Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24506 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. I, 04/11/2020, (ud. 07/10/2020, dep. 04/11/2020), n.24506

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 06861/2019 proposto da:

U.R., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’Avv. Mariagrazia Marelli, del foro di Alessandria, che

lo rappresenta e difende (pec: marelli.postacert.com);

– ricorrente –

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 3125/2018 (pubbl. 16/11/2018) della Corte di

appello di Venezia;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 7/10/2020 dal Consigliere relatore Dott. Giovanni

Ariolli.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. U.R., cittadino della (OMISSIS), ricorre per cassazione avverso la sentenza n. 3125/2018 della Corte di appello di Venezia che ha respinto – con condanna alle spese e revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio – l’appello avverso l’ordinanza del tribunale di Venezia la quale aveva confermato il diniego della Commissione territoriale della sua domanda avente ad oggetto in via gradata il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria; svolgendo sette motivi ne chiede l’annullamento.

2. Non si è costituito il Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il primo motivo, con cui si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile. La censura attiene anzitutto alla parte della sentenza impugnata in cui le dichiarazioni rese dal ricorrente, ai fini della concessione dello status di rifugiato, vengono ritenute generiche, inverosimili e contraddittorie. Al riguardo, questa Corte ha chiarito come “In tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati; la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503) e “In materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona; qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass., n. 16925/2018; e v. Cass., n. 3340/2019, fra le molte).

Nel caso in esame, la sentenza impugnata, mediante una valutazione unitaria delle dichiarazioni rese, ha rilevato come le incongruenze o le discrasie del racconto del richiedente attenessero ad aspetti non affatto secondari della vicenda, involgendo, al contrario, elementi fattuali di pregnante significato, con particolare riguardo al momento della fuga dalla città ove egli si sarebbe rifugiato a cagione della sua condizione di omosessualità, nonchè alle circostanze in cui sarebbe stato ucciso il suo compagno. Parimenti si è osservato con riferimento alle modalità, del tutto singolari, della fuga, che sarebbe avvenuta a bordo di un taxi, dopo avere subito un sequestro di persona ed essere il suo compagno ucciso con armi bianche.

Nè risultano idonei a colmare le contraddizioni e le lacune del dichiarato, i documenti allegati dal ricorrente ai fini della veridicità della condizione di fatto (omosessualità) su cui si innesta il suo racconto, in quanto la sentenza impugnata, con motivazione congrua e scevra da vizi logici, ne ha escluso la rilevanza vuoi perchè strumentali, in quanto coincidenti con la promozione dell’iniziativa giudiziaria, vuoi perchè obiettivamente falsi in quanto confezionati ad arte al fine di creare un’artificiosa realtà fattuale a sostegno di quanto narrato (si tratta della produzione di una pagina di giornale ove l’articolo originale è stato sostituito con una notizia della ricerca del ricorrente da parte della Autorità e con la sua foto; vedi pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata ove sono evidenziate anche a carattere grafico le manipolazioni della pagina del quotidiano prodotto).

Posto che il giudice del merito ha ben evidenziato le molteplici anomalie che inducono ad escludere la conformità del documento all’originale (dimensioni dei caratteri, impaginazione dell’articolo, uso della lingua inglese, esito negativo della comparazione con l’originale che non reca alcuna traccia di tale notizia, ecc.), il ricorrente ha anche censurato il giudizio sull’attendibilità del dichiarato, adducendo una sorta di “condizionamento” che il giudice del merito avrebbe subito nella sua valutazione in forza del riscontro negativo derivante dalla ritenuta falsità del documento prodotto. In realtà, osserva il Collegio come dalla lettura della sentenza impugnata emerga l’esatto contrario. La Corte territoriale, infatti, ha dapprima valutato quanto dal ricorrente narrato e, poi, nell’ottica di una valutazione unitaria degli elementi di prova offerti, ha verificato se le informazioni documentali allegate potessero colmare le lacune e le contraddizioni del narrato, pervenendo ad un giudizio di esclusione dell’attendibilità complessiva conforme ai canoni della logica e della pertinenza.

