Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24477 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. III, 04/11/2020, (ud. 06/07/2020, dep. 04/11/2020), n.24477

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29705/2018 proposto da:

P.G., P. SPA, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA TRIONFALE 6812, presso lo studio dell’avvocato LORENZO ALBANESE

GINAMMI, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO

EMILIO FALASCHI, SALVATORE ANASTASI;

– ricorrenti –

contro

GENERAL MOTORS SRL, OGGI OPEL ITALIA SRL e M.S.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIULIA 66, presso lo studio

dell’avvocato MAURIZIO ROSSI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DANIELA D’ANDREA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1490/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 21/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/07/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 5/10/2018, la ” P. S.p.A. in liquidazione” – in persona del Liquidatore legale rappresentante P.G., nonchè il sig. P.G. – in proprio, propongono ricorso per cassazione, affidato a nove motivi illustrati da successiva memoria, avverso la sentenza n. 1490/2018 della Corte d’Appello di Firenze, notificata in data 6/7/2018. Con controricorso notificato il 13/11/2018 e correlata memoria difensiva, resistono “Opel Italia S.r.l.” (già “General Motors Italia S.r.l.”) e il sig. M.S..

2. La sentenza oggi impugnata, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che gli attuali ricorrenti avevano promosso per le dichiarazioni, ritenute calunniose, rese dal sig. M. e da Opel Italia in un procedimento penale per truffa aggravata che aveva visto il sig. P. quale imputato in relazione alla gestione della concessionaria di auto che aveva avuto all’epoca, reato per il quale era stato assolto. Per le stesse dichiarazioni, il sig. P. aveva sporto denuncia in sede penale e il relativo procedimento era stato definito con provvedimento di archiviazione reso dal GIP di Siena, confermato pure a seguito dell’opposizione del sig. P. effettuata quale parte lesa.

3. Tra Opel Italia e la società P., fino al (OMISSIS), era intercorso un rapporto di concessione per il commercio di automobili e accessori a marchio “OPEL”, in relazione al quale il sig. P. riceveva premi di produzione esclusivamente nel caso di vendita e immatricolazione di auto nel territorio nazionale. Le dichiarazioni calunniose in tesi rilevanti ex art. 368 c.p., erano state rese dal sig. M. in sede di sommarie informazioni al P.M. e da Opel Italia con promemoria ricevuto dalla casa madre tedesca (all’esito di un audit interno sulla gestione dei rapporti intrattenuti tra le due concessionarie in Italia) trasmesso allo stesso P.M., nel corso di un procedimento penale iniziato a carico del figlio dell’attuale ricorrente per appropriazione indebita di veicoli Saab, cui erano seguite indagini per accertare la commissione di reati tributari da parte di altre società del Gruppo P.. Il contenuto delle dichiarazioni del sig. M. e della concedente Opel Italia dava conto di un particolare sistema di vendita posto in essere dal sig. P., meglio ricostruito nel procedimento revisorio instaurato dalla Casa Madre Opel (OMISSIS), che si basava sulla previa vendita ed immatricolazione in Italia – poi revocata – di autovetture Opel, al fine di percepire i premi produzione, quandanche in realtà le autovetture venivano vendute al di fuori del territorio nazionale presso affiliate della società P..

4. In seguito alle suddette dichiarazioni, il procedimento penale esitava nell’incriminazione per truffa aggravata per indebita percezione di premi ai danni della Opel a carico del sig. P., al termine del quale il Tribunale Penale di Siena assolveva l’allora imputato con formula piena per insussistenza del fatto. In primo grado, il sig. P. e la società P. hanno chiesto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati dalla condotta calunniosa tenuta dal sig. M., all’epoca titolare della società Opel Italia, e da Opel Italia deducendo, in particolare, che i convenuti erano a conoscenza e avevano addirittura incentivato tali pratiche.

