Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24468 del 04/11/2020

Cassazione civile sez. III, 04/11/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 04/11/2020), n.24468

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25741/2015 proposto da:

A.E., elettivamente domiciliata in PALERMO, VIA MESSINA

7/D, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO COPPOLA, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNIPOL SAI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SALARIA 292, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BALDI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE EVOLA;

– controricorrente –

e contro

S.P., M.G., in proprio e n.q. di rappresentanti

legali del minore S.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA GIACOMO BONI 15, presso lo studio dell’avvocato ELENA SAMBATARO,

rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI LENTINI;

– controricorrenti –

nonchè nei confronti di:

SOC. CATTOLICA DI ASSICURAZIONE COOP. A R.L.;

– intimata –

nonchè di

PROVINCIA RELIGIOSA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE DELLE MILIZIE, 76, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO

BARBATELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

RAFFAELE TRONCONE;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

SOC. CATTOLICA DI ASSICURAZIONE COOP. A R.L, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38, presso lo studio

dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

S.P., M.G., in proprio e n.q. di rappresentanti

legali del minore S.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA GIACOMO BONI 15, presso lo studio dell’avvocato ELENA SAMBATARO,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI LENTINI;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 815/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 01/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Palermo, con sentenza in data 26.9.2011, riconosceva la responsabilità contrattuale della Dott.ssa A.E. per i danni cagionati, durante le fasi del travaglio e del parto, al neonato S.G., risultato affetto da “paralisi cerebrale infantile di tipo tetraparesi spastica”, e condannava la stessa, in solido con la Provincia Religiosa (OMISSIS) (gestore dell’Ospedale “(OMISSIS)”), al risarcimento del danno in favore di S.P. e M.G., che avevano agito sia in proprio che n.q. di genitori esercenti la potestà sul minore, dichiarando inoltre tenute le compagnie assicurative della responsabilità civile dei convenuti, da quelli chiamate in causa (Duomo Ass.ni s.p.a. – successivamente Soc. Cattolica di Assicurazione coop. a r.l. chiamata dall’Ospedale; CAB Ass.ni s.p.a. – successivamente UNIPOLSAI s.p.a. – chiamata dall’ A.), a tenere indenni i propri assicurati nei limiti dei rispettivi massimali di polizza, essendo stata ritenuta infondata la eccezione di prescrizione ex art. 2952 c.c., ed affetta da vizio di nullità, ex art. 1341 c.c., comma 2, la clausola “claims made” apposta nella polizza stipulata tra l’Ospedale e la Duomo Ass.ni s.p.a..

Investita con l’appello principale della (OMISSIS) e con l’appello incidentale di DUOMO Ass.ni s.p.a., nonchè con distinto appello principale proposto da A.E., la Corte d’appello di Palermo, con sentenza in data 1.6.2015 n. 815, previa riunione delle cause, in parziale riforma della decisione di prime cure, ha ritenuto non dovuto, in favore dei genitori nella loro qualità, l’importo di Euro 309.000,00 liquidato dal primo Giudice a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante per perdita della capacità lavorativa generica del neonato, rigettando per il resto gli altri motivi di gravame proposti, con gli appelli principali, dalla Provincia Religiosa e dalla A..

I Giudici di appello accoglievano, invece, in parte, l’appello incidentale proposto da DUOMO Ass.ni s.p.a., ritenendo valida ed efficace la clausola di polizza “claims made”, in quanto la relativa pattuizione ricadeva nell’ambito di esercizio dell’autonomia negoziale delle parti e, nel caso di specie, veniva a delimitare l’oggetto del rischio assicurato, così da sottrarsi alla disciplina delle clausole vessatorie applicabile, invece, in caso di limitazioni della responsabilità dell’assicuratore: con la conseguenza che, essendo il contratto assicurativo cessato per recesso, esercitato da DUOMO Ass.ni s.p.a. il 31.3.1995, la richiesta di risarcimento in data (OMISSIS), rivolta dai danneggiati all’Ospedale, e trasmessa alla società assicurativa il 21.10.997, in quanto pervenuta fuori del periodo coperto dalla assicurazione, determinava il rigetto della domanda di garanzia impropria formulata dall’Ospedale.

La sentenza di appello, notificata solo ai fini della esecuzione ex art. 479 c.p.c., è stata impugnata per cassazione da A.E., con tre motivi.

Ha depositato controricorso la (OMISSIS), proponendo autonomo ricorso adesivo al ricorso principale, affidato a tre motivi, e contestuale ricorso incidentale – limitatamente al rapporto assicurativo con DUOMO Ass.ni s.p.a. – deducendo quattro motivi.

Hanno resistito con controricorso al ricorso principale, S.P. e M.G., n.q. di genitori del neonato, depositando anche controricorso al ricorso adesivo della Provincia Religiosa, nonchè la Società Cattolica di Assicurazione coop a r.l. (avente causa di Duomo UNI ONE Ass.ni s.p.a., già denominata DUOMO Ass.ni e Riass.ni s.p.a.) ed UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a. (incorporante UNIPOL Ass.ni s.p.a., già CAB Ass.ni s.p.a.) con rispettivi controricorsi.

Alla adunanza 29.1.2018, il Collegio, rilevato che era stata rimessa alle Sezioni Unite la questione di diritto concernente la validità della clausola “claims made” delle polizze assicurative della responsabilità civile, disponeva con ordinanza in data 23.4.2018 il rinvio della causa a nuovo ruolo, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite.

Definita la questione di massima importanza con sentenza di questa Corte SS.UU. n. 22437 in data 24.9.2018, la causa è stata rinviata alla adunanza 3.7.2020.

La (OMISSIS) e la Compagnia assicurativa Società Cattolica hanno depositato anche memorie illustrative ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

A- ricorso principale (proposto da A.E.) e ricorso incidentale adesivo (proposto da (OMISSIS)).

Primo motivo: omesso esame di fatto decisivo; violazione artt. 194 e 229 c.p.c.; art. 2733 c.c..

Assume la ricorrente principale A. che il Giudice di appello avrebbe omesso di esaminare il fatto decisivo costituito dalle dichiarazioni – cui avrebbe dovuto riconoscersi natura confessoria – rese nel corso delle operazioni peritali dalla M., la quale aveva riferito che il monitoraggio mediante apparecchiatura CTG era stato costante ed era cessato soltanto al momento in cui era stata trasferita d’urgenza nella sala travaglio.