Il documento falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, diversamente da quello non provato, può essere legittimamente apprezzato dal giudice del merito ai fini dell’esclusione della veridicità del racconto, in quanto è sintomatico del tentativo del richiedente la protezione internazionale di sottrarsi all’accertamento della verità ad opera del giudice, in violazione dei canoni di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.. E ciò tanto più quando la falsità riguarda un aspetto che attiene ai presupposti di fatto si cui il ricorrente fonda la domanda di protezione.

Di conseguenza, parimenti manifestamente infondata si rivela la censura di mancata attivazione ad opera del giudice di merito dei poteri officiosi di cooperazione istruttoria, in quanto tale indagine avrebbe dovuto riguardare l’accertamento – rectius l’integrazione probatoria – di fatti già smentiti sulla base delle non credibili affermazioni dell’interessato. La valutazione di credibilità soggettiva precede, infatti, il dovere informativo officioso, potendo concorrere a definirne il contenuto, in correlazione con i fatti allegati ed anche ad escluderne la necessità (Cass. n. 33096/2018; n. 4892/2019; 15794/2019).

4. Il secondo motivo con cui si denuncia “la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. f), artt. 5, 7 e art. 8, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, con riferimento al diniego dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, è manifestamente infondato in quanto si fonda e muove da un presupposto di fatto (orientamento omosessuale del ricorrente) che risulta essere stato motivatamente escluso dalla sentenza impugnata.

5. Con il terzo motivo si deduce “la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e art. 14, lett. b) e c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5” con riguardo al diniego della protezione sussidiaria.

Quanto all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), la censura è manifestamente infondata per le ragioni indicate al motivo precedente.

Quanto all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la sentenza impugnata ha escluso, richiamando affidabili ed aggiornate fonti informative di carattere internazionale, che nella Regione di provenienza del ricorrente sussista un pericolo oggettivo di violenza indiscriminata non controllabile dalle autorità statali contro la popolazione civile. Secondo la giurisprudenza di questa Corte il riferimento, operato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, alle c.d. fonti informative privilegiate, va interpretato nel senso che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione internazionale (Cass. n. 13452/2019). Al fine di ritenere adempiuto tale onere, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente (come ha fatto) le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312/2019);

correttamente, dunque, la Corte di appello ha operato un preciso riferimento alle fonti consultate, con la conseguenza che la censura mossa si risolve in un’alternativa di merito non consentita in questa sede (in termini Cass., ord. n. 20122 del 2020).

6. Con il quarto motivo si lamenta “la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”.

Il motivo – che attiene al mancato riconoscimento della protezione umanitaria – è manifestamente infondato sotto diversi profili.

La natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123/19). Va da sè, nella specie, che in difetto di un’autonoma allegazione di fatti diversi da quelli posti a base della domanda di protezione sussidiaria, il Tribunale non dovesse valutare sub specie di protezione umanitaria quegli stessi fatti che aveva appena giudicato non plausibili nella loro allegazione, così restando correttamente assorbito ogni loro esame ulteriore.

Quanto alla mancata considerazione congiunta del percorso d’integrazione del richiedente e del raffronto tra la situazione generale del Paese di provenienza, deve osservarsi che tale comparazione presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19, ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a carico del richiedente la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass. n. 4455/18). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere.

Nello specifico, il ricorrente fonda la situazione di vulnerabilità sulla persecuzione che subirebbe a cagione della sua omosessualità, orientamento sessuale che, invece, per quanto osservato sub 4, non solo non risulta provato, ma motivatamente escluso dalla sentenza impugnata.

Peraltro, la Corte di merito, ha anche ritenuto l’irrilevanza, ai fini della concessione della protezione umanitaria, di quegli elementi fondanti un’assunta integrazione sociale (svolgimento recente di attività lavorativa nel settore agricolo e della disponibilità manifestata al lavoro e alle attività formative), poichè tali soli fatti non valgono a dimostrare un già avvenuto inserimento socio-lavorativo, ma solo l’inizio del relativo percorso. Peraltro, posta l’esclusione di una situazione personale di vulnerabilità, il dedotto inserimento sociale in Italia, anche laddove avvenuto, non potrebbe mai essere isolatamente ed astrattamente considerato ai fini della concessione della speciale forma di protezione richiesta, altrimenti confondendosi piani e presupposti dei diversi permessi all’uopo stabiliti (Cass. S.U. n. 29459 del 2019).