5 I Tribunale di Siena, con sentenza n. 120/2010 rigettava la domanda attorea. In sede di gravame dinanzi alla Corte d’Appello di Firenze, gli attori impugnavano la pronuncia per non aver riconosciuto valore alla sentenza penale di assoluzione del sig. P. dal reato di truffa aggravata ex art. 654 c.p., nonchè alle prove acquisite nel relativo procedimento penale; contestavano, poi, l’erronea valutazione delle prove assunte in primo grado, nonchè del provvedimento di archiviazione del GIP di Siena reso nel procedimento penale a carico del sig. M. per il reato di calunnia; ritenevano insufficiente la motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza del reato di calunnia; nonchè, che la sentenza del Tribunale avesse disatteso i principi del diritto comunitario in tema di libertà di circolazione delle merci e di libera concorrenza nello spazio Europeo; rilevavano, inoltre, la portata calunniosa delle dichiarazioni del sig. M. e del promemoria della Opel Italia, posto che gli stessi erano a conoscenza delle operazioni svolte dall’appellante; deducevano che proprio dalla condotta degli appellati era derivato il discredito commerciale ed il tracollo finanziario della società appellante; infine, impugnavano la condanna alle spese di lite.

6. La Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza qui impugnata, rigettava il gravame proposto, e, in particolare, rilevava che ai fini dell’integrazione dell’illecito di calunnia addebitato ai convenuti i) non era pertinente il richiamo ai principi comunitari di libera circolazione delle merci, viste le disposizioni contrattuali in vigore tra le parti del tutto in linea con la normativa comunitaria, vietanti la vendita di autoveicoli a rivenditori esteri non autorizzati; ii) doveva assumersi che la concessionaria P. fosse, peraltro, consapevole della illiceità della condotta assunta di indebita percezione dei premi, come rilevabile nella scrittura transattiva del 20/10/1995 in virtù della quale il P. si era impegnato a restituire i premi ricevuti; iii) non era provata la portata calunniosa delle dichiarazioni rese dagli appellati, nè vi era prova del nesso causale tra queste e gli asseriti danni, nè i danni stessi, nè in ultimo dell’elemento soggettivo della fattispecie criminosa; iv) il giudicato penale assolutorio per il reato di truffa aggravata non poteva spiegare diretta efficacia ai fini dell’integrazione della calunnia, neanche per via implicita, atteso che le dichiarazioni in tesi calunniose del rappresentante italiano della Opel Italia non erano state oggetto di valutazione da parte del giudice penale, essendo stata per di più riconosciuta la illiceità contrattuale della condotta assunta dal P. con la sottoscrizione dell’impegno di restituzione dei premi sottoscritto il 20/10/95 con la Opel Italia srl; v) nessun rilievo assumeva la normativa Europea in proposito, trattandosi di un comportamento di truffa contrattuale aggravata in danno della casa madre, che aveva svolto un’attività di audit in proposito alla rivendita all’estero delle auto a soggetti rivenditori non autorizzati; vi) in ultimo, riteneva corretta la liquidazione delle spese operata in primo grado, sulla scorta della attività svolta in quella sede e in applicazione del principio della soccombenza. Per l’effetto, condannava gli appellanti alle spese di lite.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. I ricorrenti lamentano la nullità della sentenza impugnata per aver rigettato l’appello mediante una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, senza un effettivo esame critico delle censure svolte dagli attuali ricorrenti nell’atto di appello, nonchè senza un’autonoma valutazione e motivazione circa le prove testimoniali escusse e le prove documentali prodotte già in primo grado.

1.1. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

1.2. Nella parte motiva della sentenza gravata, la Corte d’Appello ha ribadito a più riprese di condividere integralmente le argomentazioni svolte dal giudice di prime cure, tuttavia, non senza spiegare – sinteticamente, ma comunque analiticamente – le ragioni della ritenuta infondatezza dei singoli motivi di appello proposti dagli attuali ricorrenti. Il giudice di secondo grado, difatti, ha puntualmente considerato e valutato tutti i sette motivi di impugnazione proposti – con i quali gli allora appellanti, invero, svolgevano una semplice riedizione delle difese svolte in primo grado – ed è agevole rilevare le singole ragioni del loro rigetto, talvolta in via di espressa condivisione della decisione di primo grado, talaltra in via autonoma ma, in ogni caso, per il tramite del combinato disposto delle sentenze è agevole ricavare un iter argomentativo esente da vizi logico-motivazionali.

1.3. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la sentenza d’appello può essere motivata “per relationem”, purchè il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicchè dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass., Sez. 1 -, Ordinanza n. 20883 del 5/8/2019; Sez. 1, Sentenza n. 14786 del 19/7/2016; Sez. 3, Sentenza n. 15483 dell’11/6/2008).