Il motivo è inammissibile, in relazione ad entrambe le censure ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto non vengono trascritte pedissequamente le dichiarazioni asseritamente confessorie della M., nè viene indicato il luogo processuale ove reperirle, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 (l’atto processuale o il documento contenente tali dichiarazioni non risulta neppure indicato nell’elenco degli atti e documenti posti a sostegno del ricorso ex art. 369 c.p.c.).

In ogni caso il motivo è, comunque, inammissibile in quanto la ricorrente si limita a contrapporre la propria valutazione dei fatti emersi nel corso della istruttoria, venendo meramente a reiterare la propria ipotesi ricostruttiva della fattispecie concreta, in antitesi a quella cui è pervenuta la Corte di merito, senza tuttavia evidenziare quale sia l’errore in diritto o il fatto storico omesso che inficerebbe la sentenza impugnata.

Ed infatti, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, la Corte d’appello ha esaminato espressamente anche le dichiarazioni rese dalla M. (che erano state raccolte, nel corso dell’espletamento delle operazioni peritali, in primo grado, dal CTU Dott.ssa G.) ritenendole, da un lato, recessive rispetto agli altri elementi probatori, dai quali emergeva una imprudente interruzione anticipata del monitoraggio CTG del feto, e, dall’altro, inaffidabili ed imprecise, in quanto la M. aveva riferito che l’apparecchio era stato materialmente distaccato dalla paziente al momento del suo trasferimento in sala parto, circostanza inidonea a comprovare se il macchinario fosse effettivamente ancora in funzione o se invece – come attestavano gli altri elementi di prova – la registrazione fosse stata in precedenza già interrotta. Difetta del tutto, in conseguenza, il presupposto di deducibilità del vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, costituito dalla “omessa” considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico decisivo” dimostrato in giudizio, avendo la Corte territoriale direttamente esaminato anche la rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese dalla M..

Anche il vizio di “error juris”, per violazione dell’art. 2733 c.c., è palesemente inammissibile, atteso che la censura è priva di alcun supporto argomentativo in diritto volto ad evidenziare se e come il Giudice abbia violato la norma indicata in relazione alla efficacia probatoria legale da riconoscere alle predette dichiarazioni. Osserva il Collegio, al proposito, che alle informazioni assunte dall’ausiliario nominato di ufficio, direttamente dalle parti in causa, nel corso delle operazioni peritali ex art. 194 c.p.c., non potrebbe neppure riconoscersi la efficacia di prova legale della dichiarazione confessoria “spontanea” (non certo di quella “provocata”, per la quale è richiesto l’espletamento del mezzo di prova tipico del deferimento dell'”interrogatorio formale” che deve essere assunto esclusivamente dal Giudice), e ciò indipendentemente dal rilievo secondo cui il CTU non può supplire alla attività di ricerca e formazione della prova nel processo, demandata in via esclusiva alle parti, atteso il dirimente ed inequivoco disposto dell’art. 229 c.p.c., che – salva l’ipotesi dell'”interrogatorio libero” delle parti ex art. 117 c.p.c., che non viene in considerazione nella specie – richiede, tra i requisiti legali di efficacia, che la dichiarazione confessoria, sia contenuta in un atto processuale “firmato dalla parte personalmente”, condizione nella specie indimostrata.

Ne segue che alle dichiarazioni a sè sfavorevoli rese dalla parte al CTU non può che attribuirsi la stessa valenza probatoria che è riconosciuta dall’art. 2735 c.c., comma 1, seconda parte, alle dichiarazioni confessorie stragiudiziali, fatte al terzo (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 1666 del 21/07/1965; id. Sez. L, Sentenza n. 18987 del 11/12/2003. Vedi: Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2865 del 11/03/1995; id. Sez. L, Sentenza n. 5345 del 29/05/1998; id. Sez. L, Sentenza n. 6195 del 17/04/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 15411 del 10/08/2004; id. Sez. 2, Sentenza n. 14652 del 27/08/2012), con la conseguenza che la Corte d’appello, comparando le diverse risultanze probatorie ed effettuando la selezione di quelle ritenute maggiormente convincenti (ampiamente individuate e discusse nelle pag. 4-6 della motivazione della sentenza impugnata), non ha derogato dai limiti imposti dalla disciplina delle prove legali, non avendo disatteso il disposto dell’art. 2733 c.c., comma 2, che attribuisce efficacia di “piena prova” alla sola confessione giudiziale (nè al disposto dell’art. 2735 c.c., comma 1, prima parte, che estende detta efficacia legale alla dichiarazione stragiudiziale resa direttamente alla controparte o ad un suo rappresentante).

Infondato, alla stregua delle medesime considerazioni in diritto in precedenza svolte, è da ritenere anche il medesimo primo motivo di ricorso adesivo (omesso esame di fatto decisivo; ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; violazione art. 116 c.p.c., comma 2, artt. 194 e 229 c.p.c. e dell’art. 2733 c.c.), dedotto dalla Provincia Religiosa, che, diversamente da quello dell’ A., è invece ammissibile, in quanto rispondente ai requisiti prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 (avendo provveduto l’Ospedale ricorrente a trascrivere l’anamnesi raccolta dal CTU, e ad indicare il relativo documento – ricorso Provincia pag. 9-10).

Alle considerazioni già svolte nell’esame del motivo di ricorso principale, può aggiungersi che rimane pienamente smentita l’allegazione difensiva secondo cui la Corte d’appello avrebbe anapoditticamente destituito di fondamento probatorio le dichiarazioni confessorie della M., senza indicare alcun altro elemento di prova contrario.

Emerge, infatti, dalla sentenza impugnata che la prova della anticipata interruzione del monitoraggio cardiotocografico è stata individuata dal Giudice di merito in base: alla lunghezza del tracciato non corrispondente al tempo trascorso fino al trasferimento in sala parto; alla assenza di elementi confermativi del malfunzionamento del macchinario, addotto dalle parti convenute; alla non decisività – in ordine alla dimostrazione della attivazione del CTG – dell’orario delle annotazioni, relative alla infusione di ossitocina ed alla frequenza cardiaca, riportate sul “partogramma”; alla incompatibilità dei segni finali del tracciato CTG che non presentavano un andamento dei picchi alterato, invece tipico dell’ultima fase del travaglio in cui le contrazioni sono più frequenti.

