Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24458 del 17/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 17/10/2017, (ud. 13/06/2017, dep.17/10/2017),  n. 24458

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10168-2016 proposto da:

ISTITUTO LUIGI CONFIGLIACHI PER I MINORATI DELLA VISTA, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA

SCAFARELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

LUCIA CASELLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.R.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato SAVINA BOMBOI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BRUNO COSSU, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 79/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 02/03/2016 R.G.N. 588/15;

avverso la sentenza non definitiva n. 676/2015 della CORTE D’APPELLO

di VENEZIA, depositata il 01/12/2015 R.G.N. 588/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCIA CASELLA;

udito l’Avvocato BRUNO COSSU.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza non definitiva n. 676/15, pubblicata il 1 dicembre 2015, accogliendo il reclamo proposto da D.R.A., in riforma della sentenza del Giudice del lavoro di Padova, annullava il licenziamento intimato al ricorrente dall’Istituto Luigi Configliachi per i Minorati della Vista e, per l’effetto, condannava l’Ente convenuto a reintegrare il reclamante nel posto di lavoro. Con sentenza definitiva n. 79/2016, pubblicata il 2 marzo 2016, accertava altresì il diritto di parte reclamante a percepire un’indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto con gli interessi legali, previa rivalutazione, dalla data del licenziamento al saldo.

2. Il licenziamento era stato comminato al D.R. in data 20 dicembre 2013 per avere il dipendente utilizzato l’automezzo di proprietà dell’Ente nelle giornate dell’8, 10, 23 e 25 ottobre 2013 senza averne l’autorizzazione e fuori dell’orario di servizio.

3. La Corte territoriale, in sede di sentenza non definitiva, confermava la sussistenza dell’illecito disciplinare, rilevando come il dipendente fosse consapevole dell’esistenza della norma di condotta che gli impediva di utilizzare mezzi dell’ente pubblico per fini privati, ma riteneva che, in ordine al giudizio di proporzionalità, il Giudice di prime cure avesse utilizzato una motivazione stereotipata per giustificare la legittimità dell’irrogazione della sanzione espulsiva, omettendo di considerare:

– che lo stesso Ente convenuto non aveva evidenziato quali fossero le ragioni che lo avevano spinto ad adottare la massima sanzione disciplinare;

– che la disposizione contrattuale prevede l’obbligo di graduare le sanzioni in considerazione di alcuni parametri, quali: a) l’intenzionalità del comportamento, il grado di imprudenza e di imperizia dimostrate, anche in ragione della prevedibilità dell’evento; b) la rilevanza degli obblighi violati; c) le responsabilità connesse agli obblighi di lavoro del dipendente; d) il grado di danno o del pericolo causato all’ente, agli utenti, ai terzi o il grado di disservizio provocato; e) la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti con particolare riguardo al comportamento tenuto dal lavoratore, l’esistenza di precedenti disciplinari nel biennio o il comportamento tenuto verso terzi; f) il concorso con altri lavoratori in accordo;

– che, nel caso di specie, il reclamante, fisioterapista, non occupava una posizione di particolare responsabilità all’interno dell’Ente; dalla condotta non era derivato alcun danno nè all’Ente nè tantomeno al servizio o agli utenti; il D.R. era stato negligente, essendo convinto che fosse sufficiente ottenere le chiavi dalla custode per essere autorizzato all’uso del mezzo pubblico per fini privati, disattendendo il codice di comportamento dei pubblici dipendenti; peraltro, non aveva occultato in alcun modo la propria condotta, tanto da rivelare quanto accaduto al proprio superiore; in precedenza, non aveva subito sanzioni ed aveva agito da solo, attesa la sua condizione personale di particolare bisogno.

4. La Corte territoriale osservava altresì che il medesimo C.C.N.L. prevedeva, per fatti anche molto più gravi di quello contestato, sanzioni meramente conservative. In conclusione, la fattispecie non poteva integrare la giusta causa del licenziamento, stante il carattere sproporzionato della sanzione rispetto alla fattispecie contestata, sostanzialmente consistente nell'”avere utilizzato, alla luce del sole e con evidente ingenuità, l’automezzo pubblico, per poche occasioni (quattro in 18 giorni), per tragitti brevi e limitati temporalmente, al di fuori dell’orario di servizio”.

5. Proseguito il giudizio per la quantificazione delle spettanze risarcitorie, in sede di sentenza definitiva la Corte di appello osservava che, ritenuto illegittimo il licenziamento per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, novellato dalla L. n. 92 del 2012, il lavoratore aveva diritto, oltre alla reintegrazione già disposta in sede di sentenza non definitiva, ad un risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto non superiore a dodici mensilità. L’Istituto reclamato, per adempiere al precedente ordine giudiziale, aveva corrisposto al ricorrente una somma pari a diciotto mensilità e l’indennità di preavviso, di cui aveva chiesto la restituzione; ne conseguiva l’obbligo di parte reclamante di restituire all’Ente la differenza fra quanto ottenuto in ragione del provvedimento riformato dal Collegio e quanto ritenuto dovuto, con gli accessori maturati dalla data dell’esborso al saldo. L’Ente reclamato doveva essere altresì condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali previsti dalla norma.

6. Per la cassazione delle sentenze emesse dalla Corte d’appello di Venezia, l’Istituto Luigi Configliachi per i Minorati della Vista propone ricorso affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso D.R.A., che preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso avversario.