1.4. Sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, poi, “La conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter” seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 8294 del 12/4/2011; in senso conforme, Cass., Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 25509 del 2/12/2014; Sez. 3, Sentenza n. 22801 del 28/10/2009 e Sez. 3, Sentenza n. 17145 del 27/7/2006).

2. Con il secondo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p., in tema di giudicato penale implicito, nonchè dell’art. 116 c.p.c., in tema di prova raccolta nel giudizio penale. Il motivo si articola attraverso due diversi profili di doglianza. In particolare, in relazione alla violazione dell’art. 654 c.p.p., i ricorrenti censurano la sentenza per aver ritenuto non rilevante, nel presente procedimento, il giudicato penale di assoluzione del P. dal reato di truffa. In relazione al secondo profilo di doglianza, i ricorrenti adducono che – pur prescindendo dal giudicato penale di assoluzione – la Corte d’Appello avrebbe violato l’art. 116 c.p.c., in relazione ai principi che governano la disciplina in materia di prova nel giudizio civile, per cui il giudice può utilizzare anche le prove e gli accertamenti raccolti in un diverso giudizio tra le stesse parti e persino tra altre parti, potendo addirittura attribuire a tali prove ed accertamenti raccolti aliunde valore di prova esclusiva, anche quando non siano stati vagliati attraverso il dibattimento (invocando giurisprudenza di questa Corte, tra cui: Cass., Sez. 3, n. 9242 del 6/5/2016; Sez. 6, n. 1150 del 22/1/2015; Sez. 2, n. 18141 del 9/9/2014).

2.1. Il motivo è inammissibile in relazione a entrambi i profili.

2.2. Il motivo, nel denunciare in astratto la violazione del giudicato penale e del principio di libera valutazione delle prove, si rende inammissibile perchè non indica la ratio decidendi seguita dal giudice nel valutare le prove acquisite, e dunque si rivela del tutto aspecifico.

2.3. Nella sentenza impugnata risulta che la Corte abbia ampiamente valutato le circostanze del caso ritenute rilevanti, nell’ambito di un’autonoma valutazione delle prove, a prescindere dall’archiviazione disposta per il reato di calunnia e dall’esito del giudizio penale per truffa aggravata, dando rilievo al comportamento assunto dall’attore in contrasto con il regolamento contrattuale convenuto con la casa madre tedesca, e al fatto che l’avvio del procedimento per truffa aggravata era riconducibile all’iniziativa d’ufficio assunta dal Pubblico Ministero in base alla sua indagine e all’audit indipendentemente svolto dalla casa madre tedesca, e non tanto alle dichiarazioni SIT rese dalla società convenuta per via del suo rappresentante in Italia, negando pertanto la sussistenza di un nesso causale tra le dichiarazioni rese dal concessionario della Opel Italia al PM e il procedimento penale avviato per truffa aggravata d’ufficio.

2.4. Preliminarmente, pertanto, deve rilevarsi che il motivo difetta di autosufficienza e specificità ex art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6 (nel senso dell’inammissibilità del motivo di ricorso per difetto di autosufficienza e specificità, v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24298 del 29/11/2016; Sez. 6-5, Ordinanza n. 635 del 15/1/2015; Sez. 3, Sentenza n. 3010 del 28/2/2012; Sez. 1, Sentenza n. 5353 dell’8/3/2007). Infatti, sebbene sia incontestabile, come questa Corte insegna, che il giudicato va assimilato agli elementi normativi, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme (Cass., Sez. 3-, ordinanza n. 30838 del 29/11/2018; Cass., Sez. 2, ordinanza n. 15339 del 12/6/2018; Cass., Sez. U., sentenza n. 11501 del 9/5/2008; Cass., Sez. U., sentenza n. 24664 del 28/11/2007), è necessario precisare che il giudicato funziona come “norma di diritto”, ma costituisce “norma sul caso concreto”. Dunque, per consentirne la corretta interpretazione e rilevarne la eventuale violazione, i ricorrenti avrebbero dovuto indicarne quantomeno l’oggetto, ossia le specifiche circostanze del caso concreto poste alla base del giudicato, e non correttamente considerate dal giudice a quo. Per quanto si tratti di un giudicato, difatti, in sede di giudizio di legittimità non sì può pretendere che la Corte svolga un’autonoma ricostruzione dei fatti e delle vicende poste alla base dello stesso, e ciò al fine di contrastare, utilmente, quanto già compiutamente vagliato dal giudice a quo.