Secondo motivo: violazione degli artt. 1223,1224,2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il motivo con il quale la ricorrente principale A. censura la sentenza di appello per aver liquidato il risarcimento del danno “cumulando” rivalutazione monetaria ed interessi, deve ritenersi infondato.

La Corte distrettuale si è, infatti, attenuta al principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui, al fine di evitare ingiustificate locupletazioni da parte del danneggiato, qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata “per equivalente”, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso: in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 1712 del 17/02/1995 alla quale si sono conformate, con giurisprudenza ormai consolidata, le successive pronunce delle sezioni semplici: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2796 del 10/03/2000; id. Sez. 3, Sentenza n. 492 del 15/01/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 2588 del 22/02/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 5503 del 08/04/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 18445 del 17/09/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 18490 del 25/08/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 4791 del 01/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 9926 del 26/04/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 21396 del 10/10/2014).

Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito, hanno, infatti, fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c. (che si risolvono in una liquidazione forfetaria del danno commisurato alla perdita della naturale fruttuosità del denaro), in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dalla temporanea indisponibilità dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, la quale non viene a risarcire un altro e maggiore danno, ma è soltanto una diversa espressione monetaria del medesimo danno (dovendo rendersi effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere, pertanto, adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale). Ne consegue che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è sempre implicitamente inclusa anche la richiesta di riconoscimento, sia degli interessi “compensativi”, sia della rivalutazione monetaria – quali componenti indispensabili del risarcimento, tra loro concorrenti attesa la diversità delle rispettive funzioni – ed il Giudice di merito deve attribuire gli uni e l’altra anche se non espressamente richiesti, pure in grado di appello, senza per ciò incorrere in ultrapetizione (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18243 del 17/09/2015).

La Corte d’appello ha correttamente evidenziato come nella specie il credito di valore fatto valere dai danneggiati implicasse il riconoscimento di tutte le diverse componenti integranti il pieno ristoro del danno, tra cui anche la rivalutazione monetaria e gli interessi cd. compensativi, questi ultimi calcolati al saggio legale dalla data dell’evento “sulla somma devalutata alla medesima e quindi annualmente rivalutata sulla base degli indici ISTAT”, criterio che esclude la mera sommatoria delle poste (ovvero il calcolo degli interessi sulla somma capitale rivalutata all’attualità) e deve, pertanto, ritenersi pienamente conforme alle indicazioni fornite da questa Corte, in ordine alla liquidazione del danno derivante da illecito. Pertanto appare del tutto infondata la critica mossa alla decisione impugnata, con la quale si lamenta un illegittimo cumulo degli interessi con la rivalutazione monetaria, sia ove intesa a denunciare la violazione dei principi di diritto enunciati da questa Corte, sia ove rivolta, invece, a censurare proprio tali principi, in base ad una irragionevole equiparazione di fattispecie ontologicamente distinte ed alla estensione anche alle obbligazioni di valore della disciplina del danno da ritardo propria delle obbligazioni di valuta.

Le stesse considerazioni valgono anche a supportare la dichiarazione di infondatezza dell’analogo secondo motivo del ricorso adesivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1224 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dedotto dalla Provincia Religiosa.

Terzo motivo: violazione degli artt. 1174,1175 e 1917 c.c..

La ricorrente principale A. censura la statuizione della sentenza di appello che ha escluso la “mala gestio propria” di UNIPOL Ass.ni s.p.a (già CAB Ass.ni s.p.a.), che assicurava la responsabilità professionale del medico, non avendo ravvisato il Giudice di merito l’ingiustificato ritardo nella condotta tenuta dalla società assicurativa (La Fiduciaria Ass.ni s.p.a., poi CAB Ass.ni s.p.a., UNIPOL Ass.ni s.p.a., quindi UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a.), la quale, già nel 1998, era a conoscenza della richiesta risarcitoria formulata dai danneggiati, avendo assunto, giusta clausola di polizza stipulata in data 25.5.1988, la difesa dell’ A. nel procedimento penale, in cui era stata svolta un perizia collegiale, sfavorevole al medico, ed in base alla quale era stato disposto il rinvio a giudizio della A. per il reato di cui all’art. 583 c.p., comma 2, n. 1) e art. 590 c.p., dovendosi pertanto ritenere che la compagnia assicurativa, a quel tempo, disponesse già di tutti gli elementi di valutazione necessari per prevedere un probabile esito negativo del giudizio, e dunque una affermazione di responsabilità dell’assicurato.

Secondo la ricorrente la compagnia assicurativa era rimasta colpevolmente inerte, mentre avrebbe dovuto mettere a disposizione immediatamente il massimale di polizza, al più tardi alla data 14.4.2001 di trasmissione dell’atto di citazione, notificato all’ A. il 12.4.2001, contenente la pretesa risarcitoria.

La Corte d’appello ha rigettato la domanda di condanna per responsabilità ultramassimale, rilevando che la mera “denunzia di sinistro” alla società assicuratrice, effettuata all’inizio del procedimento penale, non era allegazione idonea a dimostrare che l’assicurata avesse inteso richiedere alla società assicurativa la messa a disposizione dell’intero massimale a favore dei danneggiati, risultando al contrario che la A. aveva subordinato l’adempimento da parte della società assicurativa delle obbligazioni derivanti dalla polizza RC ad una pronuncia giudiziale di condanna, non integrando quindi una inerzia colpevole i fatti allegati dalla A. in primo grado.

