Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24528 del 02/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 02/10/2019, (ud. 26/11/2018, dep. 02/10/2019), n.24528

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25124-2012 proposto da:

F.G., F.M., domiciliati in ROMA P.ZZA CAVOUR presso

la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’Avvocato GIORGIO GENTILLI (avviso postale ex art. 135) giusta

delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI TORINO, AGENZIA DELLE

ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 33/2012 della COMM.TRIB.REG. del PIEMONTE,

depositata il 10/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/11/2018 dal Consigliere Dott. FRASCA RAFFAELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordine rigetto, accoglimento per guanto di ragione esclusivamente

all’appello incidentale;

udito per i ricorrenti l’Avvocato PAZZAGLIA per delega dell’Avvocato

GENTILLI che ha chiesto l’accoglimento.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. F.M., “in proprio e quale ex socio accomandatario e legale rappresentante della Felcam s.a.s. di F.M. & C.”, e F.G. hanno proposto ricorso contro l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Torino II e l’Agenzai delle Entrate, avverso la sentenza n. 33/26/12 del 10 aprile 2012, con la quale la Commissione Tributaria Regionale di Torino ha: a) dichiarato inammissibile l’appello principale che ha indicato come proposto dalla Felcam s.a.s., da F.G. e da F.M. avverso la sentenza resa in primo grado dalla Commissione Tributaria Provinciale di Torino; b) accolto l’appello incidentale dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Torino II.

2. La decisione appellata, provvedendo su tre ricorsi riuniti, l’uno proposto dalla società con riferimento ad un avviso di accertamento per IVA e IRAP relativi al 2004, gli altri due dai due soci relativamente a tre avvisi di accertamento inerenti IRPEF, addizionale comunale e addizionale regionale sempre per il 2004, aveva parzialmente accolto i ricorsi annullando il recupero a tassazione in capo alla società e con effetti derivati in capo ai soci per l’importo di Euro 18.190,17.

3. In chiusura dell’esposizione del fatto i ricorrenti hanno dichiarato che la Felcam s.a.s. è stata cancellata dal Registro delle Imprese il 4 novembre 2011, a causa della mancata ricostituzione della pluralità dei soci ed hanno addotto di avere interesse a proporre il ricorso “subendo essi i pregiudizievoli effetti della sentenza gravata, pronunciata nei confronti dei contribuenti”.

4. Al ricorso per cassazione, che propone quattro motivi, non v’è stata resistenza.

5. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione o falsa

applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, artt. 331,332 c.p.c. e art. 350 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 ed omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Vi si deduce che, ancorchè la sentenza impugnata indichi di avere pronunciato nei confronti dei “contribuenti” e rechi nella intestazione l’indicazione come “ricorrenti” sia della Felcam s.a.s. in persona del suo legale rappresentante F.M., di costui in proprio e di F.G., in realtà l’appello principale era stato proposto dal solo F.M. nella sua qualità di legale rappresentante della Felcam s.a.s. e non era stato notificato nè al F.M. in proprio nè al F.G.. Allo stesso modo l’appello incidentale non era stato notificato ai due soci. Tanto integrerebbe la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, là dove prescrive che il ricorso in appello deve notificarsi a tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, sia degli artt. 331 e 332 c.p.c., applicabili ai sensi del citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49. Si lamenta in conseguenza che erroneamente la C.T.R., risultando i soci almeno litisconsorti necessari processuali, non avrebbe ordinato l’integrazione del contraddittorio sia sull’appello principale sia su quello incidentale.

Da tanto si fa discendere la nullità della sentenza quanto alla decisione resa su entrambi gli appelli.

1.1. Va premesso che il significato che assume la prospettazione del motivo non è nel senso di postulare che la sentenza sia stata emessa a contraddittorio non integro, bensì che sia stata emessa a contraddittorio almeno formalmente integro, cioè nei confronti di tutte le parti con il cui coinvolgimento l’appello doveva svolgersi, ma senza che due di esse, cioè i soci, avessero ricevuto la notificazione dell’appello principale e nemmeno – come sarebbe stato necessario in mancanza di notifica del primo – dell’appello incidentale.

Si denuncia, dunque, non già che la sentenza sia stata pronunciata a contraddittorio non integro, bensì che nei confronti di due dei contraddittori sia mancata la notificazione dell’atto di appello principale ed anche in via gradata, mancando quella, di quello incidentale.

Tale assunto, peraltro, è sostenuto deducendosi che l’appello principale sarebbe stato proposto dal legale rappresentante della Felcam e che l’appello non veniva notificato ai due soci.

1.2. Tale deduzione implica solo con certezza che secondo i ricorrenti, l’appello sarebbe stato proposto soltanto dalla società, mentre non implica e dunque non dà contezza nè che esso, pur proposto solo dalla società, non fosse stato proposto, oltre che contro l’Ufficio, anche in confronto dei due soci (secondo i requisiti indicati per la forma dell’appello dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1).

Ebbene l’unica implicazione desumibile con certezza dalle deduzioni del motivo, cioè che l’appello era stato proposto come ricorrente solo dalla società e non anche dai soci, evidenzia l’asserto dell’esistenza di un fatto processuale che si pone in totale contrasto con un fatto processuale enunciato dalla sentenza impugnata.

