Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2447 del 31/01/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 2447 Anno 2018
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO

ORDINANZA

sul ricorso 14537-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2017

RAGNI SANDRO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

3210

GUIDO ALFANI 29, presso lo studio dell’avvocato
GIANMARCO PANETTA, rappresentato e difeso
dall’avvocato MASSIMO FAUGNO, giusta delega in atti;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 31/01/2018

avverso

la

sentenza n.

3018/2012

della CORTE

D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/06/2012 R.G.N.
3138/2006.

\

R.G. n. 14537/2013

RILEVATO

che con sentenza in data 4 giugno 2012 la Corte di Appello di Roma ha
confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui ha dichiarato la nullità
della clausola appositiva del termine “per esigenze tecniche, organizzative e
produttive connesse alla fase di riorganizzazione dei centri Rete Postale,

ivi

nonché per far fronte ai maggiori flussi del periodo natalizio”, di cui al contratto
di lavoro stipulato per il periodo 1.10.2002 – 31.12.2002 tra Sandro Ragni e
Poste Italiane Spa e, quindi, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato; in applicazione poi dell’art. 32 della I. n. 183 del 2010 la
Corte ha condannato la società al risarcimento del danno “nella misura di 4
mensilità oltre accessori”;
che avverso tale sentenza Poste Italiane Spa ha proposto ricorso affidato a due
motivi, cui ha resistito l’intimato con controricorso;

CONSIDERATO

che il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di legge, assumendo
che il lavoratore non avrebbe “mai contestato la sussistenza delle ragioni poste a
fondamento dell’assunzione in questione” sicché la Corte di Appello avrebbe
violato l’art. 115 c.p.c. in base al quale i fatti non specificamente contestati dalla
parte costituita non necessitano di essere provati;
che la censura non ha pregio non solo perché il principio di non contestazione
opera a fronte dei fatti allegati dalla controparte e quindi non è configurabile
rispetto all’atto introduttivo del giudizio ma anche perché, proprio dalla
riproduzione del ricorso del lavoratore, alla pag. 8 risulta che veniva
specificamente dedotto che “non vi è stato nesso di causalità fra l’assunzione e la
sussistenza delle cause legittimanti” l’apposizione del termine, per cui gravava
interamente sul datore l’onere di allegare e provare le medesime;
che il secondo motivo denuncia insufficiente motivazione e violazione di legge
per non avere la Corte territoriale “ritenuto di integrare un quadro probatorio
tempestivamente delineato, anche attraverso l’uso dell’ampio potere istruttorio

i

ricomprendendo una più funzionale ricollocazione del personale sul territorio,

R.G. n. 14537/2013
esercitabile dal giudice del lavoro ai sensi del combinato disposto degli artt. 253,
420, 421 c.p.c.”;
che la doglianza non può trovare accoglimento (analogamente v. tra molte Cass.
n. 5255 del 2017) in quanto investe pienamente la quaestio facti – la ricorrenza
in concreto della causale – di pertinenza del giudice di merito, anche in ordine
alla esaustività delle allegazioni della società ed alla genericità della prova
testimoniale richiesta e di quella documentale prodotta dalla medesima;

provare la sussistenza delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine grava
sul datore di lavoro (tra tante: Cass. n. 2279 del 2010; Cass. n. 3325 del 2014),
mentre la doglianza che lamenta la mancata ammissione di mezzi istruttori ed il
mancato esercizio dei poteri officiosi è sussumibile nell’ambito del vizio di
motivazione, di cui deve avere forma e sostanza (Cass. n. 16997 del 2002; Cass.
n. 15633 del 2003) e può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui
essa abbia determinato l’omissione su di un fatto decisivo della controversia e,
quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a
dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di
mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno
determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi
venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; Cass. n. 4369
del 2009; Cass. n. 5377 del 2011); in definitiva, le censure in esame,
trascurando tali principi e mancando di enucleare il fatto controverso e decisivo
anche secondo il previgente testo dell’art. 360, co.

1, n. 5, c.p.c., prospettano

una diversa ricostruzione della vicenda storica in ordine alla sussistenza fattuale
della causale giustificativa, così scivolando “sul piano dell’apprezzamento di
merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in
punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema” (da
ultimo Cass. n. 16346 del 2016); né, al riguardo, appare pertinente il richiamo
alla facoltà del giudice di richiedere chiarimenti al teste o di esercitare i propri
poteri istruttori officiosi, posto che la prima facoltà presuppone l’ammissibilità dei
capitoli di prova così come formulati ed entrambe restano comunque circoscritte
dall’ambito delle allegazioni ritualmente dedotte dalle parti;

9

che, infatti, per pacifica giurisprudenza di legittimità, l’onere probatorio di

R.G. n. 14537/2013

che pertanto il ricorso deve essere respinto, con le spese liquidate come da
dispositivo secondo soccombenza, con attribuzione all’avv. Massimo Faugno
dichiaratosi antistatario;

che occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1
quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del
2012;

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese
liquidate in euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori
secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione al procuratore
dichiaratosi antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della

sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso nella Adunanza camerale del 12 luglio 2017

P.Q.M.

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