Il motivo è inammissibile in quanto, da un lato, la dedotta – apparente violazione di norme di diritto (“error in judicando”) sottende, invece, la richiesta di riesame del fatto storico, in quanto, secondo la tesi difensiva, la Corte di appello non avrebbe correttamente valutato che la società assicurativa doveva ritenersi in mora – essendo stata in grado di esaminare e verificare la attendibilità della pretesa risarcitoria – già nel corso del procedimento penale, avendo assunto, con un proprio legale, la difesa della A., giusta clausola di assistenza legale prevista dalla polizza; dall’altro, il motivo in esame viene a reiterare l’argomento, già speso nei gradi di merito, volto a far coincidere la prova della “responsabilità ultramassimale”, per violazione dei doveri di diligenza e buona fede ex art. 1375 c.c., con la mera ricezione e conoscenza della denuncia di sinistro, senza quindi contrastare efficacemente in diritto la “ratio decidendi” secondo cui tale circostanza – in assenza di allegazione da parte dell’assicurato di elementi circostanziali certi comprovanti la propria responsabilità nella causazione del danno o di una sua ammissione spontanea di responsabilità, o della volontà adesiva a proposte transattive ricevute dai danneggiati – è da ritenere ex se “neutra”, alla stessa stregua dell’inizio del procedimento penale, e dunque è insufficiente a fondare una inerzia colpevole dell’assicuratore.

La ricorrente principale non specifica, infatti, quale elemento fattuale (oltre alla mera denuncia del sinistro) a sostegno della domanda di condanna ultramassimale della società assicurativa sia stato dedotto nel giudizio di merito in primo grado e sia stato fatto constare con il pertinente motivo di gravame, atteso che dall'”atto di citazione per chiamata in garanzia impropria” (trascritto a pag. 22 ricorso A.) risulta che la “causa petendi” era stata individuata nel “mancato adempimento, subito alla denunzia di sinistro…(o)..all’inizio del procedimento penale”.

In difetto di specifica allegazione dei fatti dimostrativi della scorretta o negligente esecuzione degli obblighi contrattuali imposti all’assicuratore, il motivo (quando anche riconsiderato in relazione al diverso vizio di legittimità per “errore sul fatto”) si appalesa privo dei requisiti di specificità prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, indispensabili all’accesso del sindacato di legittimità.

Quanto al ritardo imputabile in cui sarebbe incorsa la compagnia assicurativa per il solo fatto di avere ricevuto la “denuncia di sinistro” o, successivamente, la notifica dell’atto di citazione per “chiamata in garanzia”, vale osservare che la censura della ricorrente principale non investe minimamente la statuizione della sentenza di appello secondo cui doveva, in ogni caso, escludersi una violazione dell’obbligo di buona fede cui è tenuto l’assicuratore nell’adempimento delle proprie obbligazioni contrattuali, in quanto la stessa A. aveva esplicitamente subordinato il pagamento delle somme pretese dagli attori a titolo risarcitorio “ad una pronuncia giudiziale di condanna” (sentenza appello, in motivazione, pag. 10), con ciò avendo la stessa assicurata legittimato il comportamento “attendista” della società assicurativa. Peraltro, sottace la ricorrente principale, la circostanza che CAB Assicurazioni s.p.a., successivamente alla pronuncia condanna immediatamente esecutiva, emessa in primo grado dal Tribunale, aveva contattato l’ A., ricevendo l’assenso al versamento dell’intero massimale di polizza ai danneggiati ed aveva provveduto di conserva (cfr. controricorso UNIPOLSAI, pag. 4-5, 16).

Indipendentemente dalla inammissibilità del motivo, in quanto non censura detta autonoma “ratio decidendi”, vale ulteriormente rilevare come la stessa ricorrente (ricorso A., pag. 22-23), nel riportare un estratto della comparsa conclusionale in primo grado della CAB Ass.ni s.p.a., lungi dal dimostrare una condotta dell’assicuratore ingiustificata mente “oppositiva” alla messa a disposizione dell’intero massimale a favore dei danneggiati, pone al contrario in evidenza le obiettive incertezze emerse nelle indagini peritali svolte sia nel procedimento penale – del quale peraltro neppure viene riferito l’esito che nel giudizio civile (“….La vicenda oggetto del giudizio ha dato luogo, così come avvenuto durante le indagini preliminari, ad un intenso dibattito tra i diversi medici che hanno ricostruito in termini radicalmente diversi le cause dello stato attuale in cui versa il figlio degli attori…”), circostanza questa che appare incompatibile con la prospettata “mala gestio” per non avere la società assicurativa provveduto a porre immediatamente a disposizione dei danneggiati l’intero massimale di polizza, atteso che per giurisprudenza consolidata di questa Corte, la responsabilità ultramassimale per “mala gestio propria”, presuppone che la responsabilità dell’assicurato e l’ammontare del danno siano determinabili dall’assicuratore alla stregua dell’ordinaria diligenza e del principio di buona fede, mediante una valutazione da compiere “ex ante” con riferimento alla situazione preesistente ed alla probabilità dell’esito del giudizio, e non “ex post” sulla base della sua effettiva conclusione (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24747 del 28/11/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 11908 del 13/05/2008; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 25091 del 24/10/2017; id. Sez. 3, Sentenza n. 25222 del 29/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 4892 del 14/03/2016).

Manifestamente inammissibile deve essere dichiarato, invece, l’analogo terzo motivo del ricorso adesivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1174,1175,1017 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) proposto da (OMISSIS), per difetto assoluto del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, non avendo la ricorrente incidentale investito la “ratio decidendi” della statuizione con la quale la Corte d’appello aveva dichiarato inammissibile, astante il divieto dei “nova” ex art. 345 c.p.c., il quinto motivo di gravame della Provincia Religiosa, volto a dedurre la responsabilità ultramassimale di DUOMO Ass.ni s.p.a., “trattandosi di una domanda proposta per la prima volta in appello”.

Alcuna critica viene rivolta dalla ricorrente incidentale alla predetta statuizione in rito della sentenza di appello, rimanendo quindi precluso l’accesso del motivo di ricorso al sindacato di legittimità.

B- ricorso incidentale (proposto da (OMISSIS)).

Il primo, terzo e quarto motivo, in quanto tutti diretti a contestare la validità della clausola “claims made” (“pretesa formulata”) debbono essere esaminati in sequenza, rimanendo subordinato l’esame del secondo motivo, concernente diversa questione.

Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c., comma 2, art. 1882 c.c., art. 1917 c.c., comma 1, nonchè degli artt. 1362 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’Ospedale impugna la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto valida la clausola “claims made”, contenuta nella polizza 613-201025 contratta dalla Provincia Religiosa con Duomo Ass.ni s.p.a. (quindi Società Cattolica di Ass.ne coop a r.l.), sottraendola ai requisiti di cui all’art. 1341 c.c., comma 2, in quanto detta clausola definiva l’oggetto del rischio assicurato e non era stata stipulata con funzione limitativa della responsabilità dell’assicuratore.