Quest’ultima, infatti: aa) nella sua intestazione, che è parte del tessuto enunciativo di cui si compone, indica di pronunciare sull’appello contro la sentenza di primo grado “proposto dai ricorrenti” Felcam s.a.s., di cui precisa essere legale rappresentante F.M., F.G. (che nomina come socio) e F.M. (che indica nuovamente come legale rappresentante); bb) nel diciassettesimo rigo dello “svolgimento del giudizio e dei motivi della decisione” alla terza pagina espressamente dice che: “appellano società e soci”.

1.3. La sentenza impugnata in ben due parti afferma claris verbis che l’appello principale era stata proposto sia dalla società sia dai soci.

Il modo di censurare tale duplice affermazione, in quanto contrastante con il contenuto dell’appello quanto alla parte che lo aveva proposto/ era il mezzo dell’impugnazione per revocazione ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, comma 1, nel testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 9, comma 1, lett. cc). Invero, la detta duplice affermazione supponeva lo svolgimento di un “accertamento di fatto” (secondo la formulazione del detto art. 64, comma 1) relativo all’individuazione del soggetto proponente il ricorso in appello in via principale. Il motivo di ricorso in esame si risolve nella deduzione che la CTR avrebbe eseguito tale accertamento in modo contrastante con quanto emergeva dal detto ricorso. Ne segue che quello che qui si denuncia è la supposizione di un fatto la cui verità si assume incontrastabilmente esclusa dal tenore dell’atto in cui la CTR l’avrebbe rinvenuto. Si denuncia, dunque, un vizio revocatorio ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 e ricorre, proprio per l’indicata natura, la sua palese non riconducibilità sia ad un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, sia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo applicabile al ricorso, ricorrendo per tale ragione l’estremo della “non ulteriore impugnabilità”, che l’art. 64, comma 1 applicabile nella specie esigeva (e su cui si vedano: Cass. n. 19522 del 2008 e, da ultimo, Cass. n. (ord.) n. 22385 del 2017; nel caso di specie, invece, non viene in rilievo Cass. (ord.) n. 12784 del 2018, la quale, del resto, omette completamente di considerare se il vizio che era stato denunciato con la revocazione quando la sentenza era ancora impugnabile con il ricorso per cassazione sarebbe stata deducibile con il ricorso per cassazione).

1.4. Il motivo di ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile sulla base del seguente principio di diritto: “la sentenza della CTR che sia nell’intestazione sia nella motivazione affermi che l’appello su cui ha deciso è stato proposto sia dalla società di persone sia dai soci, nei cui confronti era stata pronunciata la sentenza di primo grado, qualora si intenda sostenere che al contrario l’appello era stato proposto solo dalla società e non anche dai soci, dev’essere impugnata con il mezzo della revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4. Ne discende che ove, come nella specie, venga impugnata con ricorso per cassazione dai soci per essersi la società cancellata dal registro delle imprese, deducendosi che sarebbe stata emessa in violazione della integrità del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., il motivo di ricorso, avendo nel suo effettivo contenuto, cioè nella deduzione che l’appello era stato proposto solo dalla società, natura revocatoria, è inammissibile.”.

1.5. Il motivo risulterebbe, comunque, se non fosse revocatorio, ulteriormente inammissibile anche per evidente difetto di assolvimento dell’onere del requisito della chiarezza e risulta inidoneo in conseguenza ad evidenziare il motivo di ricorso per cassazione che si prospetta contro la sentenza impugnata, in quanto la Corte non è messa in grado di comprendere se i ricorrenti intendano sostenere, piuttosto che l’appello non fosse stato proposto se non dalla società, invece che l’appello della società non indicava come parti contro cui era proposto i soci e che conseguentemente la stessa società non ne avesse fatto notifica ad essi oppure che il detto appello li indicava come parti in confronto delle quali l’appello della società era proposto ma non ne avesse fatto la notificazione. Detta mancanza di chiarezza si accompagna, poi, all’omessa riproduzione diretta od indiretta, con rinvio in questo secondo caso alla parte dell’atto di appello corrispondente, del contenuto di esso quanto alla indicazione sia di chi l’avesse proposto sia di coloro contro o nei confronti dei quali era stato proposto, nonchè della relativa relata di notificazione.

Sicchè è violato anche l’art. 366 c.p.c., n. 6.

Queste osservazioni si svolgono per mera completezza, ove si volesse attribuire una qualche rilevanza alla indicazione nella intestazione della sentenza come ricorrente, in aggiunta alla indicazione come ricorrente della Felcam s.a.s. come da lui rappresentata, di F.M. non quale socio ma come legale rappresentante e sempre che non fosse esaustiva l’espressa affermazione della proposizione dell’appello anche da parte dei soci.

1.6. Il consolidarsi della sentenza quanto all’essere stata pronunciata pure su un appello principale riferibile ai soci elide ogni rilievo sulla circostanza che l’appello incidentale non fosse stato notificato ad essi: esso non doveva esserlo in quanto proponenti, secondo la sentenza, l’appello principale.

