Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2456 del 02/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 02/02/2011, (ud. 02/12/2010, dep. 02/02/2011), n.2456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10198/2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI Roberto, rappresentata e difesa,

dall’avvocato SIGILLO’ VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA TARQUINIA 5-

D, presso lo studio dell’avvocato FALLA TRELLA FRANCO, rappresentata

e difesa dall’avvocato RIOMMI Maurizio, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1508/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 30/12/2006 r.g.n. 1958/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

02/12/2010 dal Consigliere Dott. VINCENZO DI CERBO;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega VINCENZO SIGILLO’;

Udito l’Avvocato RIOMMI MAURIZIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

1. la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza di prime cure che aveva, fra l’altro, dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 18 gennaio 2000 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con S.S.;

2. per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso illustrato da memoria; la lavoratrice ha resistito con controricorso;

3. come si evince dalla sentenza impugnata la lavoratrice è stata assunta con contratto a termine (con la decorrenza sopra indicata) stipulato a norma dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane;

4. la Corte di merito ha ritenuto l’illegittimità del termine apposto al suddetto contratto sul presupposto che, anche nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23, sia necessario che l’apposizione del termine sia giustificata da eccezionali e specifiche esigenze, connesse al processo di ristrutturazione e concretamente riferibili alla singola assunzione e che tali presupposti siano allegati e provati; rilevato che nel caso di specie la società Poste Italiane non aveva provato la riconducibilità della singola assunzione a siffatte esigenze, ha concluso per l’illegittimità del termine;

5. la suddetta impostazione è stata censurata dalla società ricorrente la quale deduce, in particolare, che l’interpretazione data dalla Corte di merito si basa, in sostanza, su un’erronea interpretazione della L. n. 56 del 1987, art. 23;

la censura della società ricorrente è infondata e deve essere pertanto rigettata, anche se la motivazione della sentenza merita di essere parzialmente corretta ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2; ed infatti la decisione, nella parte in cui ha affermato l’illegittimità del termine apposto al suddetto contratto, deve ritenersi conforme a diritto anche se la motivazione della sentenza deve ritenersi parzialmente erronea;

deve ricordarsi in proposito che con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione ..), dopo il 30 aprile 1998;

premesso che tale statuizione del giudice di merito è coerente col principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588) secondo cui la configurabilità della delega in bianco ai sensi della citata L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, consente ai sindacati la possibilità di individuare figure di contratto a termine non omologhe a quelle previste per legge, e premesso altresì che, in forza della delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato non essendo tenuta ad alcun ulteriore onere probatorio; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità del contratto a termine de quo per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo;

la citata giurisprudenza ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453);

ha rilevato altresì che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866);

ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141);

6. così respinto il primo motivo, osserva il Collegio che, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, con la memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.;

7. con riguardo alla richiesta della società, contrastata dalla difesa dell’intimato, e a prescindere dall’esame delle obiezioni da quest’ultima svolte in ordine alla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; in particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc..; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile; in caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze;

8. premessi tali principi di diritto, si rileva che nel caso in esame il motivo che investe il tema cui potrebbe essere riferibile, secondo la prospettazione della ricorrente, la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, è il secondo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia; si tratta, in realtà, di un motivo relativo alla pretesa violazione di una regula iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384 cod. proc. civ., u.c.) e attinente all’argomento della detrazione all’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato; la società ricorrente con tale motivo lamenta infatti del tutto genericamente e quindi in maniera inammissibile che la Corte territoriale abbia errato nel disattendere la relativa eccezione e poi censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (cita al riguardo Cass. 17 ottobre 2001 n. 12697) discenderebbe che l’aliunde perceptum…

non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga);

il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis cod. proc. civ.: dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto;

7. se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36; Cass. S.U. 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, 1 senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente e quindi si valuta inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.;

8. il ricorso va pertanto respinto e la società ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza, va condannata a pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 30,00, oltre Euro 2.000,00 per onorari e oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2011

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