Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24501 del 21/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/11/2011, (ud. 27/10/2011, dep. 21/11/2011), n.24501

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12856-2009 proposto da:

C.M., C.C., M.F.,

C.S., nella qualità di eredi di C.

A., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GAVORRANO 12

SC. B INT. 4, presso lo studio dell’avvocato GIANNARINI MARIO,

rappresentati e difesi dall’avvocato RICCA LUCIO, giusta delega in

atti;

– ricorrenti –

contro

CREDITO EMILIANO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. DEPRETIS 86,

presso lo studio dell’avvocato CAVASOLA PIETRO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato IOTTI GIGLIOLA, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1318/2008 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 11/02/2009 R.G.N. 103/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/10/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato RICCA LUCIO; udito l’Avvocato IOTTI GIGLIOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 20.1.04 il Tribunale di Catania, dichiarata l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto per sommatoria intimato il 10.4.2000 dal Credito Emiliano S.p.A. ad C.A., ne ordinava la reintegra nel posto di lavoro con condanna dell’istituto di credito al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso a quella del pensionamento.

In riforma della statuizione di prime cure e in accoglimento del gravame interposto dal Credito Emiliano, la Corte d’Appello di Catania, con sentenza 4.12.08 – 11.2.09, rigettava le domande del C. (deceduto nelle more del giudizio di secondo grado).

La Corte territoriale escludeva che al lavoratore fossero state assegnate mansioni usuranti ed incompatibili con il suo stato di invalidità oltre che dequalificanti rispetto a quelle proprie del grado di vice capoufficio da lui rivestito e, contrariamente a quanto dal primo giudice ritenuto anche sulla scorta di una c.tu. medico- legale, negava anche che le mansioni espletate avessero avuto un’efficacia causale sulle assenze per malattia del C., sicchè escludeva qualsivoglia violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. da parte dell’istituto di credito, riguardo sia al profilo eziologico sia a quello soggettivo (doloso o colposo).

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono M.F. e S., M. e C.C. (eredi dell’originario ricorrente) affidandosi a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso il Credito Emiliano S.p.A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono di violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in relazione agli artt. 49, 75 e 78 CCNL 11.7.09 del settore bancario e dell’art. 1363 c.c. nella parte in cui l’impugnata sentenza, in base all’erroneo presupposto che nell’atto introduttivo di lite non fossero state indicate le mansioni svolte dal C. prima di essere adibito ad altre inferiori, dequalificanti ed usuranti, ha ritenuto impossibile tale raffronto, nonostante che le mansioni in precedenza svolte fossero, in realtà, agevolmente desumibili dagli artt. 75 e 78 cit. CCNL con riferimento al grado di vice capoufficio – area terzo livello impiegati – rivestito dal lavoratore; in particolare, detto art. 75 non consente l’attribuzione neppure occasionale di mansioni di livello inferiore, nè l’essere adibito a mansioni promiscue può risolversi in una dequalificazione del dipendente; del pari la sentenza viene censurata per aver ritenuto le mansioni di back office compatibili con la qualifica di vice capoufficio.

1.2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata pronunzia non ha esaminato la denunciata violazione dei diritti del loro dante causa a non essere adibito a mansioni dequalificanti ed usuranti, incompatibili con le malattie (diabete, ipertensione e cardiopatia) di cui soffriva, con riferimento all’intero termine esterno del comporto, vale a dire al triennio anteriore al licenziamento, limitando la propria verifica al – più breve – arco temporale successivo al trasferimento della filiale (cui era adibito il C.) dalla Deutsche Bank al Credito Emiliano; agli infausti effetti del denunciato demansionamento – proseguono i ricorrenti – sono da attribuirsi 160 giorni di assenza fra quelli cumulati dal C., detraendo i quali dal totale di assenze contestate dalla società (656) si ottiene un numero di assenze inferiore al termine interno di comporto, pari a 18 mesi.

1.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano vizio di motivazione laddove la Corte territoriale ha ritenuto le mansioni di back office, assegnate al C., di concetto anzichè meramente esecutive e nella parte in cui – travisando le risultanze testimoniali – ha asserito che solo occasionalmente gli era stato chiesto di recarsi presso gli uffici postali o presso la Banca d’Italia per spedire o consegnare plichi; ulteriore vizio di motivazione – proseguono i ricorrenti – si annida nell’aver i giudici del gravame disatteso le conclusioni del c.t.u. in ordine al rapporto causale tra le prestazioni illegittimamente pretese dall’istituto di credito e l’aggravarsi delle condizioni di salute del lavoratore, a tal fine pretendendo uno standard di “certezza relativa” piuttosto che la mera plausibile verosimiglianza riconosciuta, invece, dal c.t.u. e condivisa dal Tribunale.

