione in cui è stata assunta parte appellante (rectius appellata – appellante incidentale) la mancanza di obiezioni da parte delle 00.55, neppure può rappresentare una prova presuntiva, visto che le comunicazioni trasmesse dalla società Poste Italiane erano del tutto inidonee a fotografare il quadro occupazionale nei termini imposti dall’art. 25 del c.c.n.l…..”;

che, per contro, va accolto il quinto e ultimo motivo, limitatamente all’invocata applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32,erroneamente esclusa dalla Corte distrettuale, atteso che l’impugnata pronuncia, resa il tre dicembre 2010, ancorchè pubblicata successivamente, poi non passata in giudicato a causa dell’intervenuta tempestiva e rituale impugnazione, restava soggetta comunque alle previsioni introdotte dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, entrata in vigore ancor prima della stessa pronuncia, il 24 novembre (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 26840 del 29/11/2013, secondo cui la disciplina di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, che riconosce al lavoratore un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, è immediatamente applicabile, anche ai giudizi pendenti in cassazione. Parimenti, v. Cass. lav. n. 6735 del 21/03/2014: la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, come interpretato autenticamente dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, è applicabile ai giudizi in corso in materia di contratti a termine dovendosi escludere che la disciplina dell’indennità risultante dal combinato disposto delle due norme incida su diritti già acquisiti dal lavoratore poichè è destinata ad operare su situazioni processuali ancora oggetto di giudizio, non comporta un intervento selettivo in favore dello Stato e concerne tutti i rapporti di lavoro subordinati a termine. Nè può ritenersi che l’adozione della norma interpretativa costituisca una indebita interferenza sull’amministrazione della giustizia o sia irragionevole ovvero, in ogni caso, realizzi una violazione dell’art. 6 CEDU, poichè il legislatore ha recepito, nel proposito di superare un contrasto di giurisprudenza e di assicurare la certezza del diritto a fronte di obbiettive ambiguità dell’originaria formulazione della norma interpretata, una soluzione già fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, senza che – in linea con l’interpretazione dell’art. 6 CEDU operata dalla Corte EDU – sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia – l’intervento retroattivo abbia inciso su diritti di natura retributiva e previdenziale definitivamente acquisiti dalle parti. Analogamente, cfr. id. n. 7372 del 28/03/2014, secondo cui la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, come chiarito dalla Corte di giustizia UE con sentenza 12 dicembre 2013 in C-361/12, non contrasta con la normativa sovranazionale, in quanto l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non impone di trattare in maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto a tempo indeterminato.

Cass. lav. n. 151 del 09/01/2015: la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, non contrasta con la clausola 8.3 – c.d. di “non regresso” – dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, attuato con la direttiva 28 giugno 1999/70/CE, in quanto l’introduzione di un’indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo, parametrata tra un minimo ed un massimo, non è automaticamente ovvero necessariamente meno favorevole del sistema previgente, in cui la liquidazione del risarcimento andava effettuata dal giudice caso per caso e con decurtazione dell’aliunde perceptum” e “percipiendum”.

Peraltro, secondo Cass. sez. un. civ. n. 21691 del 27/10/2016, la censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che non richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico. Inoltre le S.U. con la citata sentenza n. 21691/16 hanno precisato che il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta retroattiva, pur incontra il limite del giudicato, tuttavia, ove “proposto appello, sebbene limitatamente al c.p. della sentenza concernente l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, non è configurabile in ordine al c.p. concernente le conseguenze risarcitorie, legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al combinato disposto degli art. 329 c.p.c., comma 2, e art. 336 c.p.c., comma 1, l’impuonazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente”. V. altresì Cass. lav. n. 1552 del 20/01/2017, secondo cui la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, è applicabile anche nel caso di un’impugnazione relativa all’illegittimità del termine proposta prima della sua entrata in vigore, poichè lo “jus superveniens” rende proponibile una domanda nuova in secondo grado quando la regolamentazione sopravvenuta investa una situazione di fatto dedotta già in primo grado, dovendosi escludere che in un giudizio in corso la disciplina dell’indennità in questione incida su diritti acquisiti del lavoratore);

che, pertanto, l’applicazione dei succitati principi al caso qui in esame comporta l’accoglimento della doglianza riguardante la violazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5 e 7, (comma quinto peraltro oggetto d’interpretazione autentica dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 con l’art. 1, comma 13, nel senso che la disposizione di cui al comma 5 va intesa nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro), e quindi la cassazione della sentenza de qua sul punto con rinvio al giudice di merito.

PQM

 

La Corte RIGETTA i primi quattro motivi del ricorso. ACCOGLIE il QUINTO, limitatamente alla richiesta applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32. Cassa, per l’effetto, la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di Appello di ROMA, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2017

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