Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24573 del 22/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/11/2011, (ud. 28/09/2011, dep. 22/11/2011), n.24573

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19289-2009 proposto da:

CANDELA GRANITI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA QUINTINO SELLA 41,

presso lo studio dell’avvocato MARGHERITA VALENTINI, rappresentata e

difesa dagli avvocati SPANEDDA GIANNI, PEPE FERNANDO, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

M.E.B.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 273/2009 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI –

SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 18/05/2009 R.G.N.

280/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro che ha concluso per rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 6/5/ – 18/5/09 la Corte d’Appello di Cagliari rigettò l’impugnazione proposta dalla Candela Graniti s.r.l avverso la sentenza n. 200/08 del giudice del lavoro del Tribunale di Tempio Pausania, con la quale era stata condannata a reintegrare nel posto di lavoro il dipendente M.E. per illegittimità del licenziamento intimatogli il 23/3/04 e a risarcirgli i danni in applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 ponendo a carico dell’appellante le spese del grado.

La Corte cagliaritana addivenne a tale decisione dopo aver condiviso quanto appurato dal primo giudice in ordine al fatto che la parte datoriale non aveva assolto, a causa della tardiva costituzione in giudizio, gli oneri su di essa incombenti, quali quelli relativi alla dimostrazione della legittimità del licenziamento, alla impossibilità di assegnare il dipendente a mansioni diverse, alla sussistenza del requisito dimensionale inferiore a quello previsto per la tutela reale ed alla eccezione dell'”aliunde perceptum.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società “Candela Graniti s.r.l che affida l’impugnazione a nove motivi di censura.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101, 132, 429, 287 e 288 c.p.c., artt. 3 e 24 Cost. sostenendo che invano aveva eccepito che il giudice di primo grado aveva predisposto il dispositivo e la motivazione della sentenza prima ancora dell’udienza di discussione del 6/11/2008, recando entrambi gli atti la data del giorno precedente, posto che la Corte d’appello aveva respinto tale eccezione di nullità, affermando che il verbale d’udienza faceva fede fino a querela di falso e che, in ogni caso, la data della decisione non poteva essere che quella della pubblicazione del dispositivo, ovvero il 6 novembre 2008. In sintesi, il ricorrente lamenta che quello che la Corte territoriale aveva ritenuto di poter giudicare come un errore materiale era, in realtà, un fatto che aveva impedito ai procuratori delle parti di svolgere adeguatamente il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio e nullità della sentenza.

Il motivo è infondato: invero, è corretta la decisione della Corte territoriale di dar rilievo determinante, ai fini dell’esatta individuazione della data di decisione del giudizio, al verbale di udienza, trattandosi di un atto pubblico che fa fede fino a querela di falso, dal quale emerge lo svolgimento delle operazioni di discussione della causa e di lettura del dispositivo, per cui nessuna violazione al diritto di difesa poteva derivarne all’odierna ricorrente.