2.5. In relazione al secondo profilo di doglianza (che si pone in contraddizione logica con il primo profilo di censura), invece, rileva osservare che la violazione dell’art. 116 c.p.c., in materia di principi regolatori del materiale probatorio nel giudizio civile deve in astratto escludersi allorchè il giudice civile, come nel caso in esame, abbia autonomamente e liberamente valutato il compendio probatorio acquisito sia nel giudizio penale che in quello civile, sulla base del principio di diritto secondo cui “la sentenza penale, pronunciata sui medesimi fatti oggetto del giudizio civile, non ha efficacia di giudicato in quest’ultimo quando esuli dalle ipotesi previste negli artt. 651 e 652 c.p.p., le quali, avendo contenuto derogatorio del principio di autonomia e separazione tra giudizio penale e civile, non sono suscettibili di applicazione analogica. Ne consegue che il giudice civile deve interamente ed autonomamente rivalutare, nel rispetto del contraddittorio, il fatto in contestazione, sebbene possa tenere conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, ripercorrendo lo stesso “iter” argomentativo del decidente” (Sez. 3 -, Ordinanza n. 9799 del 09/04/2019; Cass., Sez. 3 -, Ordinanza n. 30988 del 30/11/2018; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 17316 del 3/7/2018; Sez. 3, Sentenza n. 24475 del 18/11/2014; Sez. L, Sentenza n. 21299 del 9/10/2014; Sez. U, Sentenza n. 1768 del 26/01/2011). Al di fuori delle ipotesi in cui l’illecito penale coincida materialmente con quello civile e, pertanto, costituisca giudicato esterno – ipotesi non configurabile nel caso di specie, trattandosi nel primo giudizio di “truffa” e nel secondo di procedimento penale per “calunnia” archiviato e non definito con sentenza – il giudice civile deve procedere ad una nuova ed autonoma valutazione delle prove assunte in sede penale, come ha in realtà fatto la Corte d’appello nel valutare liberamente, secondo gli standard del giudizio civile, il materiale probatorio raccolto.

3. Con il terzo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in punto di an debeatur. I ricorrenti censurano la Corte d’Appello per aver fondato il proprio convincimento esclusivamente sugli elementi di prova a supporto delle difese degli appellati, per converso, ritenendo irrilevanti le molteplici prove allegate ed addotte dagli odierni ricorrenti che, se correttamente valutate, avrebbero condotto il giudice a ritenere che Opel Italia e il sig. M. non solo tolleravano, ma anzi incitavano, il “Sistema vendite P.”.

4. Con il quarto motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 2730 c.c., in riferimento all’atto del 20/10/1995 con il quale, in seguito al procedimento revisorio per auditors, l’attuale ricorrente si obbligava a restituire alla concedente Opel i premi indebitamente percepiti. I ricorrenti, sul punto, rilevano che l’atto, pure sottoscritto dal sig. P., era privo di animus confitendi e a torto definito “transattivo”.

5. Con il quinto motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in punto di an debeatur, in relazione alle prove testimoniali. I ricorrenti lamentano la totale sottovalutazione ed il mancato prudente apprezzamento, da parte della Corte d’Appello, delle prove testimoniali assunte in primo grado, per il tramite delle quali sarebbe stata ampiamente dimostrata la complicità e consapevolezza degli attuali controricorrenti circa il sistema di vendite all’estero adottato dalla società P.. Peraltro, non sarebbero state prudentemente apprezzate neanche le deposizioni dei testimoni indotti dalla Opel che – per converso – avrebbero dovuto ritenersi irrilevanti e finanche assolutamente inattendibili.

