Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24566 del 18/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 18/10/2017, (ud. 11/05/2017, dep.18/10/2017),  n. 24566

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24922-2014 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso

lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che la rappresenta

e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTE SANTO 10/A, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO

FOSCHIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO MALARA,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 668/2012 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 16/04/2014 R.G.N. 860/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/05/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso in via principale la trasmissione

atti al Primo Presidente in subordine accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato PATERNO’ FEDERICA per delega orale Avvocato DE LUCA

TAMAJO RAFFAELE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento del ricorso proposto da Giuseppe F.M., aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato con lettera del 20.11.2007 e condannato la convenuta Poste Italiane s.p.a. alla riammissione in servizio del lavoratore ed al risarcimento del danno.

1.1. Il giudice d’appello, premesso che la statuizione di accoglimento era stata fondata su due alternative rationes decidendi, rappresentate dalla carenza di tempestività della contestazione e dal difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta oggetto di addebito, ha ritenuto di confermare la valutazione di tardività della contestazione, con assorbimento delle censure formulate dall’appellante Poste in punto di adeguatezza della sanzione irrogata in relazione alla entità del fatto ascritto. A tal fine ha rilevato che la condotta oggetto di addebito (costituita dal fatto che nell’ufficio postale del quale il F. era stato reggente era stato constatato, al rientro della titolare responsabile, un ammanco di cassa in quanto in luogo della somma di contanti di Euro 13.106,97 era stato rinvenuto un assegno postale di pari importo tratto a firma del F. sul di lui conto corrente, somma poi restituita dal lavoratore in data 9.9.2006, dopo un primo infruttuoso tentativo di riscuotere l’assegno) risultava ormai accertata, senza necessità di ulteriori indagini, alla data del 9.9.2006 e che, pertanto, la contestazione dell’illecito, avvenuta con lettera del 16.10.2007, a distanza, quindi, di oltre un anno, non trovava giustificazione, neppure in considerazione delle dimensioni notevoli dell’organizzazione datoriale; la non immediatezza della contestazione, valutata in uno con la mancata adozione di procedimento cautelare di sospensione dal servizio, induceva a ritenere che il datore di lavoro avesse soprasseduto al licenziamento del lavoratore ritenendo la condotta (solo temporaneamente distrattiva) non meritevole della massima sanzione espulsiva.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. sulla base di un unico motivo; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Si premette che il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata, ai sensi del decreto del primo Presidente in data 14/9/2016.

1. Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 nonchè omesso esame circa fatto decisivo della controversia. Ha sostenuto che la decisione impugnata muoveva dall’erroneo presupposto secondo il quale la società sarebbe venuta a conoscenza dei fatti oggetto di contestazione pochi giorni dopo il loro verificarsi, senza considerare che il dies a quo da prendere in considerazione per la valutazione della tempestività della contestazione era costituito dal momento in cui la notizia del comportamento illegittimo era giunta a conoscenza dei vertici societari ed in particolari dei soggetti preposti all’esercizio del potere disciplinare. Si è quindi doluta che il giudice di appello non avesse ritenuto di effettuare alcuna indagine a riguardo omettendo di dare ingresso alla prova articolata in merito. Ha sottolineato l’irrilevanza dell’eventuale tardivo esercizio del potere disciplinare non essendosi determinata in concreto alcun pregiudizio al diritto di difesa del F..

1.1. Il ricorso è infondato.

1.2. Preliminarmente deve essere disattesa la eccezione di parte controricorrente intesa a far valere la formazione del giudicato (interno), per mancata impugnazione della decisione di appello, in relazione al profilo, ritenuto assorbito dalla sentenza qui impugnata, attinente alla valutazione di non proporzionalità ai fatti addebitati alla sanzione espulsiva; la necessità di impugnazione del motivo assorbito è infatti da escludere alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in ipotesi di assorbimento cd. improprio, configurabile nel caso di rigetto di una domanda in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo che rende vano esaminare le altre, sul soccombente non grava l’onere di formulare sulla questione assorbita alcun motivo di impugnazione, ma è sufficiente, per evitare il giudicato interno, che censuri o la sola decisione sulla questione giudicata di carattere assorbente o la stessa statuizione di assorbimento, contestando i presupposti applicativi e la ricaduta sulla effettiva decisione della causa. (Cass. 12/7/2016 n. 14190, Cass. 9/10/2012 n. 17219).

