Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2454 del 29/01/2019

Cassazione civile sez. VI, 29/01/2019, (ud. 19/12/2018, dep. 29/01/2019), n.2454

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3892-2018 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

MANGILI 29, presso lo studio dell’avvocato FERRUCCIO MARIA DE

LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato PATRIZIA KIVEL MAZUY;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA SANTA LUCIA SRL, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE

CLODIA 86, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO MARTIRE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato UMBERTO ICOLARI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 17912/2017 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 20/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 19/12/2018 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO.

Fatto

RILEVATO

che:

S.G. chiese al Tribunale di Napoli che fosse accertata la sussistenza un rapporto di lavoro subordinato, quale aiuto medico presso il reparto di terapia intensiva cardiologica, con la Casa di cura Santa Lucia Srl e che questa fosse condannata al pagamento in suo favore di differenze retributive;

il Tribunale accolse la domanda ma la Corte d’appello di Napoli, accogliendo l’appello della Casa di cura, riformò la sentenza e rigettò la sua domanda;

lo S. propose ricorso per cassazione e questa Corte con sentenza pubblicata in data 2017 lo rigettò;

a fondamento del decisum la Corte ritenne che i motivi, trattati congiuntamente, fossero infondati perchè sostanzialmente richiedevano una nuova “valutazione di specifiche questioni di fatto in punto di osservanza da parte del ricorrente di turni predisposti, di sua sottoposizione alle direttive dei responsabili preposti dal datore di lavoro, di obbligo di presenza, di modalità di liquidazione dei compensi – che, attenendo al piano della ricostruzione della fattispecie concreta, possono essere esaminate in questa sede nei limiti del vizio della motivazione – ex art. 360 c.p.c., n. 5, – ma non anche sotto il profilo del vizio di “sussunzione” ex art. 360 c.p.c., n. 3, ovvero di non corretta applicazione dell’art. 2094 c.c.”;

contro la sentenza lo S. propone ricorso per revocazione dell’art. 391 bis c.p.c. e dell’395 c.p.c., comma 1, n. 4; la Casa di cura resiste con controricorso;

la proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

La revocazione è richiesta sulla base dell’asserita erroneità della decisione della Corte di cassazione, nella parte in cui ha supposto come veritiere alcune circostanze di fatto in realtà incontrastabilmente escluse, e cioè che i compensi mensili erano variabili e che i turni di lavoro erano predisposti dagli stessi sanitari e revocabili senza alcuna necessità di giustificazione;

al contrario gli ordini di servizio del 1998, dai quali emergeva la sottoposizione del dottor S. alle direttive e ai controlli di superiori gerarchici e la sua soggezione a turni fissi e predeterminati, e la fatturazione mensile, da cui risultava la misura fissa della remunerazione, costituivano elementi che avrebbero dovuto essere adeguatamente considerati, anche in ragione della natura intellettuale della prestazione, e che avrebbero dovuto condurre all’accertamento della subordinazione;

sotto un secondo profilo, e in subordine alla richiesta di revocazione sollevata in via principale, il ricorrente solleva il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 360, c.p.c., n. 5, nella formulazione precedente alla riforma di cui al D.L. n. 83 del 2012, per violazione dei principi di cui agli artt. 2,4,10,24,35,36 e 111 Cost. “nell’ipotesi in cui venga considerato ostativo alla possibilità di accertare l’errore revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, (che notoriamente attiene ad un “fatto” di causa e non alla “motivazione” della sentenza), rendendo di fatto inutilizzabile il rimedio di cui all’art. 391 bis c.p.c., è invece previsto proprio avverso le sentenze di cassazione, anche per quelle emesse in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 360 c.p.c., previgente alle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012″;

il ricorso è inammissibile;

per costante giurisprudenza di questa Corte, in base all’art. 391 bis c.p.c., la revocazione di una sentenza emessa dalla Corte di cassazione può essere chiesta solo se essa sia affetta da errore di fatto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4); l’errore di fatto che può dare luogo alla revocazione di una sentenza consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa sostanziantesi nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto la cui verità risulti, invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata in base al tenore degli atti o dei documenti di causa, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata abbia statuito (Cass., 1 marzo 2005, n. 4295; Cass., 28 giugno 2005, n. 13915; Cass., 20 aprile 2005, n. 8295).

