Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24567 del 22/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/11/2011, (ud. 20/09/2011, dep. 22/11/2011), n.24567

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20967-2009 proposto da:

G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato MATTINA GIUSEPPE,

rappresentato e difeso dall’avvocato PELAZZA GIUSEPPE, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

A.M.S.A. – AZIENDA MILANESE SERVIZI AMBIENTALI S.P.A., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA A. GRAMSCI 14, presso lo studio

dell’avvocato GATTI GABRIELE, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GOFFREDO TOMMASO MASSIMO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 317/2009 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 08/04/2009 r.g.n. 876/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/09/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato DINACCI GIAMPIERO per delega GABRIELE GATTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 11.3/8.4.2009 la Corte di appello di Milano confermava la decisione resa in primo grado, che aveva rigettato la domanda proposta da G.C. per far dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 27.9.2007 dalla società AMSA (Azienda Milanese Servizi Ambientali) spa, della quale era stato dipendente.

Osservava in sintesi la corte territoriale che la lettera di contestazione degli addebiti appariva idonea ad esporre le ragioni del rimprovero disciplinare, dal momento che la stessa, nonostante alcune imprecisioni circa la denominazione del locale ove si era ripetutamente recato il dipendente durante l’orario di servizio e per svolgere incombenze estranee allo stesso, descriveva puntualmente il comportamento tenuto e richiamava la contestazione verbale che, nell’immediatezza dei fatti, era stata operata da suoi superiori, sicchè nessuna compressione del diritto di difesa era constatabile, stante la complessiva sufficienza della motivazione, che era stata sol corretta, per aspetti non essenziali, con successiva comunicazione, inoltrata pur dopo il licenziamento.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.C. con cinque motivi. Resiste con controricorso, illustrato con memoria, l’AMSA spa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 il ricorrente lamenta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 ed, al riguardo, osserva che la corte territoriale aveva trascurato di considerare che, dovendo la contestazione dell’ addebito disciplinare rivestire i caratteri della chiarezza, completezza ed inquivocabilità, doveva ritenersi lesivo di tali principi l’invio, a procedimento disciplinare già concluso, di una lettera di integrazione della contestazione, basata su verifiche del contenuto delle difese del lavoratore effettuate dopo l’irrogazione del licenziamento stesso.

Con il secondo motivo, prospettando violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 36 c.c. e art. 418 c.p.c.) e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), il ricorrente rileva che la corte territoriale, pur dando atto che l’impugnazione non investiva il merito degli addebiti, aveva ritenuto di poter accertare la legittimità del recesso nonostante l’assenza di una domanda riconvenzionale in tal senso avanzata dal datore di lavoro, e sebbene il rigetto della domanda del lavoratore licenziato per la riconosciuta sussistenza di vizi formali non precludesse una successiva impugnazione per difetto di idonee ragioni giustificative, che risultavano, invece, accertabili, nel corso del processo, solo in presenza di una espressa iniziativa del datore di lavoro, intesa ad ampliare l’originario thema decidendum.

Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta che la corte territoriale, in violazione del principio delle distinzioni tra le azioni e dell’art. 24 Cost., aveva erroneamente ritenuto che l’impugnazione del licenziamento non potesse essere frazionata in una pluralità di ricorsi, pur riconducibili e giustificati da distinte causae petendi.

Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando ancora violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 5) e vizio di motivazione, lamenta che la corte territoriale aveva supposto come sussistenti i fatti addebitati senza dar corso ad alcuna attività istruttoria idonea a giustificare la decisione. Con l’ultimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2106 e 2109 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, art. 1il ricorrente lamenta, infine, che i giudici di merito avevano omesso alcuna valutazione in ordine alla, pur doverosa, proporzionalità della sanzione applicata.

2. Il primo motivo è infondato.

Costituisce giurisprudenza acquisita di questa Suprema Corte, in punto di sanzioni disciplinari, che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, è volta a consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella loro materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di diligenza e fedeltà. Il relativo accertamento costituisce oggetto di un indagine fattuale, incensurabile in sede di legittimità, ove la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito resti indenne da censure.

Nel caso, la corte territoriale ha accertato “che ancorchè contenga una imprecisione circa l’esatta denominazione della pizzeria e del numero civico del locale in cui era stato trovato ripetutamente il dipendente … dopo aver abbandonato il veicolo di servizio … la lettera descrive puntualmente il comportamento tenuto e richiama la contestazione verbale che evidentemente gli era stata fatta da un superiore e dai suoi aiuti nell’immediatezza dei fatti e sul luogo esatto ove erano stati commessi, così da richiamare circostanze note al lavoratore e da rendere inequivoche le indicazioni fornite dalla contestazione”.

Nè rispetto a tale accertamento risulta incoerente la considerazione assegnata alla successiva comunicazione integrativa, venuta, peraltro, a conoscenza del lavoratore quando lo stesso era stato già licenziato, avendo i giudici di appello considerato determinante la “complessiva sufficienza” dell’originaria contestazione e valutato quella successiva come volta a correggere imprecisioni di portata non essenziale rispetto alla esatta individuazione dei fatti addebitati e tale, pertanto, da non determinare alcuna lesione del diritto alla difesa e al contraddittorio. Ne discende che tali considerazioni, in quanto immuni da vizi interpretativi, forniscono, nel loro complesso, adeguata giustificazione alla decisione impugnata, alla luce del principio, che in questa sede merita di essere ribadito, che, ai fini della tempestività della contestazione dell’addebito, la integrazione dell’ originaria formulazione delle censure non determina una immutazione della contestazione allorchè le circostanze nuove addotte dal datore di lavoro non risultino determinanti per l’esatta individuazione e comprensione dei fatti oggetto di censura, ma riguardano allegazioni volte a fornire precisazioni e chiarimenti a tal scopo non essenziali, dovendosi, invece, qualificare come nuova contestazione quella che, in realtà, incide sul nucleo essenziale dell’addebito.