D’altronde, si è già avuto modo di affermare (Cass. sez. 3, n. 4012 del 21/3/2001) che “nelle controversie locative (alle quali sono applicabili le disposizioni previste per le controversie di lavoro in virtù del richiamo di cui all’art. 447 bis cod. prov. civ.), il dispositivo della sentenza non costituisce un atto interno, bensì un atto a rilevanza esterna, che assume autonomo rilievo e viene ad esistenza mediante la lettura in udienza; non può perciò ritenersi che si sia avuta formazione del dispositivo prima del termine dell’udienza quando il giudice, esaurita la discussione, abbia dato lettura del dispositivo avvalendosi di uno scritto preparato in precedenza per sua annotazione ed in funzione eventualmente strumentale alla formazione dell’atto decisionale, atteso che solo la lettura costituisce il momento genetico del dispositivo, in cui esso assume rilevanza esterna e viene acquisito al processo, senza che, peraltro, possa ravvisarsi nullità della decisione per il fatto che, dopo la discussione, la lettura del dispositivo sia intervenuta immediatamente, senza soluzione di continuità, atteso che, per un verso, per il giudice monocratico la camera di consiglio equivale ad un momento di autonoma riflessione che non comporta le formalità di cui all’art. 276 cod. proc. civ., e che, per altro verso, non è previsto a pena di nullità alcun intervallo temporale tra la conclusione dell’udienza di discussione e la lettura del dispositivo.” Tra l’altro, si è anche statuito (Cass. sez. lav., n. 11228 del 23/10/1991) che “nelle controversie in materia di lavoro la data di deliberazione costituisce requisito essenziale della sentenza emessa ai sensi dell’art. 429 cod. proc. civ.; tale data si identifica peraltro (a meno che non venga contestata la coincidenza) con quella dell’udienza di discussione chiusa con la lettura del dispositivo, e può pertanto essere desunta dalle relative indicazioni contenute nel testo della sentenza, indipendentemente dall’apposizione della data di deliberazione alla fine del documento e prima della sottoscrizione del giudice.” 2. La violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27 rappresentano i vizi denunziati col secondo motivo di censura, attraverso il quale la difesa della Candela Graniti s.r.l sostiene l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’escludere la estensione del contraddittorio alle altre società facenti parte del gruppo ritenuto come centro unico di imputazione delle prestazioni lavorative rese dal M., prestazioni delle quali era stata considerata beneficiaria solo essa ricorrente, avendo i giudici d’appello ravvisato la natura fraudolenta della frammentazione dell’attività tra le varie società. Il motivo è infondato, posto che la Corte di merito ha correttamente esposto, con motivazione congrua ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, che nella fattispecie non ricorreva, contrariamente alla tesi della società appellante, una ipotesi di interposizione fittizia che potesse dar luogo, a ragione o a torto, ad una questione di litisconsorzio necessario, atteso che la domanda era stata rivolta solo nei confronti della società appellante e che, anche a voler ritenere sussistente un centro di interessi comune sia all’appellante che ad altre società, un tale collegamento era stato dedotto al solo fine di dimostrare la sussistenza del dato numerico indispensabile per il raggiungimento del requisito occupazionale necessario per l’applicabilità dell’invocata tutela reale, requisito fatto poi oggetto di prova testimoniale dalla quale ne era emerso il relativo riscontro.

3. Col terzo motivo ci si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c. da parte della Corte di merito che aveva escluso, in presenza di preclusioni o decadenze verificatesi nei confronti dell’appellante, la possibilità, in omaggio ai principio della ricerca della verità, di provvedere d’ufficio agli atti istruttori suggeriti dalla presenza del materiale probatorio raccolto.

Anche tale motivo è infondato, atteso che in maniera congrua ed esente da vizi di natura logico-giuridica la Corte d’appello ha confermato l’esattezza del responso del primo giudice in ordine alla rilevata inammissibilità delle prove richieste dalla società a causa della loro tardiva proposizione, evidenziando, nel contempo, l’impraticabilità del ricorso al meccanismo processuale di cui all’art. 421 c.p.c. come forma di rimedio ad una decadenza processuale ormai verificatasi ed accertata, stante anche la mancanza di significativi dati di indagine utili per una riapertura dell’istruttoria.

Come si è già affermato (Cass. sez. lav. n. 5878 dell’11/3/2011) “nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze:

l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorchè la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato.” 4. Col quarto motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414, 416 e 420 c.p.c. e 2697 c.c. sostenendosi che il giudice d’appello sarebbe incorso in errore nel sollevare il lavoratore dall’onere di indicazione delle specifiche omissioni ed irregolarità addebitate alla parte datoriale, così come poste a fondamento della domanda di impugnativa del licenziamento, dopo aver ritenuto che al medesimo non spettava allegare i fatti comprovanti la lamentata illegittimità dello stesso atto di recesso.

Il motivo è infondato, atteso che è corretta la motivazione della Corte di merito in ordine alla decisione adottata sul riparto degli oneri probatori, posto che la fattispecie è contraddistinta dall’impugnativa di un licenziamento disposto, secondo la stessa tesi datoriale, per un motivo oggettivo dovuto alla insorta necessità di riduzione dei personale.

