Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24564 del 18/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 18/10/2017, (ud. 09/05/2017, dep.18/10/2017),  n. 24564

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17838-2015 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA MARRAMA, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TEP S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO

69, presso lo studio dell’avvocato PAOLO BOER, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati MAURO MAZZONI, LUCIANO GIORGIO

PETRONIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 199/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 06/05/2015 R.G.N. 211/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/05/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso; udito l’Avvocato MARRAMA ANTONELLA;

udito l’Avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 199/2015, ha confermato la sentenza del Tribunale di Parma che aveva respinto l’impugnativa del provvedimento di destituzione dal servizio adottato dalla TEP s.p.a. nei confronti del proprio dipendente F.G..

2. La Corte territoriale, quanto all’eccezione di nullità del provvedimento di destituzione formulata dal F. ai sensi del R.D. n. 148 del 1931, artt. 53 e 54 per mancata istituzione del Consiglio di Disciplina, ha rilevato che l’eccezione era innanzitutto tardiva, perchè sollevata solo in sede di note conclusive e non con il ricorso introduttivo; la stessa era comunque improponibile, poichè il F. non aveva presentato alcuna istanza diretta al Consiglio di Disciplina; in ogni caso, l’eccezione era infondata, in quanto la soppressione delle funzioni amministrative statali in materia di nomina del Consiglio di Disciplina per le ferrovie in concessione e per le aziende di trasporto pubblico locale esplicava efficacia quanto agli organi competenti ad infliggere sanzioni disciplinari, così determinando la sostanziale abolizione dei medesimi organi.

3. Nel merito, ha osservato che la sanzione irrogata era proporzionata all’infrazione commessa.

3.1. Al F., autista dipendente della società convenuta, esercente attività di pubblici trasporti in concessione, era stata addebitata la mancata consegna di un bene (uno zaino contenente effetti personali di un passeggero) ricevuto da un utente durante il servizio.

3.2. I Giudici di merito hanno ritenuto che la mancata consegna non fosse addebitabile ad un comportamento di mera dimenticanza o negligenza, ma hanno desunto la prova del dolo da elementi di rilievo indiziario: il dipendente, nel corso di una prima telefonata con il direttore S., aveva dichiarato il falso; tale comportamento comprovava l’intenzione del F. di non rivelare il possesso di quell’oggetto; la dichiarazione di avere consegnato lo zaino ad un terzo (circostanza risultata non veritiera) era logicamente incompatibile con la condizione di mera dimenticanza del possesso dell’oggetto. La condotta del F., per come ricostruita in corso di causa, recava in sè un atteggiamento della volontà volto all’appropriazione del bene rinvenuto, in tutto preordinata e non realizzata a causa delle indagini svolte dall’azienda su sollecitazione dell’utente e rese note al F. attraverso un’altra telefonata del direttore, con successivo ravvedimento del dipendente, messo in qualche modo alle strette.

4. La Corte territoriale ha escluso che la fattispecie potesse integrare le meno gravi previsioni contrattuali di cui all’articolo 41 n. 2 CCNL, che sanziona con la multa “le irregolarità di servizio, abusi, negligenze, quando non abbiano carattere di gravità o non dipendano da proposito deliberato”, o all’art. 42, n. 17 del medesimo contratto collettivo, che sanziona con la sospensione il “ritardato versamento o consegna di valori od oggetti derivanti da colpevole negligenza o da altra causa non dolosa”. La fattispecie ricadeva nella previsione contrattuale di cui all’art. 45, comma 1, n. 4, secondo cui incorre nella destituzione “chi nonostante restituzione, scientemente si appropri o contribuisca a che altri si appropri di somme, valori, materiale od oggetti spettanti all’azienda, o ad essa affidati per qualsiasi causa… Anche se tali mancanze siano rimaste allo stadio di tentativo”.

5. Per la cassazione di tale sentenza F.G. propone ricorso affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso TEP s.p.a., che ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414,416 e 437 c.p.c., R.D. n. 148 del 1931, artt. 53 e 54, art. 15 preleggi e D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102 lett. b) nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto tardiva l’eccezione di nullità del procedimento disciplinare per violazione del R.D. n. 148 del 1931, artt. 53 e 54 e nella parte in cui ha ritenuto rilevante la circostanza che il F. non avesse richiesto l’attivazione del Consiglio di Disciplina. Vertendosi in un’ipotesi di nullità genetica del procedimento disciplinare, nessuna conseguenza poteva derivare dalla formulazione dell’eccezione in corso di giudizio, ben potendo tale vizio essere rilevato anche d’ufficio dal giudice. In merito alla ritenuta soppressione dei Consigli di Disciplina, la giurisprudenza del Consiglio di Stato aveva confermato la sopravvivenza di tali organi anche a seguito del D.Lgs. n. 112 del 1998, riguardante le sole ” gestioni governative”.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e del principio di proporzionalità della sanzione all’infrazione di cui all’art. 2106 c.c., nonchè vizio di motivazione. Nessun elemento di causa portava a legittimare la ricostruzione posta a base della sentenza impugnata, secondo cui il F. non avrebbe riconsegnato lo zaino spontaneamente anche se non sollecitato dal proprio superiore. Al contrario, il lavoratore aveva riconsegnato l’oggetto ricevuto il medesimo giorno della richiesta avanzata dall’azienda e sin dalla prima contestazione aveva ammesso le proprie responsabilità, fornendo le relative giustificazioni. Nonostante la specifica eccezione formulata dalla difesa in ordine a tali elementi della fattispecie, nulla era stato indicato in sentenza. Riguardo alla necessaria valutazione dell’elemento intenzionale, il F. da subito aveva comunicato alla datrice di avere dimenticato di consegnare lo zaino ricevuto poichè preoccupato di raggiungere la moglie, in condizioni precarie di salute, nel più breve tempo possibile; anche in ordine a tale giustificazione nulla era stato indicato dalla Corte d’appello di Bologna, pur essendovi un certificato medico che confermava l’effettività delle precarie condizioni di salute del coniuge. In ogni caso poi tali elementi probatori avrebbero dovuto portare ad un giudizio di sproporzione tra comportamento oggetto di contestazione e sanzione espulsiva.

