Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24553 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/11/2020, (ud. 06/07/2020, dep. 04/11/2020), n.24553

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. TADDEI Margherita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23715-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

GI.MA. SRL, SA.FI. SRL;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2187/2015 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 03/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/07/2020 dal Consigliere Dott. TADDEI MARGHERITA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della sentenza n. 2187/33/15 della CTR Campania che, riformando la sentenza della CTP di Caserta, aveva accolto l’appello di GI.MA Srl e del rispettivo amministratore D.G. nonchè della SA.FI srl e del rispettivo amministratore D.G., contro l’avviso di rettifica e liquidazione relativo alla vendita di due terreni confinanti, effettuate con atto del 22 ottobre 2010, elevandone i valori rispettivamente da Euro 130.000,00 a Euro194.160,00 per l’uno e per l’altro da Euro 125.000,00 ad Euro188.280,00

In particolare la CTR dichiarava la nullità dell’avviso di rettifica e liquidazione per mancanza di motivazione in conseguenza della mancata allegazione degli atti utilizzati per la comparazione dei valori degli immobili similari, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 3.

Le contribuenti sono rimaste intimate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52, perchè la decisione impugnata non sarebbe allineata alla consolidata giurisprudenza di legittimità che, a norma degli artt. 51 e 52 richiede solo che si porti a conoscenza del contribuente, con l’avviso di rettifica, del criterio astratto in base al quale è stato rilevato il maggior valore, essendo riservato alla sede contenziosa l’onere di provare, in contraddittorio gli elementi giustificativi della pretesa. Nel provvedimento annullato, peraltro, erano ben individuati gli atti di comparazione ed erano stati enunciati i criteri astratti in base ai quali erano stati emessi gli avvisi.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione del D.Lgs n. 546 del 1992, art. 59 e D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 3 e art. 52, commi 1 e 2 avendo la CTR ritenuto congruo, senza procedere ad alcuna valutazione estimativa specifica degli elementi addotti dalle parti, il valore dichiarato nell’atto di acquisto.

Il ricorso è fondato sotto entrambi i profili denunciati: i motivi vanno valutati congiuntamente per l’evidente connessione logica.

Secondo la datata e mai modificata giurisprudenza di legittimità in materia di imposta di registro e catastale l’avviso di rettifica in tale materia è completo ai sensi del citato D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52 (e quindi legittimo) nel momento in cui contiene l’indicazione degli atti specifici utilizzati e gli estremi della registrazione, per consentire al contribuente che ne ha interesse di richiedere tali atti e di contestarli nel merito nella maniera più opportuna e producente. Le norme in esame abilitano l’amministrazione ad usare tali atti; il problema della loro affidabilità è problema che si pone nel giudizio, per effetto di una contestazione di tali atti da parte di chi ne subisce gli effetti negativi, e cioè da parte dei contribuenti. Ed è chiaro che l’onere di provare l’inaffidabilità, o peggio l’inconferenza di tali atti non può che gravare sul contribuente che voglia contestare appunto uno strumento previsto espressamente dalla legge. A fronte di un onere di indicazione degli atti, sorge un onere di contestazione del contenuto di tali atti. Trattandosi di atti pubblici, il privato ne può conseguire la disponibilità in ogni momento, per cui correttamente la legge non prevede per l’ufficio l’onere della allegazione (onere che non può essere introdotto dall’interprete).(cass.n. 16076/2000. Si veda anche: n. 28772/2005; n. 12741/2014; n. 13342/2017). In particolare va richiamato il chiaro dettato contenuto nella decisione n. 13342/2017, che ben individua i limiti del principio di cui all’art. 7 dello Statuto del contribuente. In particolare si evidenzia che:”…. mette conto considerare che il D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 34 prevede, al comma 2 bis, l’onere di allegazione di documenti non conosciuti nè ricevuti dal contribuente cui la motivazione fa riferimento e tale onere di allegazione non è previsto dalla norma di cui al comma 3, che prevede che l’ufficio può determinare il valore dei beni con riferimento ad atti riguardanti cespiti aventi analoghe caratteristiche. Il criterio di interpretazione sistematica della norma induce, dunque, a ritenere che l’onere della allegazione riguardi solo gli atti che costituiscono il presupposto dell’atto impositivo e che hanno riguardo al contribuente stesso e non invece gli atti riguardanti contribuenti diversi che vengono menzionati al solo fine della comparazione dei valori. Peraltro la Corte di legittimità ha già avuto modo di affermare l’insussistenza dell’obbligo di allegazione con riguardo all’imposta di registro ed all’Invim, avendo ritenuto che l’avviso di rettifica del valore degli immobili è completo (e quindi legittimo), ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 51 e 52, nel momento in cui contiene l’indicazione degli atti specifici utilizzati e gli estremi della registrazione, per consentire al contribuente che ne ha interesse di richiedere tali atti e di contestarli nel merito nella maniera più opportuna e producente. Trattandosi di atti pubblici il privato ne può conseguire la disponibilità in ogni momento, per cui correttamente la legge non prevede per l’ufficio l’onere dell’allegazione nè tale onere può essere introdotto dall’interprete (Cass. n. 28772 del 23/12/2005; Cass. n. 16076 del 22/12/2000).E’ ben vero che la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 prevede che, se nella motivazione dell’atto impositivo si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama. Tuttavia la norma non può essere intesa nel senso di imporre un onere di allegazione che aggraverebbe l’Ufficio senza che sussista la correlata esigenza di evitare il pregiudizio del diritto di difesa del contribuente. Ciò in quanto all’Amministrazione finanziaria è richiesto di porre il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali in modo che egli possa approntare la difesa senza un inesigibile aggravio. Ne deriva che la norma di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, deve essere interpretata nel senso che l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale siridacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (cfr. Cass. 11560 del 06/06/2016; Cass. n. 6914 del 25/03/2011).

In ordine alla decisione impugnata, per altro verso, va, anche, richiamato il principio fondamentale relativo alla natura del processo tributario, secondo cui l’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione (anche) del rapporto tributario (cosiddetta “impugnazione-merito”, orientata alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva dell’accertamento) e non solo dell’atto (come con la cosiddetta “impugnazione-annullamento”, orientata unicamente all’eliminazione dell’atto impugnato), imponendogli di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte: v., ex multis, Cass., nn. 16171 del 2000 e 4280 del 2001.L’inosservanza di tale principio pregiudica la legittimità della decisione determinandone l’annullamento

In conclusione deve, dunque, essere accolto il ricorso proposto, con cassazione della sentenza e non necessitando alcun accertamento in fatto, la Corte può pronunciarsi nel merito rigettando l’appello e confermando l’accertamento.

Spese del giudizio di merito compensate. Condanna gli intimati al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso dei contribuenti. Compensa le spese dei gradi di merito.

Condanna gli intimati, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 2500,00 oltre rimborso delle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 06 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

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