1.4. Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono di violazione dell’art. 2087 in relazione agli artt. 1223 e segg. e 2697 c.c., nonchè in relazione alla L. n. 482 del 1968, art. 20, per aver l’impugnata sentenza omesso di considerare che, nel caso di specie, la condizione di invalidità del C. e le frequenti sue assenze per malattia imponevano al datore di lavoro una particolare attenzione prima di adibirlo a compiti faticosi e stressanti perchè dequalificanti.

2.1. Esaminati nel loro insieme – in quanto intimamente connessi – i motivi di doglianza che precedono, osserva la Corte Suprema che il ricorso è infondato.

Si premetta che, alla stregua delle stesse allegazioni dell’atto introduttivo della lite, le mansioni dequalificanti, usuranti e incompatibili con le condizioni fisiche del C. (diabetico, iperteso e cardiopatico), tali da provocargli non solo particolare fatica fisica, ma anche stress psicologico per l’umiliazione subita, sarebbero consistite unicamente nell’essere stato adibito, all’esterno, alla consegna di plichi da un’agenzia ad un’altra recandovisi a piedi, compiti propri d’un commesso. Nessun riferimento si legge invece, sempre nel citato atto introduttivo del giudizio, alle mansioni di back office affidate al lavoratore nè ad un loro ipotetico carattere dequalificante, usurante e incompatibile con il dedotto stato di invalidità.

In altre parole, la causa petendi si basa unicamente sull’incidenza causale – sulle assenze per malattia – attribuita alle sole mansioni esterne sopra descritte.

Tale idoneità causale l’impugnata sentenza ha escluso, non condividendo le conclusioni del c.t.u. – che invece ha ipotizzato inconsce somatizzazioni da parte del lavoratore per effetto dei suoi rapporti con un ambiente di lavoro che avvertiva come minaccioso e pericoloso – in quanto viziate dall’essere state formulate in base alle mere dichiarazioni rese dal periziato, non supportate dalle risultanze probatorie giacchè le anzidette mansioni esterne espletate dal C.:

a) sono state occasionali ed accessorie e ciò è stato affermato non soltanto in base alle deposizioni acquisite, ma anche in ragione dell’oggettivo rilievo delle sue sporadiche presenze al lavoro nel triennio costituente il termine esterno del comporto;

b) oltre che saltuarie, implicavano solo brevi percorsi a piedi e non richiedevano un particolare impegno fisico.

In base a ciò la Corte territoriale ha escluso che vi fosse prova sufficiente che le lamentate mansioni esterne – per quanto, in via di mera astratta ipotesi, potessero considerarsi dequalificanti rispetto a quelle proprie del grado di vice capoufficio -avessero cagionato l’aggravarsi delle condizioni psicofisiche del C., provocandone reiterate assenze dal lavoro.

Si tratta di motivazione, immune da vizi logico-giuridici, frutto di una delibazione in punto di fatto del materiale di causa, incensurabile in sede di legittimità, così come incensurabile innanzi a questa S.C. è il preteso travisamento delle deposizioni testimoniali denunciato dai ricorrenti, trattandosi – in mera teorica eventualità – di vizio, al più, deducibile mediante il rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 e non già in via di ricorso per cassazione.

Nè giova la giurisprudenza delle Sezioni civili di questa S.C. in tema di nesso di causalità, invocata dalla difesa del ricorrente nel corso della discussione.

E’ pur vero che, con le ormai celeberrime sentenze dell’11.1.08 nn. 576, 581, 582 e 584, le S.U. accolgono la regola del 51%, detta anche del “più probabile che non”, di guisa che per l’accertamento del nesso causale basta che l’ipotesi dedotta sia la più suggestiva, che goda cioè di una legge generale di copertura statistica superiore al 50%, anche se non munita di altissimo grado di probabilità logica o credibilità razionale.

Ma nel caso in esame, come si è detto, in sostanza l’impugnata sentenza esclude anche un grado minore di suggestione causale, dal momento che non condivide a monte le conclusioni del c.tu. in quanto metodologicamente viziate dall’essersi basate su mere dichiarazioni rese dal periziato e su conseguenti congetture.

In breve, la mancanza di prova dell’asserita idoneità causale (o concausale) del denunciato demansionamento a provocare l’aggravarsi dello stato di salute del C. e, quindi, le sue assenze dal lavoro rende irrilevante in questa sede ogni altra delibazione in ordine ai motivi primo, terzo e quarto (relativi all’effettiva ravvisabilità della dequalificazione e alla dedotta violazione del debito di sicurezza da parte del datore di lavoro).

Infine, quanto al secondo motivo di ricorso, è appena il caso di rilevare che si tratta di doglianza infondata vuoi perchè lo stesso atto introduttivo di lite non ha mai allegato demansionamenti posti in essere ai danni del C. in epoca in cui egli era ancora dipendente della Deutsche Bank, vuoi perchè la richiesta di estendere la disamina a tutto il triennio di termine esterno (comprensivo anche dell’ultimo scorcio della precedente gestione della cedente Deutsche Bank) ha un carattere meramente esplorativo.

3.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare alla società controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 40,00 nonchè in Euro 2.500,00 per onorari oltre rimborso spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2011

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