Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2450 del 03/02/2021

Cassazione civile sez. I, 03/02/2021, (ud. 11/12/2020, dep. 03/02/2021), n.2450

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 187-2019 proposto da:

S.L., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’Avv. Daniela Vigliotti del foro di Busto Arsizio che lo

rappresenta e difende (pec:

avv.daniela.vigliotti.busto.pecavvocati.it)

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso il decreto n. 7090/2018 del Tribunale di Milano;

udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica

dell’11/12/2020 dal consigliere relatore Dott. Giovanni Ariolli;

udito il P.M. nella persona del Sostituto Procuratore Generale

Dott.ssa Sanlorenzo Rita, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il Difensore del ricorrente, avv. Francesco Verrastro, in

sostituzione dell’avv. Daniela Vigliotti, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito in sede di discussione orale il Difensore del Ministero

dell’Interno avvocato dello Stato Ilia Massarelli, che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.L., cittadino del (OMISSIS), ricorre per cassazione avverso il decreto n. 7090/2018 del Tribunale di Milano con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui la locale commissione territoriale aveva rigettato la sua domanda di protezione internazionale ed umanitaria.

2. Svolgendo quattro motivi chiede l’annullamento del decreto impugnato.

2.1. Con il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 9, 10 e 11 in combinato disposto con l’art. 46, paragrafo 3 della Direttiva n. 32/2013, e con l’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1 e 2, art. 117 Cost., comma 1, per avere il Tribunale di Milano rigettato il ricorso senza previa fissazione dell’udienza di comparizione personale delle parti finalizzata a rendere l’interrogatorio libero del ricorrente, nonostante la mancanza della videoregistrazione delle dichiarazioni rese avanti la Commissione territoriale.

2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) per non avere il decreto impugnato riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita dell’odierno ricorrente in ragione della situazione geopolitica dello Stato di provenienza.

2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per non avere il Tribunale di Milano assolto all’onere di cooperazione istruttoria.

2.4. Con il quarto motivo lamenta la violazione dell’art. 5, comma 6 e art. 19 TUI per non avere il Tribunale di Milano riconosciuto al ricorrente la protezione umanitaria, in ragione della situazione attuale del Paese di provenienza.

3. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge ed ha depositato nota ai soli fini di partecipare all’udienza di discussione.

4. Con ordinanza interlocutoria n. 10306 adottata da questa Sezione all’udienza camerale del 21/2/2020, il ricorso veniva rimesso alla pubblica udienza per la decisione della questione di diritto circa la necessità o meno che il giudice disponga l’audizione del richiedente che ne faccia espressa richiesta (e non solo che provveda a fissare l’udienza di comparizione), in caso di assenza di videoregistrazione del colloquio davanti la Commissione territoriale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso – che attiene alla questione per cui vi è stata ordinanza interlocutoria di rimessione all’odierna pubblica udienza – presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

Partendo da quest’ultimi per voler seguire l’ordine espositivo delle doglianze prospettate dal ricorrente, giova in primo luogo ricordare che è stato recentemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte il principio, al quale il Collegio intende aderire, secondo cui “Nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020, Rv. 658982; in termini Sez. 1, sentenze n. 27274 e n. 27275 del 13/10/2020; n. 25312 del 14/10/2020; conforme Sez. 1, n. 22049 del 13/10/2020, Rv. 659115).

Ne consegue, pertanto, che nessun automatismo è dunque predicabile tra la mancanza di videoregistrazione e la necessaria audizione del richiedente.

Inoltre, il ricorrente incentra la sua censura sulla necessità che, in assenza della videoregistrazione, venga fissata l’udienza, citando all’uopo anche orientamenti giurisprudenziali di questa Corte di cui il Tribunale di Milano risulta avere fatto corretta applicazione (parimenti citandoli nel provvedimento impugnato), non avvedendosi che su tale profilo vi è carenza di interesse in quanto dall’esame degli atti l’udienza risulta essere stata proprio all’uopo tenuta.

Con riguardo, poi, all’esigenza di disporre l’audizione, il ricorrente si è limitato a dedurre genericamente un vulnus nell’istruttoria derivante dalla mancanza di tale adempimento (vedi pag. 7, primo capoverso del ricorso), omettendo di specificare le circostanze fattuali su cui avrebbe dovuto essere sentito e rendere eventuali chiarimenti, di talchè la censura si appalesa del tutto generica e come tale inammissibile (vedi sul punto anche Cass. n. 8931/2020). Al riguardo, questa Corte ha affermato che “nel solco di quanto affermato dalla recente sentenza n. 21584-20 il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza” (Sez. 1, n. 25312 dell’11/11/2020).