Nella sentenza è, infatti, puntualizzato che gli oneri concernenti la prova della necessità della soppressione dei posto o di una diversa organizzazione lavorativa e l’impossibilità di adibire il lavoratore da licenziare ad altre attività non potevano che ricadere sulla parte datoriale che pretendeva di fondare su tali circostanze la legittimità del licenziamento impugnato dai dipendente; del resto, è anche precisato che tali oneri non erano stati assolti a causa della decadenza in cui la società era incorsa per effetto della sua tardiva costituzione in giudizio. Trattandosi, quindi, di una ipotesi in cui il licenziamento era stato intimato per il motivo della riduzione del personale per la forte crisi economica che aveva investito l’azienda ed il mercato nazionale, la relativa prova non poteva che ricadere, come esattamente ritenuto dalla Corte di merito, sulla parte datoriale che intendeva avvalersene a sostegno dell’affermata legittimità dell’atto di recesso; egualmente, spettava a quest’ultima la prova della impossibilità di utilizzazione del lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 10554 del 3/7/2003 e n. 14815 del 14/7/2005) 5. Col quinto motivo è posta in evidenza la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e artt. 414 e 112 c.p.c., in quanto si sostiene che abbia errato la Corte di merito nel ritenere l’irrilevanza della “causa petendi” dedotta in giudizio dal lavoratore, vale a dire la denunziata illiceità del licenziamento per motivi discriminatori, finendo, in tal modo, per accogliere la domanda di quest’ultimo, seppur sulla scorta della affermata illegittimità del licenziamento per motivi diversi da quelli eccepiti dal medesimo ricorrente.

Anche tale motivo è infondato, non potendosi disconoscere la congruità e l’immunità dai vizi di natura logico-giuridica della motivazione adoperata al riguardo dalla Corte territoriale, la quale, nel dare rilievo prioritario alla realtà documentale rappresentata dalla lettera di risoluzione del rapporto, ha ritenuto dirimente l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per i motivi in base ai quali lo stesso era stato effettivamente intimato dalla datrice di lavoro, vale a dire quelli di carattere oggettivo della riduzione del personale, per cui finiva per essere ininfluente la circostanza per la quale il lavoratore non aveva dimostrato che l’atto di recesso gli era stato intimato per motivi soggettivi di natura discriminatoria.

6. Oggetto del sesto motivo di censura è la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 416 e 421 c.p.c.. In particolare la ricorrente rileva che, nonostante la tardività della sua costituzione, il lavoratore aveva chiesto di provare il requisito dimensionale per l’applicazione della tutela reale, per cui aveva errato la Corte territoriale a non rilevare una tale situazione processuale per effetto della quale l’onere probatorio in questione finiva per riversarsi sulla controparte offertasi di assolverlo.

Si osserva che il motivo è inconferente per le seguenti ragioni:

anzitutto, il quesito formulato al termine del motivo non investe la “ratio decidendi” nella parte in cui è posto in rilievo che il primo giudice aveva, comunque, ritenuto provato il requisito dimensionale in base all’esito delle prove testimoniali; inoltre, la circostanza per la quale il lavoratore si era offerto di provare la sussistenza del suddetto requisito non esonerava la parte datoriale dall’onere di dimostrare il dedotto fatto impeditivo dell’altrui diritto, vale a dire l’esistenza di un requisito occupazionale inferiore a quello necessario per l’applicazione della tutela reale.

Al riguardo è bene ricordare l’indirizzo delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. n. 141 del 10/1/2006) per il quale “in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro.

Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.” Quest’ultimo aspetto è stato sviluppato anche in una decisione successiva (Cass. sez. lav. n. 20484 del 25/7/2008) con la quale si è affermato che “la ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio – riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della prova negativa”.

7. L’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 è l’oggetto di doglianza del settimo motivo col quale si contesta che nella fattispecie potesse ravvisarsi l’esistenza di un unico centro di imputazione e di un unico gruppo societario in carenza della prova inerente l’individuazione delle società costituenti un tale gruppo. Il motivo è infondato in quanto ai fini della dimostrazione della ricorrenza del requisito dimensionale utile per l’applicabilità della tutela reale è sufficiente la prova, riscontrata nella fattispecie dai giudici di merito, della utilizzazione, da parte delle diverse imprese aventi interessi economici comuni, delle prestazioni lavorative rese dai medesimi dipendenti dell’odierna ricorrente che con le suddette società era in rapporti d’affari.