1.3. E’ altresì da disattendere la ulteriore eccezione di parte controricorrente con la quale si deduce la violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 3, atteso che il ricorso per cassazione contiene la esposizione del fatto processuale (v.pagg. 2 e 3) in termini idonei a consentire la corretta individuazione del contenuto delle censure articolate, dovendosi altresì rilevare che l’autosufficienza del ricorso per cassazione non è espressione di un principio autonomo ma dell’esigenza che la censura proposta attinga al necessario livello di specificità attraverso l’ausilio della compiutezza espositiva dei fatti per essa rilevanti: e tale requisito, discendente dall’art. 366 c.p.c., n. 4 è integrato quando il motivo consente di identificare, come nel caso di specie, l’error o comunque la violazione che si assume viziare la sentenza che fonda la richiesta di annullamento.

1.4. Nel merito dell’unico motivo si rileva che, come eccepito da parte contro ricorrente, per il profilo attinente alla denunzia di violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 la relativa deduzione non è conforme all’insegnamento di questa Corte secondo il quale il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla Corte di Cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. 8/3/2007 n. 5353, Cass. 17/5/2006 n. 11501). Parte ricorrente si è sottratta a tale onere in quanto non ha dimostrato con riferimento alle affermazioni contenute nella decisione impugnata che le stesse erano frutto della non corretta interpretazione della disposizione richiamata o dell’applicazione della stessa ad una fattispecie concreta non corrispondente a quella astratta regolata dalla norma. (Cass. 11/8/2004 n. 15499). Le censure articolate, infatti, non evidenziano alcuno specifico errore di diritto della decisione impugnata ma si incentrano esclusivamente sull’accertamento del giudice di appello destinato a sorreggere la valutazione di tardività della contestazione. Tali censure risultano, quindi, coerenti con la sola denunzia di vizio di motivazione formulata dall’odierno ricorrente con il secondo profilo del motivo in esame.

1.5. Esse sono da respingere. Occorre premettere che, nel caso di specie, in ragione della data di pubblicazione della sentenza impugnata – il 16.4.2014 -, trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella attuale configurazione risultante dalla modifica introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, alla stregua del quale è denunziabile con il ricorso per cassazione solo l’omesso esame di fatto decisivo e controverso oggetto di discussione fra le parti. Tale fatto, secondo parte ricorrente, sarebbe ravvisabile nella omessa considerazione del momento in cui gli organi societari, titolari del potere disciplinare, erano venuti a conoscenza della condotta oggetto di addebito.

1.6. L’assunto è infondato non essendo dato rinvenire nel ragionamento decisiorio del giudice di appello la denunziata lacuna di accertamento; la sentenza di secondo grado ha, infatti, espressamente preso in considerazione le dimensioni notevoli dell’organizzazione datoriale, con implicito riferimento, quindi, anche ai tempi necessari perchè la condotta addebitata fosse portata a conoscenza di coloro che nell’ambito di tale compagine organizzativa erano titolari del potere disciplinare. Ha, quindi, ritenuto, con valutazione esclusivamente demandata al giudice di merito in quanto logicamente e congruamente motivata (Cass. 25/01/2016 n. 1248, Cass. 12/01/2016 n. 281,Cass. 9/8/2013 n. 19115, Cass. 01/07/2010 n. 15649), che la pur – complessa articolazione organizzativa della società datrice era comunque inadeguata a giustificare, a fronte di una condotta non necessitante di ulteriori indagini dopo il 9 settembre 2006, una contestazione di addebito intervenuta ad oltre tredici mesi di distanza. Tanto è sufficiente per respingere il motivo in esame.

2. Le spese di lite sono liquidate secondo soccombenza.

3. La circostanza che il ricorso sia stato proposto,in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. (Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge. Con distrazione in favore dell’Avv. Domenico Malara.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2017

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