Sostiene la ricorrente incidentale che gli indici sintomatici di vessatorietà della clausola sarebbero da rinvenire nei seguenti elementi:

– le “norme generali di polizza”, all’art. 13, prevedono che l’obbligo di indennizzo concerne “un fatto accidentale verificatosi in relazione ai rischi per i quali è stipulata l’assicurazione”, sicchè “aggiungere” al predetto evento condizionante l’insorgenza dell’obbligo di adempimento dell’assicuratore, anche la “richiesta di risarcimento” formulata dal danneggiato “durante il periodo di vigenza della polizza” (condizione particolare n. 1 “inizio e termine della garanzia”), non corrisponderebbe al tipo negoziale definito dell’art. 1917 c.c., comma 1, dovendo quindi essere ritenuta tale clausola affetta da invalidità, per difetto di specifica sottoscrizione ex art. 1342 c.c., comma 2, nonchè ex art. 2965 c.c., per contrarietà a buona fede (la ricorrente incidentale richiama il precedente di questa Corte Cass. n. 3622/2014 secondo cui tale clausola potrebbe determinare un’alterazione del rapporto di corrispettività tra pagamento premio e diritto all’indennizzo);

– la clausola determinerebbe uno squilibrio a sfavore dell’assicurato, imponendo una “condizione aggiuntiva” al pagamento dell’indennizzo assicurativo, consistente in un ulteriore evento futuro ed incerto, e riducendo in tal modo l’ambito oggettivo della “responsabilità” dell’assicuratore, in quanto la esigibilità dell’adempimento dell’assicuratore non sarebbe più riconducibile esclusivamente alla verificazione del fatto dannoso (la ricorrente richiama il precedente Corte Cass. n. 5624/2005);

– la clausola consente all’assicuratore sostanzialmente di recedere dalla esecuzione del contratto, sottraendosi puramente e semplicemente all’adempimento, in virtù della mera “denuncia di danno” effettuata dal terzo, che è circostanza del tutto estranea ai contraenti, in tal modo venendo ad introdursi anche una decadenza a carico dell’assicurato, in violazione dell’art. 2965 c.c. e dell’art. 1341 c.c., comma 2.

– la clausola costringerebbe l’assicurato a rinnovare la polizza con la medesima Compagnia assicurativa, onde evitare una soluzione di continuità nella copertura della pria responsabilità civile.

Nessuna delle argomentazioni addotte dalla ricorrente incidentale è meritevole di essere condivisa, ed il primo motivo, nelle sue distinte censure, deve, pertanto, ritenersi infondato.

Dopo alcuni contrasti emersi nella giurisprudenza di legittimità la questione concernente la validità della clausola “claims made” apposta nelle polizze assicurative della responsabilità civile, è stata definitivamente risolta dalle Sezioni Unite che hanno statuito il principio – massimato dal CED della Corte secondo cui “nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola “claims made” mista o impura), non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero – ove applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 206 del 2005 – per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 9140 del 06/05/2016), ulteriormente specificato nella enunciazione del principio per cui “il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917 c.c., comma 1, consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 1, della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati”.

Gli arresti indicati hanno preso atto della evoluzione della prassi di settore che aveva ricevuto, peraltro, il crisma normativo in plurimi e recenti interventi legislativi i quali, come è stato rilevato dalle Sezioni Unite, avevano semplicemente “recuperato nel substrato della realtà materiale socioeconomica una regolamentazione giuridica pattizia già diffusa nel settore assicurativo”, che aveva preso atto della inadeguatezza, in particolare nelle ipotesi di sinistri produttivi di danni cd. “lungolatenti”, del principio della “loss occurrence” contemplato dall’art. 1917 c.c., comma 1, apportandovi le deroghe consentite dall’art. 1932 c.c. (cfr. Corte Cass. SSUU n. 22437/18 cit., in motiv. pag. 21), e venendo in tal modo a ridefinire “i modi ed i limiti” stabiliti dal contratto assicurativo, attraverso una delimitazione dell’oggetto del contratto, piuttosto che introducendo dei limiti alla responsabilità dell’assicuratore (cfr. Corte cass. SSUU n. 9140/16 cit. in motiv. pag. 12). La clausola “claims made” (sia nella forma cd. “pura” -estesa ai fatti commessi anteriormente all’inizio di efficacia della polizza -; sia nella forma cd. “impura” – che subordina la copertura assicurativa alla contestuale occorrenza nel periodo di vigenza della polizza, tanto del sinistro, quanto della richiesta di risarcimento del danno -) ha trovato, infatti, fondamento normativo: nel D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, lett. e), convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, (come modificato dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 26), recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” (che, imponendo l’obbligo assicurativo agli esercenti le professioni liberali, dispone che le proposte delle società assicurative debbono contenere “l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura.”); nel D.M. Giustizia 22 settembre 2016, recante il regolamento, autorizzato dalla L. 31 dicembre 2012, n. 241, art. 12, comma 5 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), che, all’art. 2, comma 1, prescrive: “l’assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata ed una ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l’attività nel periodo di vigenza della poilizza”; ed ancora nella L. 8 marzo 2017, n. 24. “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” che, all’art. 11, dispone che “La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purchè denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza. In caso di cessazione definitiva dell’attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. L’ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”.

Ne segue che vengono a cadere tutte le obiezioni mosse dalla ricorrente incidentale che, peraltro, sembrano volere sovrapporre i distinti piani del vizio di nullità causale del negozio e della qualificazione di vessatorietà-invalidità della clausola.

Nella clausola “claims made pura”, infatti, la maggiore alea per l’assicurato di vedersi non indennizzati i sinistri che vengono a verificarsi in prossimità della scadenza della polizza (ove entro tale termine non venga altresì formulata la richiesta risarcitoria), viene ad essere compensata dalla maggiore alea che grava sull’assicuratore per eventuali richieste risarcitorie presentate dopo l’inizio della efficacia del contratto, per sinistri occorsi anteriormente ad essa: non risultando in tal modo alterato il sinallagma delle prestazioni a carico dei contraenti.