5.1. I motivi terzo, quarto e quinto vanno trattati congiuntamente, in quanto inammissibili per le medesime ragioni di diritto. Difatti, sotto le spoglie della violazione di legge con essi si intende chiedere a questa Corte di esprimere un inammissibile giudizio sostitutivo che rinnovi il potere di governo del materiale probatorio proprio ed esclusivo del giudice di merito. E’ necessario richiamare i limiti di sindacabilità in sede di legittimità degli apprezzamenti in fatto del giudice di merito, talchè l’errata applicazione dell’art. 116 c.p.c., è configurabile solo nei casi in cui si applichi il libero apprezzamento in riferimento a una prova che per legge sia vincolata a determinati criteri di valutazione, ovvero si dichiari di applicare un parametro legale ad una prova invece liberamente apprezzabile, non potendo comportare una diversa valutazione della prova da parte del giudice di legittimità (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

6. Con il sesto motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 368 c.p., in relazione all’art. 2043 c.c.. La decisione impugnata, in tesi, sarebbe incorsa nella violazione delle norme de quibus atteso che, al contrario di quanto assunto erroneamente dal giudice di secondo grado, le dichiarazioni rese dal sig. M. al PM e il promemoria di Opel Italia inviato alla Procura della Repubblica di Siena sarebbero oggettivamente calunniose anche se sollecitati dalla Pubblica Accusa.

6.1. Il sesto motivo è inammissibile in quanto si mascherano come errori di diritto valutazioni in fatto svolte sulla base di corretti parametri normativi.

6.2. La Corte territoriale ha attribuito valenza interruttiva del nesso causale all’iniziativa del P.M., e che, dunque, gli attori avrebbero dovuto dimostrare che la condotta in tesi calunniosa dei denuncianti era eziologicamente connessa ai danni lamentati, tale da adeguatamente elidere l’efficacia interruttiva dell’impulso della Pubblica Accusa. Conseguentemente, il giudice di secondo grado ha escluso la portata effettivamente calunniosa delle dichiarazioni rese dal sig. M. in sede di SIT nel procedimento penale, nonchè dall’invio del promemoria di Opel al PM, che stava indagando anche su altri fatti di evasione fiscale, inerenti alla gestione delle vendite SAAB da parte del figlio del ricorrente, e ha ritenuto non provato nè il nesso causale tra le condotte e gli asseriti danni, nè i danni stessi, nè soprattutto l’elemento soggettivo della fattispecie di cui all’art. 368 c.p..

6.3. Il ragionamento del giudice di secondo grado, invero, si allinea all’orientamento consolidato di questa Corte per cui la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio (o la proposizione della querela in relazione ad un fatto perseguibile a querela di parte, o – nel nostro caso – atti equiparabili) non è di per sè fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante o del querelante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o assoluzione dell’imputato, se non quando la denuncia o la querela possano considerarsi ex ante calunniose. Al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale, e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. Ne consegue che spetta all’attore, che in sede civile chieda il risarcimento dei danni assumendo che la denuncia era calunniosa, dimostrare che la controparte aveva consapevolezza dell’innocenza del denunciato (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10033 del 25/05/2004, v. anche Cass., Sez. 3 -, Ordinanza n. 30988 del 30/11/2018; Sez. 3, Sentenza n. 11898 del 10/06/2016; Sez. 3, Sentenza n. 1542 del 26/1/2010; Sez. 3, Sentenza n. 10033 del 25/5/2004; Cass. n. 15646 del 2003; Cass. n. 750 del 2002; Cass. n. 3536 del 2000).

7. Con il settimo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 85 Trattato CE e dell’art. 13 del Regolamento 123/85/CE in tema di liceità del cd. mercato parallelo e di vendite all’estero di beni liberamente circolanti nel mercato unico Europeo, anche per come interpretate dalla Decisione della Commissione 98/273/CE (cd. Decisione Volkswagen) e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione (in C62/98, Volgsvagen AG v. Commissione). I ricorrenti lamentano la violazione delle norme de quibus per aver il giudice di secondo grado ritenuto non pertinente il richiamo al Trattato di Maastricht svolto dagli allora appellanti, quandanche i vincoli imposti da Opel Italia alla P. S.p.A. in tema di vendite all’estero e di mancato riconoscimento di premi su dette vendite sarebbero confliggenti con i principi e le norme comunitarie in materia di libera concorrenza e libera circolazione delle merci. Peraltro, tali vincoli sarebbero stati solo formali ed apparenti avendo Opel Italia e il sig. M. sempre consentito alla società concessionaria di derogarvi, addirittura incentivando il cd. “sistema P.”, salvo poi averne lamentato l’illiceità all’Autorità Giudiziaria per nascondere la loro complicità alla Casa Madre Opel (OMISSIS).