2. Con il secondo motivo si deduce “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 ed omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Il motivo si duole della valutazione con cui la CTR ha detto inammissibile l’appello principale e sostiene, evocando precedenti di giurisprudenza sull’onere di specificità dei motivi di appello, che esso era specifico.

Il motivo – al di là della deduzione anche sotto il paradigma del n. 5, che non è rilevante quando si denuncia la violazione di una norma del procedimento – è inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c.

E’ principio consolidato quello secondo cui “Anche là dove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. (In applicazione di questo principio, la S.C. ha affermato che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo).” (Cass. n. 12664 del 2012).

Nel caso di specie l’illustrazione del motivo omette anche la benchè minima riproduzione indiretta del contenuto dell’atto di appello per evidenziare che esso rispettasse la specificità.

2.1. Omette, inoltre, di riprodurre direttamente od indirettamente con rinvio all’atto ed indicazione della parte di esso riprodotta indirettamente la sentenza di primo grado riguardo alla quale era stato svolto l’appello. Quando si sostiene che l’appello era specifico, poichè l’appello era rivolto a criticare la sentenza impugnata di primo grado, è palese che per apprezzare se esso era specifico (concetto nel quale è immanente pure la pertinenza con la motivazione della sentenza impugnata) il ricorrente deve dar conto della motivazione della sentenza appellata.

Si aggiunga che il motivo si disinteressa anche della specifica motivazione enunciata dalla sentenza a pagina 4 nei righi dal decimo al tredicesimo, là dove essa ha detto che l’impugnazione risultava rivolta contro gli avvisi di accertamento.

3. Con il terzo motivo si deduce “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 ed omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Vi si impugna la sentenza della CTR là dove ha ritento che erano state introdotte nel secondo grado di giudizio “questioni proposte per la prima volta (nella fattispecie L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7)”.

L’illustrazione della censura si risolve nell’assertoria affermazione che “in verità, parte appellata non ha affatto proposto domande nuove nè modificato la causa petendi, essendosi limitata a meglio precisare, anche con riferimento alla norma citata un motivo d’opposizione già proposto in prime cure (volto a far valere i vizi del contraddittorio), a ciò dovendosi aggiungere che la eccepita nullità è rilevabile d’ufficio”.

Tale asserto è del tutto generico, là dove non indica dove la violazione della norma evocata era stata fatta valere come motivo di impugnazione in primo grado, in tal modo violando l’art. 366 c.p.c., n. 6.

Inoltre, là dove adombra la rilevabilità d’ufficio si scontra con il principio di diritto secondo cui: “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il vizio dell’avviso di accertamento derivante dall’inosservanza del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non è rilevabile d’ufficio e deve essere contestato dal contribuente nel ricorso introduttivo, riguardando la violazione di una norma posta a difesa del diritto dello stesso contribuente al pieno dispiegarsi del contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria e considerata la natura recettizia dell’atto impositivo tributario da porsi in relazione con il suo duplice scopo di impedire la decadenza dell’Amministrazione predetta dalle potestà di accertamento e di riscossione dei tributi e di porre la parte in grado di contestare, anche in sede giudiziaria, la pretesa tributaria. Ne consegue che, poichè il tema dei vizi delle notificazioni degli atti impositivi risulta strettamente correlato a quello del tempestivo e regolare esercizio dell’azione tributaria entro i termini decadenziali previsti dalla legge, e che l’inutile decorso di tali termini non estingue il potere impositivo ma obbliga l’Amministrazione finanziaria a non esercitarlo, il vizio dell’atto impositivo non è rilevabile d’ufficio ma deve essere eccepito dal contribuente.” (Cass. n. 14395 del 2017; conf. Cass. n. 28555 del 2017).

4. Con il quarto motivo si denuncia “violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Il motivo censura la motivazione della sentenza impugnata relativa all’accoglimento dell’appello incidentale e si risolve nella postulazione che la C.T.P. aveva enunciato una motivazione corretta sul punto, considerando assolti gli oneri probatori a carico del contribuente sulla base di una serie di elementi probatori, i quali vengono indicati nell’illustrazione in modo generico e senza il rispetto degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6.

Il motivo è per tale ragione inammissibile.

Inoltre, la sua illustrazione si risolve nella sollecitazione di questa Corte a svolgere il sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 al di fuori del limite della decisività e postulando solo l’apprezzamento delle risultanze probatorie in modo semplicemente diversa da come le ha valutate la CTR.

In proposito, si ricorda che “In tema di ricorso per cassazione, il riferimento – contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 applicabile “ratione temporis”) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della “quaestio fatti” fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione.” (Cass. n. 17037 del 2015).

Quanto alla deduzione della violazione dell’art. 2697 c.c. essa non è articolata secondo i criteri indicati da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016, la quale ha precisato (vedi motivazione) che “La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni”, non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. n. 13395 del 2018; adde, da essa richiamate, ex multis: Cass. n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2017 e n. 4241 del 2018).

5. L’inammissibilità di tutti i motivi induce quella del ricorso.

Non è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria il 26 novembre 2018.

Depositato in cancelleria il 2 ottobre 2019

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