2. Il secondo e terzo motivo di ricorso, in tema di protezione sussidiaria, sono inammissibili.

2.1. Con riguardo alla denunciata violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) il decreto impugnato ha anzitutto motivatamente escluso che la situazione che il ricorrente pone a fondamento della sua domanda di protezione ne integri i presupposti, stante l’assenza di credibilità della vicenda narrata proprio con riferimento all’essere esposto alle ritorsioni degli abitanti del suo villaggio a causa di crimini (in particolare una violenza sessuale) commessi da suoi stretti parenti che ivi si erano trasferiti ed il cui comportamento era stato dal medesimo pubblicamente garantito. Al di là delle molteplici lacune ed imprecisioni che caratterizzano il narrato, per come puntualmente evidenziato dal giudice del merito, resta il fatto, di particolare rilievo ai fini della speciale forma di protezione che qui viene in discorso, della mancata allegazione di valide ragioni che abbiano impedito al ricorrente di chiedere la protezione all’autorità statale, oltre che chiederne l’intervento per assicurare i suoi congiunti alla giustizia.

Peraltro, con riferimento alla zona di provenienza del ricorrente, il Tribunale, dopo aver operato una ricostruzione dettagliata della situazione sociopolitica del (OMISSIS), sulla base di fonti informative accreditare e debitamente specificate nel corpo della motivazione del decreto impugnato, ha escluso che nella zona dove questi dovrebbe ragionevolmente ricollocarsi, ossia a sud di (OMISSIS), si siano registrate criticità tali da integrare una situazione di violenza generalizzata e indiscriminata di particolare intensità (si è osservato come tale zona mai sia stata interessata dalla guerra, neppure nel 2012). Pertanto, sulla base di tale ricostruzione, ha escluso la sussistenza, in caso di rimpatrio, di un grave danno derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Ciò in armonia con il principio secondo cui, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306/2019, Cass., 27889/2020 con specifico riferimento al (OMISSIS)).

2.2. Con riferimento, poi, alla denuncia di mancato assolvimento all’onere di cooperazione istruttoria, questa Suprema Corte, poi, ha ancora recentemente (cfr. Cass. n. 18446 del 2019) chiarito che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi, da un lato, che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità del racconto dell’odierno ricorrente presenta, per come sopra già osservato, una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014; dall’altro, che, quanto alle censure proposte ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nemmeno risultano osservati gli specifici oneri di allegazione previsti, in proposito, dall’appena citata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte; ii) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori che investe le domande formulate ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b) predetto decreto (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), mentre, quanto a quella proposta giusta la lett. c) medesimo decreto, si è già riferito che il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di effettiva provenienza del richiedente, onde la corrispondente doglianza di quest’ultimo è insuscettibile di accoglimento, in quanto, sostanzialmente, volta ad ottenere la ripetizione del giudizio di fatto, attività qui preclusa in virtù della funzione di legittimità. A tanto deve soltanto aggiungersi, da un lato, che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. Cass. n. 30105 del 2018).

3. Il quarto motivo – che attiene al mancato riconoscimento della protezione umanitaria – è manifestamente infondato sotto diversi profili.

La natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (n. 21123/19). Va da sè, nella specie, che in difetto di un’autonoma allegazione di fatti diversi da quelli posti a base della domanda di protezione sussidiaria, il Tribunale non dovesse valutare sub specie di protezione umanitaria quegli stessi fatti che aveva appena giudicato non plausibili nella loro allegazione, così restando correttamente assorbito ogni loro esame ulteriore.

Quanto alla mancata considerazione congiunta del percorso d’integrazione del richiedente e del raffronto tra la situazione generale del Paese di provenienza, deve osservarsi che tale comparazione presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19 ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a carico del richiedente la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. n. 4455/18). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere.

Nello specifico, il ricorrente, invece, riferisce la situazione di vulnerabilità esclusivamente alle condizioni generali del Paese di origine, prescindendo da qualsiasi riferimento alla situazione soggettiva del ricorrente.

Peraltro, il Tribunale ha anche ritenuto l’irrilevanza, ai fini della concessione della protezione umanitaria, di quegli elementi fondanti un’assunta integrazione sociale (svolgimento recente di attività lavorativa), poichè tali soli fatti non valgono a dimostrare un già avvenuto inserimento socio-lavorativo, ma solo l’inizio del relativo percorso. Peraltro, posta l’esclusione di una situazione personale di vulnerabilità, neppure al riguardo specificamente menzionata, il dedotto inserimento sociale in Italia, anche laddove avvenuto, non potrebbe mai essere isolatamente ed astrattamente considerato ai fini della concessione della speciale forma di protezione richiesta, altrimenti confondendosi piani e presupposti dei diversi permessi all’uopo stabiliti (Cass. S.U. n. 29459 del 2019).

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. La condanna alle spese – liquidate in dispositivo e limitate agli onorari della fase di discussione – segue la soccombenza.

6. Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, si ritiene di aderire all’orientamento espresso da questa Corte con la sentenza n. 9660/2019.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna S.L. alla rifusione in favore del Ministero dell’interno delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 300,00, oltre spese prenotate a debito, I.V.A., cassa forense e spese forfettarie. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2021

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