Per come correttamente è stato escluso nel caso in esame, riguardando, per come si è già detto, le informazioni successivamente fornite dal datore di lavoro l’esatta denominazione del locale ove il dipendente è stato rinvenuto a lavorare durante l’orario di servizio e il relativo numero civico, ma senza che sussistesse già per l’innanzi alcun dubbio circa le circostanze di tempo e di luogo in cui i fatti erano avvenuti e circa la ricostruzione dei comportamenti attinti da rilievo disciplinare.

Fermo resta, per il resto,che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il controllo del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe, in realtà, che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità, risultando del tutto estranea ai compiti della Suprema Corte la possibilità di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. ad esempio Cass. n. 11789/2005; Cass. n. 4766/2006; SU n. 5802/1998), per non incontrare, al riguardo, il giudice di merito alcun limite che quello di indicare le fonti e le ragioni del proprio convincimento.

3. Il secondo motivo è, invece, inammissibile.

Deve, infatti, ribadirsi, in conformità all’insegnamento di questa Suprema Corte, che il principio di diritto che la parte ha l’onere di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità deve consistere in una chiara sintesi logico- giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali che dalla risposta negativa o affermativa che ad essa si dia discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile non solo il ricorso nel quale il quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto all’illustrazione dei motivi di impugnazione (cfr. ad es. SU n. 20360/2007; Cass. n. 14385/2007), ovvero ove non vi sia corrispondenza (o vi sia solo parziale corrispondenza) fra quesito e motivo, sicchè il primo non sia esaustivamente riferibile alla questione controversa posta col motivo di impugnazione, rappresentandone la sintesi logico – giuridica. Ne resta confermato, quindi, che il rispetto della imprescindibile attinenza dei quesiti al decisum è condizione indispensabile per la valida proposizione del quesito medesimo, sotto pena della sua genericità e della conseguente equiparazione, per difetto di rilevanza, alla mancanza stessa di un quesito. Il quesito posto dal ricorrente (“Dica la Corte se, introdotta dal ricorrente causa volta ad ottenere pronuncia di nullità del licenziamento per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 il convenuto può sostenere la legittimità del licenziamento per la sussistenza, nel merito, di giusta causa … senza avanzare domanda riconvenzionale, o se ciò non costituisca violazione dell’art. 36 c.c. (rectius c.p.c.), art. 418 c.p.c. e dei principi in tema di identificazione dell’azione” ) non risulta conforme ai canoni interpretativi indicati.

Lo stesso, infatti, da un lato, non contiene alcun riferimento al vizio di motivazione, pur contestualmente denunciato, sebbene l’onere imposto in parte qua dall’art. 366 bis c.p.c. debba essere adempiuto non solo illustrando il motivo, ma anche formulando, al termine di esso e , comunque, in una parte del motivo a ciò espressamente dedicata, una indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del ricorso e valga ad evidenziare, in termini immediatamente percepibili, il vizio motivazionale prospettato, e quindi l’ammissibilità del ricorso stesso (cfr. ad es. Cass. ord. n. 8897/2008; Cass. ord. n. 20603/2007; Cass. ord. n. 16002/2007), dall’altro non risulta esaustivamente riferibile alle ragioni espresse nell’articolazione del motivo, che si incentra essenzialmente sul vizio di ultrapetizione ,con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., neppur esso richiamato. A ciò si aggiunga che il motivo appare inammissibile anche sotto altro, ma collegato, aspetto, dal momento che il vizio di ultrapetizione, traducendosi in una violazione dell’art. 112 c.p.c., deve esser fatto valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, e non con la violazione di norme di diritto sostanziale , ovvero ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, trattandosi di specifico error in procedendo e riguardando, invece, il vizio di motivazione l’erroneo apprezzamento da parte del giudice di merito delle questioni prospettate dalla parte e dal primo esaminate (per come è da costante insegnamento di questa Corte: v.

ad es. Cass. n. 15882/2007).

4. La statuizione di inammissibilità adottata assorbe l’esame del terzo, connesso, motivo.

5. Quanto, infine, agli ultimi due, deve constatarsi che gli stessi introducono contestazioni e difese non svolte nella fase di merito, in contrasto con la regola che il controllo di legittimità non può estendersi all’esame di censure nuove, e cioè di temi di contestazione diversi da quelli proposti nei precedenti gradi di merito ed anche di nuove questioni di diritto, ancorchè rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, quando essi presuppongono o richiedono nuovi accertamenti e apprezzamenti di fatto, preclusi alla Suprema Corte (cft. ad es. Cass. n. 16742/2005;

Cass. n. 15180/2003; Cass. n. 3737/1999). Sicchè anche per tal parte il gravame deve dichiararsi inammissibile.

6. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 20 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2011

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