Al riguardo osserva il Collegio che il modello della clausola in questione, comunemente utilizzato nella prassi assicurativa, viene ad articolarsi secondo lo schema della “retroattività” (fatti dannosi già accaduti prima della stipula del contratto) o della “ultrattività” (fatti dannosi che si verificheranno dopo la scadenza del termine di durata del contratto). La previsione del fatto e del suo riferimento cronologico non esaurisce, tuttavia, la fattispecie cui è collegata la insorgenza del diritto ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli della responsabilità civile, occorrendo necessariamente anche l’ulteriore elemento – esterno alla sfera di controllo dei contraenti, e come tale incerto e tale per ciò da rendere compatibile la clausola “claims made” con lo schema causale del contratto assicurativo delineato nell’art. 1895 c.c. – della manifestazione di esercizio del diritto al risarcimento del danno da parte del terzo danneggiato. Ma è proprio l’elemento aleatorio costituito dalla incertezza della richiesta risarcitoria che viene ad essere temporalmente circoscritto in tali clausole, così da consentire all’assicuratore di meglio calibrare il proprio impegno nel tempo (in relazione all’accantonamento delle riserve necessarie a fare fronte a richieste pervenute, per fatti verificatisi nel periodo di vigenza della polizza, anche a notevole distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di garanzia: art. 2952 c.c., comma 3) e, correlativamente, di definire con maggiore precisione il premio assicurativo (in relazione alla limitazione temporale della possibile verificazione del rischio), con beneficio anche per l’assicurato.

Ed tale corrispondente migliore definizione delle prestazioni dei contraenti (misura del premio corrispondente alla entità del rischio assunto), viene a costituire indizio sintomatico – nel giudizio di validità demandato al Giudice di merito, non più sulla compatibilità della clausola “claims made”, in sè considerata, con la struttura del “tipo” negoziale della assicurazione della responsabilità civile, ma sulla “tenuta” di tale clausola rispetto al complessivo programma che le parti hanno inteso concordemente attuare al fine della regolazione dei rispettivi interessi – della esclusione di un abusivo squilibrio delle posizioni contrattuali delle parti, che potrebbe, invece, ravvisarsi laddove la predetta clausola, inserita nel complesso delle altre disposizioni contrattuali (si pensi ad esempio ad una clausola di recesso unilaterale posta a favore dell’assicuratore, nonchè ad altre clausole che stabiliscono termini di decadenza o particolari oneri a carico dell’assicurato), venga a realizzare “un sistema” di restrizione delle condizioni di adempimento della obbligazione indennitaria, tale da eludere sostanzialmente la stessa funzione causale del contratto, che pertanto verrebbe a risolversi nella mera onerosità del premio anticipatamente corrisposto dall’assicurato.

Non vi è dubbio che – come evidenziato da Corte cass. SSUU n. 22437/18 cit. – il sistema assicurativo della responsabilità civile persegua anche un fondamentale interesse pubblico, attraverso “una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito” ed ancor più assolvendo alla funzione di garantire la reintegrazione del pregiudizio subito dai danneggiati, funzione che appare evidente nelle assicurazioni sociali, ma che trova attuazione anche nelle polizze RC private, atteso che la assunzione da parte delle imprese assicuratrici degli oneri economici gravanti sull’assicurato, in dipendenza della sua responsabilità civile, ridonda evidentemente nel generale affidamento dei terzi ingiustamente danneggiati sulla possibilità di ottenere il ristoro degli interessi lesi.

Tuttavia, pur non potendo disconoscersi l’interesse superindividuale che è sotteso al sistema assicurativo della responsabilità civile, osserva il Collegio che una valutazione in termini di validità della clausola “claims made” da effettuare in relazione ad i suoi riflessi sulla “causa concreta” del contratto assicurativo, non possa estendersi fino a riconsiderare tale funzione sociale, che costituisce la risultanza del sistema complessivo, come criterio privilegiato ai fini della verifica di corrispondenza della clausola alla efficienza del programma negoziale od alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni assunte dai contraenti; nè pare consentito condurre la predetta verifica di validità della clausola soltanto attraverso una mera valutazione della convenienza economica dell’importo del premio, venendo in tal modo ad invadersi l’ambito di autonomia negoziale dei privati.

Il giudizio dovrà piuttosto estendersi al controllo delle complessive clausole del contratto assicurativo ed al risultato operativo finale che, dalla interpretazione sistematica delle stesse e dalla esecuzione in concreto attuata dai contraenti, viene ad emersione, e che dovrà essere, pertanto, valutato alla stregua del parametro fornito dalla effettiva funzionalità del modello, così in concreto individuato, a regolare gli interessi per la cura dei quali le parti hanno inteso definire il programma negoziale, venendo a tal fine in rilievo, come elemento unificante della verifica, la applicazione della clausola generale di buona fede (artt. 1366,1375 c.c.).

Pertanto, esclusa la natura vessatoria della clausola “claims made”, in quanto non integrante una limitazione di responsabilità (non venendo in questione la misura della prestazione reintegratoria del danno cui è tenuto il contraente inadempiente per colpa alla obbligazione dedotta in contratto), ma riconducibile piuttosto alla delimitazione del rischio incidente sull’oggetto del contratto, deve ritenersi infondata la censura relativa al vizio di nullità per mancata specifica sottoscrizione ex art. 1341 c.c., comma 2, della clausola, prevista nella Condizione Particolare n. 1 di polizza, secondo cui “tali sinistri sono coperti in manleva dall’assicuratore purchè (a condizione che…) il risarcimento del danno venga chiesto durante il periodo di validità della polizza diverso da quello previsto per l’accadimento dei fatti/sinistri (tempo dell’assicurazione)…” (cfr. ricorso incidentale, pag. 16).

Non sussiste, altresì, alcuna incompatibilità logica nè viene in rilievo alcun dubbio interpretativo tra le “Condizioni particolari di polizza” (che prevedono l’indennizzo in dipendenza delle “richieste risarcitorie”) e le “Norme generali di polizza” (che indicano l’oggetto della assicurazione nella “responsabilità patrimoniale per danni cagionati involontariamente” – con riferimento all’accadimento del sinistro -), atteso che entrambi i presupposti fattuali indicati vengono a concorrere alla definizione dell'”oggetto del rischio” assicurato. Infondata è, quindi, anche la censura di asserita violazione del criterio ermeneutico di cui all’art. 1370 c.c..

