Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24553 del 02/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 02/10/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 02/10/2019), n.24553

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.M. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23981/2013 R.G. proposto da:

Nweb s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Domenico D’Arrigo, con domicilio

eletto presso lo studio dell’Avv. Paola Ramadori, in Roma, Via M.

Prestinari n. 13, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato

presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione distaccata di Brescia, n. 130/64/2012, depositata

il 18 settembre 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 maggio

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con avviso di accertamento, a seguito di contraddittorio preventivo, sulla base degli studi di settore ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, l’Agenzia delle entrate determinava in Euro 393.423,00 i ricavi della Nweb s.r.l. per l’anno di imposta 2004, accertando un reddito imponibile di Euro 117.983,00 a fronte di quello dichiarato di Euro 14.478,00, con una maggiore Ires di Euro 32.896,00, una maggiore Irap di Euro 4.780,00 ed una maggiore Iva di Euro 20.792,00.

2. La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso e la Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, rigettava l’appello proposto dalla contribuente.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

5. La Procura Generale ha presentato conclusioni, scritte ai sensi dell’art. 380 bis, per il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, ex art. 112 c.p.c. omessa pronuncia ex art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto la Commissione regionale non si è pronunciata sulla censura articolata sia in primo che in secondo grado relativa alla mancata motivazione dell’avviso di accertamento basato sugli studi di settore. In particolare, tale doglianza è stata presentata in primo grado, come emerge a pagina 5 del ricorso per cassazione, sicchè il motivo è autosufficiente (“tratta di frase assolutamente generica e stereotipata, in aperto contrasto con l’obbligo di motivazione degli atti sancito dalla L. n. 212 del 2000, art. 7”) e ribadita con l’atto di appello (cfr. pagina 13 del ricorso per cassazione che riporta il contenuto dell’appello “nessuna di tali circostanze emerge in modo chiaro dalla (presunta) motivazione dell’atto impugnato”). Inoltre, la ricorrente deduce che delle questioni sollevate dalla stessa, in sede di contraddittorio, non si è tenuto conto nella motivazione dell’avviso di accertamento.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la Commissione regionale, rigettando l’appello proposto dalla società, con l’esame diretto del merito della controversia, ha implicitamente disatteso la doglianza della contribuente in ordine al preteso vizio di motivazione dell’avviso di accertamento. Infatti, per questa Corte non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass., 29191/2017; Cass. 18491/2018).

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1 lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, in relazione al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies ed art. 62 bis, nonchè agli artt. 2697 – 2727 – 2729 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto nel ricorso di primo grado la società ha indicato le ragioni per cui non doveva essere applicato il cluster 3 (consulenza per la progettazione e la riprogettazione del sistema operativo), ma era più adeguato il cluster 24, tenendo anche conto che il principale cliente (Dec informatica) rappresenta il 16,43% del fatturato. Tra l’altro, la società è nata a Cremona nel 2002 e nel 2004 era, quindi, ancora nella fase di “start up”. Inoltre, gli apprendisti non hanno capacità produttiva, presso la sede di Milano sono state effettuate spese di affitto e di gestione, gran parte delle ore lavorative (circa 683) sono risultate non produttive in quanto non sempre gli strumenti costruiti possono generare ricavi nell’anno di sviluppo. La Commissione regionale, però, avrebbe violato le norme indicate in epigrafe, non valutando la documentazione prodotta sia in sede di contraddittorio che nel corso dei giudizi di primo e secondo grado. In particolare, la Commissione regionale non ha considerato che parte delle ore prestate dal personale non ha prodotto ricavi e che la sede di Milano, aperta nel 2004, ha comportato spese di acquisto dei beni strumentali e costi di gestione.

2.1. Tale motivo è infondato.

2.2. Invero, per questa Corte, a sezioni Unite, la procedura di accertamentò tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass. Civ., 18 dicembre 2009, n. 26635).

2.3. Nella specie, il contraddittorio è stato espletato, è stato persino consentito alla società, prima di presentare con ritardo nel 2006 (3-10-2006) lo studio di settore relativo all’anno 2004, poi di modificarne i dati (il 26-10-2007), quindi di partecipare al contraddittorio con il deposito di documentazione da parte della società (n ed il 19 dicembre 2009).

La Commissione regionale ha chiarito le ragioni per cui non sono state ritenute fondate le doglianze della società avverso l’avviso di accertamento, in quanto a fronte di un volume di affari di Euro 304.810,00 il reddito di impresa era di Euro 18.297,00 (“La documentazione versata in causa, elencata anche nell’allegato n. 19 del ricorso introduttivo, non è sufficiente per dimostrare quanto dichiarato e soprattutto la ridotta o scarsa attività svolta dalla contribuente nell’anno 2004. Infatti a fronte di un volume d’affari pari ad Euro 304.810,00 il reddito d’impresa risulta pari ad Euro 18.297,000. L’appellante si è limitata a produrre soltanto dei riepiloghi contabili delle fatture emesse, della tipologia della clientela e della ripartizione territoriale della stessa, la copia del libro dei cespiti ammortizzabili e del bilancio di verifica, senza produrre tutta la documentazione contabile, fiscale, amministrativa di supporto a quanto versato in causa, quindi non ha posto il collegio giudicante nelle condizioni di prendere piena cognizione di tutta la documentazione ritenuta probatoria, utile e necessaria ai fini del decidere. Pertanto la parte contribuente non ha ottemperato all’obbligo di provare la fondatezza di quanto dichiarato in opposizione a quanto accertato con strumenti aventi fondamenti legali, quali sono gli studi di settore, approvati dal legislatore, quindi pienamente legittimi”).

2.4. La ricorrente, intende, quindi, riproporre la valutazione degli elementi di prova già esaminati dal giudice di appello, chiedendo una nuova e diversa delibazione degli stessi, non consentita in questa sede.

2.5. Invero, la denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. può essere, poi, prospettata sotto più profili (Cass. Civ., sez. un., 24 gennaio 2018, n. 1785). Il giudice di merito può affermare che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precisi e concordanti, incorrendo in un errore di diretta violazione della norma. Il Giudice di merito può, poi, fondare la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto alla conseguenza ignota, sì che la censura ricade ancora nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il terzo caso è quello in cui la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si concreta in una attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo, allegando una inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice, ma in tal caso la censura impinge in un apprezzamento di merito, che riguarda la quaestio facti e si pone nel solco del vizio della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Civ., sez. un., 8053 e 8054 del 2014).

2.5. Nella fattispecie in esame, la censura della ricorrente non resta nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma involge apprezzamenti di merito, non consentiti in sede di legittimità, soprattutto a fronte della modifica intervenuta sull’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. n. 83 del 2012, applicabile alla fattispecie in esame.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, ex art. 112 c.p.c. omessa pronuncia ex art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto la Commissione regionale non ha pronunciato sulla domanda di annullamento delle sanzioni per insussistenza della colpa, proposta in primo grado e reiterata in grado di appello.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la Commissione regionale, rigettando dell’appello proposto dalla contribuente, con l’esame diretto del merito della controversia, ha rigettato implicitamente la doglianza relativa alla pretesa assenza di colpa (Cass., 29191/2017; cass., 18491/2018).

4.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente per il principio della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

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