Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24566 del 22/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/11/2011, (ud. 20/09/2011, dep. 22/11/2011), n.24566

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20662-2009 proposto da:

NUOVA ETRA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 4, presso lo

studio dell’avvocato GEMMA ANDREA, che lo, rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIULIANI PIETRO, giusta procura notarile in

atti;

– ricorrente –

contro

M.L.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1229/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 07/11/2008 R.G.N. 1196/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/09/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ALDO ROMEO per delega ANDREA GEMMA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 28.10/7.11.2008 la Corte di appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimato il 9.7.2004 dalla società Nuova Etra srl a M.L., già dipendente della stessa. Osservava in sintesi la corte territoriale che, riguardando il numero degli esuberi (nel caso pari a sette, per come dichiarato nella comunicazione di apertura della procedura di mobilità) il programma del datore di lavoro, e non i recessi poi effettivamente posti in essere, restava irrilevante, ai fini dell’applicabilità della disciplina collettiva, la successiva riduzione del numero dei lavoratori espulsi, con la conseguente inconfigurabilità di un licenziamento individuale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Nuova Etra con due motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso M.L..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la società ricorrente lamenta violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 e della L. n. 604 del 1966, art. 3 ed, al riguardo, rileva che la corte territoriale aveva erroneamente mancato di considerare che la disciplina regolativa dei licenziamenti collettivi si applica soltanto ai recessi che siano conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o lavoro (laddove nel caso il licenziamento era stato attuato per la soppressione del posto di lavoro del M.), irragionevolmente ritenendo che l’applicazione della stessa precludesse di per sè l’operatività della disciplina del recesso per giustificato motivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale contraddittoriamente affermato che il licenziamento fosse riconducibile nell’ambito della causale giustificativa della procedura di mobilità, sebbene la lettera di recesso indicasse nella soppressione della posizione lavorativa il reale e giustificato motivo dello stesso.

2. Il primo motivo, che si fonda sinteticamente sull’assunto dell'”indiscutibile differenza causale” del licenziamento collettivo rispetto al licenziamento individuale e della possibile sopravvivenza di quest’ultimo nonostante che il datore di lavoro abbia promosso la procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991, è infondato.

Presupposto di tale tesi è che, nonostante il sopravvenire della L. n. 223 del 1991, che ha dettato una disciplina organica della materia, finalizzata alla tutela di interessi pubblici e collettivi, oltre che dell’interesse individuale dei lavoratori, permanga una differenza fra le due forme di recesso che atterrebbe alla struttura causale stessa della fattispecie.

Tale configurazione dell’istituto finisce, tuttavia, per negare la specificità dell’intervento legislativo, volto a dare un preciso quadro di riferimento legale ad una materia per l’innanzi affidata esclusivamente alla regolazione contrattuale e giurisprudenziale, e, comunque, si pone in contrasto con la lettura che del nuovo contesto normativo ha progressivamente offerto la giurisprudenza di questa Suprema Corte.

A tal riguardo, può dirsi ormai acquisita l’affermazione che, dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si caratterizza, con riferimento alle imprese aventi una determinata base occupazionale, essenzialmente per la presenza di requisiti quantitativi e spaziali, oltre che per la finalizzazione della procedura, attraverso il controllo preventivo di soggetti pubblici e collettivi, ad un equilibrato contemperamento fra la tutela dell’occupazione e il soddisfacimento dell’esigenza che le imprese possano dimensionare la struttura aziendale in termini compatibili con la necessità della sopravvivenza e della crescita (v. ad es. Cass. n. 14638/2006; Cass. n. 5794/2004; Cass. n. 9045/2000).

Da questo punto di vista, è arduo sostenere che la distinzione fra il licenziamento individuale (plurimo) e quello collettivo possa affidarsi ad ulteriori dati qualitativi, ed, in particolare, che il riferimento alla “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, che pur sembra richiamare le formulazioni contenute negli accordi interconfederali del 1950 e del 1965, sia interpretabile alla luce della giurisprudenza previgente l’entrata in vigore della nuova disciplina (v. ex plurimis ad es. Cass. n. 2 785/1995), sicchè sarebbero destinate a restare estranee alla fattispecie tutte le ipotesi in cui non ricorra una stabile e non transeunte riduzione dell’attività economica, come nel caso che i licenziamenti si ricolleghino ad una razionalizzazione dell’attività produttiva e ad un incremento della stessa. Ed, in realtà, la nuova legge, superando ogni “ontologica distinzione”, da piuttosto risalto ad una autonoma fattispecie – quella del licenziamento collettivo – che unifica tutte le ipotesi di recesso determinate da esigenze aziendali e che, per il particolare impatto occupazionale che riveste, determina la necessità di una procedimentalizzazione del recesso del datore di lavoro, nell’ambito di una gestione collettiva delle situazioni di crisi e di riorganizzazione aziendale. Per come si è, infatti, correttamente avvertito, la volontà del legislatore di sottoporre alla disciplina del licenziamento collettivo tutti i licenziamenti che trovano la loro ragione nelle esigenze dell’impresa, non solo non risulta incompatibile con la lettera della legge, per la sostanziale fungibilità che il riferimento alla “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” assume rispetto alle “ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”, previste dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 e per la rilevanza che nella stessa, invece, acquista il requisito numerico e spaziale, ma appare, altresì, conforme alle fonti comunitarie, di cui la legge stessa costituisce attuazione (direttiva 98/59/CE del 20 luglio 1998, che coordina e modifica le precedenti n. 92/56 del 24 giugno 1992 e n. 129 del 17 febbraio del 1975), che qualificano il licenziamento collettivo, oltre che per il numero dei lavoratori interessati, per la sua inerenza ad “uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore”.