La ricorrente incidentale neppure evidenzia quale sia l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nella interpretazione delle clausole contrattuali. Il Giudice di merito ha, infatti, preso in disamina sia la “Norma generale”, riportata nel frontespizio della polizza, che correla l’obbligazione assicurativa al “sinistro” inteso come “fatto dannoso”, sia il testo dell’Allegato di polizza ove veniva espressamente specificato che “in sostituzione” della predetta Norma generale “per sinistro si intende: la richiesta di risarcimento danni per i quali è prestata l’assicurazione”, ed è venuto quindi a concludere che la Condizione particolare n. 1, nella quale veniva disposto che “l’assicurazione vale per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta dall’assicurato nel corso del periodo di efficacia dell’assicurazione”, era da ritenere prevalente – in quanto specificativa ed integrativa del rischio assicurato – rispetto alla predetta “Norma generale” di polizza.

Pertanto la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di interpretazione sistematica delle clausole ex art. 1363 c.c., indicando anche il criterio di prevalenza della clausola particolare, in quanto derogativa della disposizione generale, conformemente alle indicazioni fornite da questa Corte (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 961 del 25/03/1969; id. Sez. 3, Sentenza n. 4643 del 27/04/1995, secondo cui, nei contratti conclusi mediante moduli o formulari predisposti da una delle parti, al fine di stabilire se una clausola ad essi aggiunta abbia o meno portata derogativa di una delle condizioni generali, resta irrilevante che la stessa debba trovare comunque richiamo in una delle predette condizioni occorrendo invece accertare l’intento dei contraenti mediante un esame globale della convenzione per riscontrare se il patto aggiunto sia in contrasto con quanto predisposto o adempia ad una funzione integratrice o specificatrice).

Le ulteriori questioni inerenti il contenuto della polizza assicurativa e la descrizione di altre clausole, richiamate dalla ricorrente incidentale al fine di una diversa interpretazione complessiva del contratto, richiedendo nuovi accertamenti in fatto, peraltro prospettati per la prima volta con la memoria illustrativa, sono sottratte all’ambito della verifica di legittimità che rimane circoscritta alle censure dedotte con il motivo in esame.

Terzo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2965 c.c..

Sostiene la ricorrente incidentale che, pur non essendo stata sollevata la relativa eccezione nei precedenti gradi di merito, questa Corte è tenuta di ufficio a rilevare la nullità della clausola “claims made”, in quanto con la stessa sarebbe stato stabilito un “termine di decadenza” che renderebbe eccessivamente difficile all’assicurato l’esercizio del proprio diritto.

Il motivo è inammissibile e totalmente destituito di fondamento giuridico.

E’ inammissibile in quanto, per stessa ammissione della ricorrente incidentale, la eccezione di nullità ex art. 2965 c.c., non era mai stata sollevata prima, nel corso del giudizio di merito (cfr. ricorso incidentale, pag. 31). Tanto è sufficiente a concludere per la inammissibilità del motivo, in quanto volto a prospettare una “nuova” eccezione in senso stretto, non rilevabile ex officio (art. 2969 c.c.).

Qualora poi la ricorrente incidentale avesse inteso far valere la natura vessatoria della clausola “claims made” che – secondo la tesi difensiva introduceva il termine di decadenza, e la conseguente invalidità ex art. 1341 c.c., comma 2, per omessa specifica sottoscrizione, osserva il Collegio che (indipendentemente dal rilievo per cui anche in questo caso la censura è inammissibile per difetto del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non avendo la Provincia Religiosa dimostrato di avere impugnato in appello la statuizione del Tribunale che, come riferito nel controricorso da Cattolica Ass.ni s.p.a., aveva escluso la necessità della doppia sottoscrizione perchè la clausola era contenuta in un Capitolato speciale redatto dalla stessa Provincia Religiosa) non risulta comprensibile in che modo dalla clausola “claims made” possa inferirsi la apposizione di un “termine di decadenza” che renda per di più eccessivamente difficile l’esercizio del diritto all’indennizzo assicurativo.

Alla apposizione di un termine di decadenza consegue la estinzione del potere di esercitare un diritto, in difetto del compimento dell’atto richiesto entro il termine previsto. L’esercizio del diritto implica, pertanto, da un lato, la facoltà del soggetto titolare di esso di determinarsi liberamente, e dall’altro la esistenza di una situazione giuridica attuale, ossia che il diritto sia effettivamente insorto.

Il diritto di cui si controverte è quello scaturente dal contratto assicurativo e più esattamente dalle condizioni pattuite in contratto (in relazione alla verificazione del rischio assicurato) per la insorgenza del credito e la esigibilità della corrispondente obbligazione indennitaria.

Nella polizza in cui opera la clausola “claims made”, il diritto al pagamento dell’indennizzo insorge soltanto con la presentazione della “richiesta di risarcimento” (che presuppone il fatto dannoso), sicchè, da un lato, il trascorre del tempo dal “fatto-sinistro” al momento in cui perviene la richiesta risarcitoria, non dipende dalla condotta del titolare del diritto, ma dalla condotta di un terzo estraneo al rapporto contrattuale e non legittimato ad esercitare il diritto asseritamente subordinato a termine di decadenza (circostanza che di per sè esclude la stessa astratta configurabilità, attraverso la clausola in questione, della apposizione di un termine di decadenza a carico dell’assicurato); dall’altro, non essendo ancora insorto il diritto all’indennizzo (in quanto non condizionato al solo sinistro, ma anche alla richiesta di ristoro del danno), non potrebbe in ogni caso ipotizzarsi, prima che pervenga la richiesta risarcitoria del terzo, alcun onere dell’assicurato di esercitare, nel termine di decadenza, un diritto ancora inesistente.

Quarto motivo: nullità della clausola per violazione del principio di buona fede, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente incidentale deduce che il comportamento tenuto da DUOMO Ass.ni s.p.a. doveva ritenersi improntato a mala fede, in quanto l’apposizione della clausola “claims made” nelle Condizioni particolari di polizza anzichè nelle Condizioni generali, sotto il titolo “oggetto dell’assicurazione”, induceva a dimostrare la specifica volontà decettiva della società, intesa a trarre in errore ed in equivoco l’assicurato che aveva fatto affidamento sulle sole indicazioni immediatamente percepibili del documento di polizza che facevano riferimento al “fatto-sinistro”.