Nè decisiva ai fini dell’integrazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria risulta la generica deduzione relativa alle drammatiche vicissitudini che il ricorrente avrebbe vissuto in Libia (ove il ricorrente sarebbe stato catturato per un mese e mezzo poi vendo liberato e poi picchiato dal datore di lavoro), tenuto conto che, al riguardo, questa Corte ha affermato che il trascorso nel Paese di transito può rilevare ai fini del giudizio di vulnerabilità solo in situazioni particolari (cfr. Cass. n. 2558/20; n. 1104/20 e n. 20896/2020) e sempre sul presupposto di specifiche allegazioni circostanziali, che condizionano l’esercizio dei poteri di cooperazione istruttoria del giudice (Cass. n. 30105/18). Peraltro, la doglianza finisce col censurare la motivazione della sentenza impugnata (sotto il profilo della carenza), vizio non deducibile in questa sede.

Con riguardo, poi, all’esclusione della c.d. vulnerabilità di ritorno a causa della situazione generale del Paese di origine, la sentenza impugnata ha escluso, con motivazione congrua che richiama affidabili ed aggiornate fonti informative di carattere internazionale, che nella Regione di provenienza del ricorrente (Edo State) sussista un pericolo oggettivo di violenza indiscriminata non controllabile dalle autorità statali contro la popolazione civile.

Per completezza, poi, va anche evidenziato che il ricorrente inserisce nel corpo del motivo anche un’ulteriore censura, avente carattere preliminare, sull’inapplicabilità retroattiva delle norme di cui al D.L. n. 113 del 2018 (emanato nelle more del presente giudizio). Si tratta, però, di una doglianza inammissibile per carenza di interesse, in quanto la Corte territoriale – in conformità all’orientamento di legittimità (Cass. n. 4890/2019) – ha escluso la speciale forma di protezione richiesta in ragione dell’assenza dei relativi presupposti, così applicando le disposizioni previgenti alla luce del fatto che la domanda di protezione è stata presentata in data 4.8.2015 e tutt’ora sottoposta al vaglio dell’autorità giudiziaria.

7. Con il quinto motivo si deduce la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5″. Il motivo – che attiene alla revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio, avendo la Corte di appello ravvisato profili di colpa grave nella proposizione dell’impugnazione – è inammissibile. Questa Corte ha, infatti, al riguardo affermato che l’adozione del provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato con la pronuncia che definisce il giudizio di merito, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non ne comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 dello stesso D.P.R., dovendosi escludere che quel provvedimento sia impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione (ex multis, Cass. 10487/2020).

8. Con il sesto motivo di deduce la violazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, sul rilievo che “carente” sarebbe la motivazione spesa dalla Corte territoriale che avrebbe accollato le spese in ragione della soccombenza. La censura è inammissibile poichè si prospetta un vizio della motivazione non consentito in questa sede.

9. Con il settimo motivo si lamenta “la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. La censura, relativa al disposto raddoppio del contributo unificato, è inammissibile. Al riguardo, questa Corte ha affermato che la declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in ragione dell’integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, non ha natura di condanna – non riguardando l’oggetto del contendere tra le parti in causa – bensì la funzione di agevolare l’accertamento amministrativo; pertanto, tale dichiarazione non preclude la contestazione nelle competenti sedi da parte dell’amministrazione ovvero del privato, ma non può formare oggetto di impugnazione (Cass. 29424/2019). Inoltre, a conferma dell’insuscettibilità di tale statuizione ad essere impugnata con il ricorso per cassazione, questa Corte ha anche evidenziato come la condanna al raddoppio del contributo unificato non è collegata al regolamento delle spese ma costituisce un’obbligazione che nell’ambito dei procedimenti assoggettati a contributo unificato – consegue al rigetto integrale o alla definizione in rito quale automatica conseguenza sfavorevole dell’azionamento del diritto di impugnare, con la conseguenza che trattandosi di un’obbligazione tributaria, il credito della relativa somma e la titolarità del procedimento per la relativa riscossione spetta all’Erario, che non è parte in causa, mentre la controparte del giudizio di merito è ad essa del tutto indifferente (Cass. n. 15166/2018; n. 13935/2017; n. 23281/2017).

10. In conclusione va, pertanto, dichiarata l’inammissibilità del ricorso. Nulla per le spese non avendo l’Amministrazione intimata svolto attività difensiva.

11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

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