7.1. Il settimo motivo è inamissibile ex art. 366 c.p.c., n. 4.

Il motivo, invero, non coglie la ratio decidendi della sentenza, che ha ritenuto non potersi accogliere la domanda di risarcimento del danno a cagione della lamentata calunnia, per mancanza di prova in relazione sia all’elemento oggettivo che all’elemento soggettivo del reato. Il richiamo alla violazione delle norme comunitarie e ai principi in materia di libera concorrenza e libertà di circolazione delle merci è stato ritenuto del tutto inconferente (“non pertinente”), non potendo da ciò comunque farsi discendere la sussistenza di alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa ex art. 368 c.p.. Difatti, l’addebito mosso in sede penale al sig. P. non era di essersi avvalso del cd. mercato parallelo, ma di aver fatto figurare le auto spedite a sue concessionarie estere come immatricolate in Italia a clienti finali, allo scopo di percepire i relativi premi che – per accordi inter partes – non gli sarebbero spettati. L’illecito era riferito all’esito dell’audit della casa madre che aveva rilevato la grave violazione dell’accordo da parte di P., con illecita percezione di premi di acquisto per rilevanti importi.

8. Con l’ottavo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., ed al principio della regolarità causale, nonchè all’art. 116 c.p.c., in tema di prova dei danni. I ricorrenti censurano la sentenza in più punti. In primo luogo, rileverebbe l’erronea valutazione, operata dalla Corte d’Appello, circa la sussistenza del nesso causale tra le accuse di Opel e M. e i danni subiti in quanto, a seguito delle accuse di truffa, non solo Opel Italia ha negato il rinnovo del contratto di concessione alla P., ma ogni altra casa automobilistica ha rifiutato una partnership con essa. Si sottolinea, inoltre, che gli attuali controricorrenti non hanno mai contestato il quantum debeatur, ma solo l’an debeatur, nonchè la sussistenza del nesso causale tra i danni lamentati e la condotta. Dunque, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio di non contestazione e, pertanto, ritenersi provati i danni patrimoniali e non patrimoniali nell’ammontare richiesto dagli attuali ricorrenti nelle fasi di merito.

8.1. Il motivo è inammissibile.

8.2. Si rievocano le conclusioni raggiunte in punto di infondatezza del sesto motivo, per il mancato raggiungimento, nelle fasi di merito, della prova della sussistenza del nesso causale.

L’accertamento del nesso causale tra fatto illecito ed evento dannoso viene logicamente prima della valutazione del danno, è rimesso alla valutazione del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se esente da vizi logici e giuridici. Ciò in quanto questa Corte può sindacare solo il corretto riparto dell’onere probatorio e il rispetto del principio della causalità giuridica, ossia l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale. Infatti, secondo l’orientamento costante di questa Corte: “L’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, mentre l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze derivanti dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità se adeguatamente motivata” (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 9985 del 10/4/2019; Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/2/2014; in senso analogo, ex plurimis, Cass., Sez. 3, sentenza n. 26997 del 7/12/2005; fino a risalire a Cass., Sez. U., Sentenza n. 2950 del 22/12/1964 secondo cui, testualmente, “L’accertamento del nesso causale tra fatto illecito ed evento dannoso è rimesso alla valutazione del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici”).

8.3. Non coglie nel segno, quindi, neanche il riferimento alla mancata contestazione del quantum debeatur, avendo le parti avversarie contestato il presupposto logico-giuridico della quantificazione dei danni, ossia l’accertamento in ordine all’an e alla sussistenza del nesso causale, come rilevato dagli stessi ricorrenti.

9. Con il nono ed ultimo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., nel testo vigente all’epoca della sentenza appellata. I ricorrenti lamentano l’ingiustizia della condanna alle spese di lite, per la sussistenza di giusti motivi per la compensazione.

9.1. Il motivo è inammissibile.

9.2. Secondo costante giurisprudenza, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 24502 del 17/10/2017; Sez. 5, Sentenza n. 15317 del 19/6/2013; Sez. L, Sentenza n. 5386 del 5/4/2003; nello stesso senso, ex multis, Cass., Sez. 5, sentenza n. 20457 del 6/10/2011; Sez. 1, sentenza n. 5828 del 16/3/2006; Sez. 3, sentenza n. 17457 del 31/7/2006).

10. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, a favore della parte resistente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese liquidate in Euro 8.000,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 6 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

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