E non casualmente (ad ulteriore conferma della idoneità della fattispecie a sussumere tutte le situazioni di recesso per esigenze aziendali) è la legge stessa a considerare come collettivo il licenziamento determinato da cessazione dell’attività aziendale;

situazione che, per l’innanzi, per giurisprudenza pacifica, veniva configurata, invece, come licenziamento plurimo.

Se, pertanto, a differenza di quanto avveniva nel precedente contesto legale, non è più, in definitiva, la specifica ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto di lavoro a caratterizzare la riduzione del personale e a distinguerla dal licenziamento plurimo (così, ad es, Cass. n. 11455/1999), laddove ad assumere rilievo decisivo viene ad essere piuttosto l’espletamento dell’iter procedurale previsto dall’art. 4 della Legge medesima (cfr. Cass. n. 9045/2000; Cass. n. 5662/1999), evidenti sono le conseguenze che ne derivano nella fattispecie in esame.

Se si considera, infatti, che è incontroverso che, all’atto di apertura della procedura, la società ricorrente aveva indicato un’eccedenza di sette lavoratori e l’esistenza di una riduzione di attività e di lavoro, e che, nondimeno, non erano stati osservati gli obblighi di comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3 della Legge, deve ritenersi del tutto irrilevante che, conclusasi la procedura con un mancato accordo, al momento del recesso, la decisione del datore di lavoro sia stata contenuta nell’ambito di soli tre esuberi e che, in particolare, il licenziamento intimato al M. sia stato motivato per “la soppressione della (sua) posizione lavorativa”, e quale effetto (giova soggiungere) della “riorganizzazione e razionalizzazione” di alcune delle “attività aziendali” (così nel ricorso).

Va confermato 5infatti, che l’autonomia della fattispecie normativa del licenziamento collettivo, anche in punto di sanzioni (v. art. 24 comma 1, in relazione all’art. 5, comma 3), rende, da un lato, del tutto irrilevante il numero dei licenziamenti effettivamente posti in essere, in luogo di quelli programmati, laddove, anzi, è scopo precipuo della gestione collettiva della procedura la negoziazione degli esuberi ed il loro eventuale contenimento, nella logica, che ispira l’intervento legislativo, di un equilibrato contemperamento fra le esigenze delle ristrutturazioni aziendali e quelle dell’occupazione; dall’altro esclude, in presenza di vizi della procedura, alcuna ipotesi di conversione dei licenziamenti collettivi in licenziamenti individuali (v. in tal senso Cass. n. 9045/2000;

Cass. n. 5662/1999).

Ed, in realtà, la tesi della conversione, patrocinata dalla giurisprudenza prima dell’entrata in vigore della L. n. 223, allorchè la fattispecie risultava priva di precisi riferimenti legali, appare nel mutato quadro normativo incoerente rispetto alla codificazione dell’istituto, ed alla previsione, in tal contesto, di specifiche sanzioni, e costituirebbe, in ogni caso, l’occasione per facili elusioni del filtro collettivo-procedurale, vanificando il preventivo controllo (sul procedimento e sui criteri di scelta) che il legislatore ha concepito, in considerazione della dimensione collettiva del fenomeno, in sostituzione di quello successivo sull’adeguatezza dei motivi, stabilito per i licenziamenti individuali, anche se plurimi.

E sotto questo aspetto, a conferma di una nozione di licenziamento collettivo, che, per come si è detto, guarda al ” progetto imprenditoriale da discutere e verificare nella procedura”, ancor prima che agli atti di recesso che ne costituiscono la concretizzazione finale, merita di essere ricordata l’affermazione della Corte di giustizia (sent. 27.1.2005, C- 188/03), secondo cui l’evento qualificabile come licenziamento va inteso con riferimento alla volontà del datore di lavoro di porre fine ai rapporti di lavoro, e ciò tanto per la rilevanza che assume la lettera della direttiva ( che fa riferimento a licenziamenti soltanto “previsti” – art. 2, n. 1 e alla notifica di “ogni progetto di licenziamento collettivo”: art. 3, n. 4 e n. 1), che fa sua funzione (che è quella di limitare e ridurre la dismissione dei rapporti di lavoro: art. 2, n. 2). Va, quindi, conclusivamente affermato che, ove il datore di lavoro, che occupi più di quindici dipendenti, intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, almeno cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 24 è tenuto all’osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento collettivo, che il numero dei licenziamenti attuati, a conclusione delle procedure medesime, sia eventualmente inferiore, nè è ammissibile, ove non siano osservate le procedure previste, una conversione del licenziamento collettivo in licenziamento individuale plurimo. Il primo motivo va, pertanto, rigettato.

3. Quanto, poi, al secondo, lo stesso, non solo appare strettamente connesso al primo, ma, in ogni caso, risulta anche inammissibile ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., ultima parte, dovendosi ribadire come l’onere imposto in parte qua dalla norma debba essere adempiuto non solo illustrando il motivo, ma anche formulando, al termine di esso e comunque, in una parte del motivo a ciò espressamente dedicata, una indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del ricorso e valga ad evidenziare, in termini immediatamente percepibili, il vizio motivazionale prospettato, e quindi l’ammissibilità del ricorso stesso (cfr. Cass. ord. n. 8897/2008; Cass. ord. n. 20603/2007; Cass. ord. n. 16002/2007).

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno distratte in favore del difensore anticipatario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA, con distrazione in favore dell’Avv. Leonardo Giorgio.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2011

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