Il motivo è inammissibile.

Indipendentemente dalla irrilevanza della tecnica di redazione del testo negoziale, atteso che – non ricorrendo nella specie la ipotesi di clausola vessatoria, non incidendo la clausola claims made sulla limitazione di responsabilità dell’assicuratore – il contraente è tenuto nello svolgimento della autonomia privata ad esercitare la dovuta diligenza, accertando con attenzione, prima di assumere vincoli obbligatori, se le clausole del contratto corrispondono effettivamente a quanto voluto, e ferma la inequivoca “deroga” della disposizione delle CGA disposta dalla clausola delle Condizioni particolari (che individua come evento condizionante la prestazione indennitaria il momento in cui perviene la “richiesta risarcitoria” del terzo in luogo del tempo in cui si è verificato il fatto dannoso), la censura si palesa inammissibile sia in relazione alla mancata osservanza dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, non essendo state trascritte, nè individuate nel fascicolo processuale, le disposizioni delle CGA derogate, risultando pertanto impedito a questa Corte finanche di verificare se e quali caratteristiche “ingannevoli”, tali da sorprendere il contraente, presenti il testo di polizza; sia in relazione alla omessa allegazione degli elementi indiziari evidenzianti la asserita asimmetria informativa, dovendo al riguardo, peraltro, tenersi conto che l’ente religioso contraente è da considerare “soggetto professionale” che svolge da lungo tempo la attività di erogazione di servizi sanitari ed al quale deve, quindi, riconoscersi un appropriato livello di avvedutezza nella instaurazione dei rapporti obbligatori che concernono il settore di competenza (e nella scelta della polizza assicurativa a copertura dei rischi derivanti dallo svolgimento della predetta attività, un tale soggetto si pone da un punto di vista privilegiato in ordine alla individuazione delle possibili conseguenze dannose, ed alla valutazione della corrispondenza dell’offerta assicurativa alle proprie esigenze), ciò che impedisce nella fattispecie qualsiasi astratta assimilazione dell’ente assicurato alla “parte debole” del contratto, alla stessa stregua di un mero “consumatore”.

Oltre all’affermazione che la “deroga” alla disposizione delle CGA relativa all'”oggetto dell’assicurazione” era contenuta nelle Condizioni particolari, alcun altro elemento indiziario è stato allegato dalla (OMISSIS) a sostegno del comportamento in mala fede della DUOMO Assicurazioni s.p.a., tanto più che la questione della violazione dell’art. 1175 c.c., nella stipula del contratto, neppure pare essere stata fatta oggetto di esplicite contestazioni in primo grado, nè nei motivi di gravame (cfr. controricorso, pag. 4-5), tutti interamente incentrati sulla asserita vessatorietà della clausola “claims made” e sul vizio di nullità della stessa ex art. 1341 c.c., comma 2, sicchè la censura si palesa inammissibile anche in quanto risulta “nuova”, essendo proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità.

Esaminato il gruppo di motivi del ricorso incidentale rivolti ad impugnare le statuizioni della sentenza di appello concernenti la clausola “claims made”, può dunque procedersi all’esame del secondo motivo (omesso esame punto decisivo, violazione artt. 131 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – temporaneamente accantonato – del medesimo ricorso incidentale.

La ricorrente incidentale impugna la sentenza di appello, per omessa statuizione in ordine al motivo di gravame con il quale la Provincia Religiosa aveva lamentato che il Tribunale, in primo grado, non aveva specificato che DUOMO Assicurazioni s.p.a. era tenuta all’obbligo di corrispondere l'”intero massimale” di polizza (di lire tre miliardi). Deduce la ricorrente incidentale che la società assicurativa aveva inteso limitare ad un miliardo di lire detto massimale, in base alla clausola limitativa dei danni risarcibili per “singola persona”, mentre, sussistendo nella specie una pluralità di soggetti danneggiati (minore e genitori), avrebbe dovuto trovare applicazione la clausola di polizza che fissava a lire tre miliardi il massimale “complessivo per sinistro riguardante la garanzia di responsabilità civile verso terzi”.

La questione – rimasta assorbita nella pronuncia della Corte d’appello che aveva ritenuto infondata la domanda di adempimento della polizza in applicazione della clausola “claims made” – e reiterata con il presente motivo di ricorso, deve essere dichiarata assorbita, attesa la infondatezza dei precedenti motivi di ricorso incidentale.

In conclusione:

entrambi i ricorsi principale, proposto da A.E., ed incidentale adesivo, proposto da (OMISSIS), debbono essere rigettati (ricorso principale: primo motivo inammissibile, secondo motivo infondato, terzo motivo inammissibile; ricorso adesivo: primo motivo infondato, secondo motivo infondato; terzo motivo inammissibile)

il ricorso incidentale autonomo, proposto da (OMISSIS), va rigettato (infondato il primo motivo; inammissibili il terzo ed il quarto motivo; assorbito il secondo motivo).

A.E. e la (OMISSIS) sono tenute, ciascuna, a rifondere le spese del giudizio di legittimità ai controricorrenti S.P. e M.G., in proprio e n.q., come liquidate in dispositivo, avuto riguardo alle differenti difese da questi spiegate nei distinti controricorsi.

A.E. va, altresì, condannata a rifondere le spese del giudizio di legittimità ad UNIPOLSAI Assicurazioni s.p.a., come liquidate in dispositivo.

La (OMISSIS) è tenuta a rifondere le spese del giudizio di legittimità in favore di Soc. Cattolica di Assicurazione coop. a r.l., liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale proposto da A.E. ed il ricorso incidentale adesivo proposto da (OMISSIS)”;

rigetta il ricorso incidentale autonomo proposto da (OMISSIS)”.

Condanna i ricorrenti, principale ed incidentale, al pagamento, in favore dei controricorrenti S.P. e M.G., in proprio e n.q., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, a carico di ciascuno dei ricorrenti, in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge;

condanna A.E. al pagamento, in favore della controricorrente UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge;

condanna la (OMISSIS)” al pagamento, in favore della controricorrente Società Cattolica di Assicurazione Coop. a r.l., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di S.G. riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020

 

 

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