Si è, infatti, affermato (Cass. sez. lav. n. 5496 del 14/3/2006) che “qualora tra più società vi sia un collegamento economico- funzionale è da ravvisare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti quando si accerti l’utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società titolari delle distinte imprese. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la logicità e l’adeguatezza della motivazione della sentenza impugnata con la quale era stata rilevata la sussistenza di un caso di collegamento societario desumibile dall’unicità della gestione aziendale e della coincidenza del centro di imputazione, risultanti da molteplici e concorrenti elementi probatori congruamente valutati, fra i quali l’inserimento del lavoratore ricorrente nelle poste economiche passive delle due società e la congiunta gestione delle sorti del rapporto di lavoro del medesimo, oltre che sulla scorta della considerazione delle due società – all’esterno – come un unico datore di lavoro).(in senso conforme v, anche Cass. sez. lav. n. 11275 del 28/8/2000).

Nella fattispecie, la Corte di merito ha, con motivazione congrua, condiviso quanto già appurato dal primo giudice in base all’istruttoria svolta, vale a dire che i dipendenti della società appellata svolgevano l’attività lavorativa indifferentemente anche per altre società, proprietarie di diverse cave, venendo adibiti promiscuamente ai lavori che si eseguivano nelle varie cave facenti capo a diverse società, a seconda delle esigenze dell’una o dell’altra, società facenti tutte capo ad un’altra avente sede in (OMISSIS) e nei cui uffici confluiva tutta l’attività amministrativa.

A riprova di ciò la Corte ha evidenziato che i dipendenti venivano trasportati alla cava col mezzo di altra società e che tutta l’organizzazione burocratica amministrativa relativa alla gestione delle ferie, delle assenze per malattia, delle dimissioni e dei licenziamenti faceva capo ad un unico ufficio di (OMISSIS) della società denominata “Luciano”.

8. Con l’ottavo motivo è dedotta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5. Si contesta, in particolare, il fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto che il calcolo delle differenze retributive per ferie e R.O.L. non godute provenisse direttamente dai dati inseriti nelle buste paga di provenienza datoriale, mentre dal ricorso e dai documenti prodotti dal lavoratore risultava che il calcolo era stato eseguito sulla base di un documento scritto di pugno del ricorrente.

Il motivo è infondato in quanto i documenti in copia che la società riproduce alle pagine 76 e 77 del presente ricorso, al fine di dimostrare quali erano i documenti di cui si era avvalso il lavoratore, altro non sono che un conteggio delle spettanze operato in sede sindacale ed una busta paga emessa dalla Candela Graniti s.r.l a favore del M. per le competenze del mese di aprile del 2004, la qual cosa smentisce l’odierno assunto difensivo della società in ordine al fatto che il calcolo contestato fosse stato eseguito sulla base di documenti diversi dalle buste paga.

9. Con l’ultimo motivo è denunziata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c. con riferimento alla decisione della Corte d’appello di rigettare l’eccezione “dell’aliunde perceptum e percipiendum” sulla base della ritenuta mancanza di allegazione probatoria, mentre secondo l’odierna ricorrente vi erano gli estremi per l’applicazione dei poteri ufficiosi di cui alla citata norma codicistica, dovendosi contemperare nel rito del lavoro il principio del dispositivo con quello della ricerca della verità materiale.

Il motivo è infondato, avendo la Corte di merito posto in giusto rilievo e con adeguata motivazione, come tale sottratta ai rilievi di legittimità, la natura esplorativa delle istanze istruttorie avanzate, oltre che la estrema genericità delle stesse.

Non va, infatti, dimenticato che, come questa Corte ha avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 11487 dell’1/9/2000), “in tema di determinazione dei danni conseguenti al licenziamento, il datore di lavoro che eccepisca nel giudizio di appello l’aliunde perceptum, in relazione a redditi del lavoratore maturati dopo la proposizione della domanda, che sia stato impossibile dedurre nel corso del giudizio di primo grado, ha l’onere della allegazione e della relativa prova, non operando in tal caso la preclusione di cui all’art. 437 cod. proc. civ..” Più di recente si è ribadito (Cass. sez. lav. n. 23226 del 17/11/2010) che “in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum” o dell'”aliunde percipiendum”, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito.” Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La mancata costituzione dell’intimato comporta che non va adottata alcuna statuizione sulle spese nei confronti della ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2011

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