3. Il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931, art. 45 nonchè vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della fattispecie. La condotta ascritta non era riconducibile all’ipotesi dell’appropriazione, in quanto tale ipotesi non si era concretizzata. La fattispecie poteva essere qualificata in termini di ritardata consegna di valori derivanti da colpevole negligenza e quindi ricadere nell’ipotesi sanzionata con la sospensione dal servizio, in difetto di elementi probatori atti a dimostrare il carattere doloso del comportamento.

4. Il ricorso è infondato.

5. In ordine al primo motivo, correttamente la Corte d’appello ha ritenuto la tardività dell’eccezione volta introdurre in corso di giudizio uno specifico vizio del procedimento disciplinare. Come recentemente precisato da questa Corte (Cass. n. 7687/17), non è consentita al ricorrente la tardiva deduzione di un vizio del procedimento disciplinare non dedotto nell’atto introduttivo, nè può il giudice rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

6. Fermo il carattere assorbente di detto rilievo di tardività, giova rilevare che questa Corte ha pure affermato (Cass. n. 16540/2016) che costituisce presupposto testuale per l’operatività della disciplina di cui al R.D. n. 148 del 1931, artt. 53 e 54 dell’allegato A il fatto che l’interessato si sia avvalso del “diritto di chiedere” di essere giudicato dal Consiglio di Disciplina e che, in difetto di tale presupposto, resta priva di rilievo la questione, devoluta alle S.U. con ordinanza interlocutoria n. 13825 del 2015, avente ad oggetto la perdurante vigenza delle disposizioni del regio decreto del 1931. Nel caso in esame, la Corte di appello ha accertato che il F. non aveva avanzato istanza al Consiglio di Disciplina.

7. In merito alla censura formulata ex art. 360 c.p.c., n. 5 con il secondo motivo, va osservato che nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5 il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 2014, n. 19001 del 2016, n. 26774 del 2016). Tale onere non è stato in alcun modo assolto nella specie.

8. Il ricorso tende ad una rivisitazione del merito ed in particolare ad una diversa ricostruzione dell’elemento psicologico sotteso al comportamento tenuto dal F., che era rimasto inottemperante alla disposizione aziendale che imponeva la consegna, nel più breve tempo possibile al personale preposto, degli oggetti rinvenuti durante il servizio, essendosi indotto alla riconsegna solo a seguito della telefonata del superiore S.. La Corte di appello ricostruiti i dettagli della vicenda e la dinamica dei fatti ha ritenuto di poter desumere l’esistenza del dolo, nella condotta tenuta dal lavoratore, da una serie di elementi e, principalmente, dalla falsa versione dei fatti fornita telefonicamente dal F. nel corso della prima telefonata al direttore S.. L’ordine argomentativo sotteso alla prova presuntiva del dolo non presenta vizi di illogicità o incongruenza. Invero, lo stesso ricorrente oppone argomenti che non incrinano il giudizio di inferenza sotteso alla ricostruzione indiziaria del dolo.

8.1. In materia di presunzioni, è riservata al giudice di merito la valutazione discrezionale della sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, ovverosia come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’ id quod plerumque accidit; l’unico sindacato riservato in proposito al giudice di legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione. (Cass. n. 9225 del 2005, n. 28224 del 2008, n. 8021 del 2009; v. pure Cass. n. 26022 del 2011, n. 16831 del 2003).

9. Il terzo motivo, con cui si censura l’interpretazione delle diverse infrazioni previste dalla contrattazione collettiva, resta assorbito nel rigetto del secondo motivo poichè le ipotesi di infrazioni punite con sanzioni conservative presuppongono tutte un comportamento colposo, ossia negligenze commesse nell’espletamento del servizio, mentre nel caso di specie – come già detto – il dolo è stato ritenuto provato attraverso elementi di ordine indiziario. La fattispecie concreta è stata quindi correttamente sussunta in quella astratta prevista dal CCNL di settore (art. 45, comma 1) secondo cui incorre nella destituzione il dipendente che, nonostante restituzione, scientemente si appropri di somme, valori, materiale od oggetti spettanti all’azienda, o ad essa affidati per qualsiasi causa, anche se tali mancanze siano rimaste allo stadio di tentativo.

10 Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

11. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna F.G. al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2017

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