l’errore di fatto non è quindi ravvisabile nell’ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali, ossia di una (asseritamente) viziata valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione;

pertanto l’errore di fatto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa da parte del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico – giuridico (Cass., Sez. Un., ord. 30/10/2008, 26022; Cass., 9 dicembre 2013, n. 27451; Cass., 22 giugno 2007, n. 14608);

deve aggiungersi che eventuali errori o incompletezze della menzionata attività di disamina svolta da questa Corte attengono solo alla valutazione e al giudizio in ordine al contenuto del ricorso che non possono formare oggetto del rimedio straordinario della revocazione, concesso solo per errori di fatto propriamente detti (Cass., 22 giugno 2007, n. 14608);

da quanto precede, discende l’impossibilità di configurare un qualsivoglia errore revocatorio nel giudizio espresso da questa Corte nell’impugnata sentenza, la quale – nell’esaminare il terzo motivo di ricorso, prospettato sub specie del vizio di motivazione – ha specificamente considerato le disposizioni aziendali del 1998 e le ha ritenute prive di rilievo decisivo, precisando che il loro contenuto non denotava in sè l’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, potendo essere lette anche quale espressione di un potere di coordinamento dell’attività del ricorrente rispetto a quella degli altri collaboratori della struttura;

con riferimento al secondo motivo di ricorso, concernente l’organizzazione dei turni di lavoro, la Corte di cassazione, nella sentenza di cui si chiede la revocazione, ha esaminato la questione dell’autogestione dei turni da parte dei medici, affermando che “il ricorrente si limita a riportare lo stralcio di una deposizione testimoniale (teste F.) diversa da quelle utilizzate in sentenza (testi A., R., C.)”;

altrettanto è a dirsi con riguardo all’asserita natura fissa del compenso, che ha costituito oggetto del primo motivo di ricorso sub specie del vizio di violazione di legge (e prima ancora del quarto motivo di appello:

pagina 4 del presente ricorso, in cui si dà atto che con il quarto motivo di appello la casa di cura aveva negato che lo S. avesse percepito un compenso fisso e costante): la Corte di cassazione ha preso atto dell’accertamento in fatto compiuto dalla corte territoriale, dovendosi altresì specificare che dalla lettura della sentenza emerge come tale la natura fissa dei compensi ha costituito solo uno degli elementi sussidiari valutati ai fini della qualificazione del rapporto;

essa, dunque, non ha assunto valore decisivo ed esclusivo nella formazione del giudizio sulla qualificazione del rapporto, bensì di elemento valutato dalla corte territoriale nel quadro complessivo degli elementi istruttori, senza che possa apprezzarsene la decisività, elemento questo indispensabile ai fini dell’ammissibilità della revocazione (Cass. 31/10/2017, n. 25871; Cass. 25/03/2013, n. 7413); emerge così evidente che, con riguardo a tali circostanze di fatto, si è in presenza di una vera e propria attività valutativa e non già della erronea supposizione dell’esistenza di un fatto incontrovertibilmente escluso dagli atti del processo;

sono manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, per il vero in modo non del tutto chiaro, dal ricorrente;

la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 395,391 bis e 391 ter c.p.c., in riferimento agli artt. 2,3,11,24,101 e 111 della Costituzione ed in relazione all’art. 6 della CEDU, nella parte in cui non ammettono la revocazione delle sentenze di legittimità della Corte di cassazione per pretesi errori di diritto o di fatto, diversi dalla mera svista su questioni non oggetto della precedente controversia, è stata già oggetto di delibazione da parte di questa Corte (Cass. 29/4/2016, n. 8472), che l’ha ritenuta manifestamente infondata ed ha altresì escluso la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E., sul presupposto che la non ulteriore impugnabilità risponde all’esigenza, tutelata come primaria dalle stesse norme costituzionali e convenzionali, di conseguire il giudicato all’esito di un sistema strutturato anche su differenti impugnazioni, con l’immutabilità e definitività della pronuncia che tutela i diritti delle parti;

dall’inammissibilità del ricorso discende la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata nel dispositivo;

poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 200,00 per esborsi e Euro 4000,00 per compensi, oltre al rimborso forfettario del 15% delle spese generali e agli altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 19 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2019

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