7. Il controricorrente ha premesso che, secondo la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62, il ricorso per cassazione contro la sentenza che ha deciso sul reclamo deve essere proposto “a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore” e che, secondo l’art. 361 c.p.c., comma 1, “contro le sentenze previste dall’art. 278 c.p.c. e contro quelle che decidono una o alcune domande senza definire l’intero giudizio, il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva a pena di decadenza entro il termine per impugnare in ogni caso non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa”. Sulla scorta di tali premesse, ha eccepito che la sentenza non definitiva – che è l’unica che ha formato oggetto dei motivi di ricorso – era stata depositata il 1 dicembre 2015 e comunicata in pari data, mentre la riserva del ricorso per cassazione era stata formulata da controparte solo all’udienza del 17 febbraio 2016, oltre il termine di sessanta giorni dall’avvenuta comunicazione della sentenza; che pertanto il ricorso è da ritenere inammissibile, quanto alla sentenza non definitiva, per tardività e, quanto alla sentenza definitiva, per assenza di censure.

8. In vista dell’udienza, l’Istituto Luigi Configliachi per i Minorati della Vista ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5, come novellato dalla L. n. 92 del 2012. Si censura la sentenza in quanto, annullando la sanzione perchè sproporzionata, ha fatto applicazione dell’art. 18, comma 4 anzichè del comma 5 stesso articolo. La “maggiore ingiustificatezza” che dà diritto alla reintegrazione è stata individuata dal legislatore del 2012 nell’ipotesi in cui risulti insussistente il fatto contestato, oltre che nell’ipotesi in cui il licenziamento risulti motivato da un addebito per il quale il contratto collettivo prevede solo una sanzione conservativa. La “minore ingiustificatezza”, che dà diritto solo all’indennità, è stata individuata dalla legge in tutti gli altri casi, in cui il fatto sussiste ma non raggiunge la soglia del notevole inadempimento, difettando in tal caso la proporzionalità tra sanzione e fatto posto a base del licenziamento. La Corte di appello ha dunque errato nell’applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 ad un’ipotesi di mera sproporzione della sanzione.

2. Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, per non avere la sentenza esplicitato in quale ipotesi della contrattazione collettiva di settore, punibile con sanzione conservativa, fosse sussumibile la fattispecie concreta, limitandosi ad esaminare le varie clausole contrattuali al solo fine di esprimere un giudizio di non proporzionalità.

3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 3,L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, artt. 23 e 24 CCNL comparto Regioni e autonomie locali del 6 luglio 1995, come modificato dagli artt. 23 e 24 CCNL 22.1.2004, art. 3 CCNL comparto Regioni e autonomie locali dell’11.4.2008. Si censura la sentenza per avere erroneamente enfatizzato e valorizzato il fatto che la condotta ascritta al D.R. non avesse cagionato danni all’Istituto datore di lavoro, laddove non era questa la motivazione posta a base del recesso datoriale; il disvalore della condotta del dipendente non sta nel danno o nel disservizio che, anche potenzialmente, poteva essere causato, ma è intrinseco alla condotta stessa di chi si appropri scientemente di beni dell’Istituto, quindi di un bene pubblico, e più volte, per scopi personali. La condotta qualificata come un’ingenuità in realtà configurava un comportamento intenzionale o, a tutto voler concedere, di grave negligenza, idoneo comunque ad integrare gli estremi della giusta causa.

4. Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività. Essa è fondata.

5. La disposizione di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62, stabilisce che il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello a definizione del reclamo “deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa o dalla notificazione se anteriore”. Il successivo comma 64 aggiunge che “in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’art. 327 c.p.c.”.

5.1. Questa Corte si è già pronunciata in ordine alla decorrenza del termine breve L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 62, e sulla questione della irrilevanza dell’art. 133 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con mod. in L. n. 114 del 2014, affermando (Cass. n. 19177/2016; v. pure Cass. n. 6259/2016 e n. 7571/2016) che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62, decorre dalla semplice comunicazione del provvedimento, trattandosi di previsione speciale che in via derogatoria comporta la decorrenza del termine da detto incombente, su cui non incide la modifica dell’art. 133 c.p.c., comma 2, nella parte in cui stabilisce che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.”, norma attinente al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria.

5.2. E’ stato osservato che il disposto si pone come norma speciale rispetto alla disciplina generale del cosiddetto termine breve di impugnazione, dettata dagli artt. 325 e 326 c.p.c., poichè fa decorrere il termine perentorio dalla comunicazione della sentenza – o dalla notificazione, ma solo se anteriore alla prima – e consente l’applicazione del termine stabilito dall’art. 327 c.p.c. unicamente nel caso in cui risultino omesse sia la notificazione che la comunicazione della decisione.

5.3. Quanto all’art. 133 c.p.c., comma 2, novellato, nella parte in cui stabilisce – come già detto – che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325”, questa Corte ha osservato (Cass. n. 23526 del 2014, recentemente avallata da Cass. SS.UU. n. 25208 del 2015) che la modifica dell’art. 133 c.p.c. in discussione attiene al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria, sicchè non può investire, neppure indirettamente, le previsioni speciali che appunto in via derogatoria, comportino la decorrenza di termini – anche perentori – dalla semplice comunicazione dei provvedimento, e tale è certamente il caso previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62.

5.4. Da ultimo, Cass. n. 16216 del 2016 ha specificamente affermato che, nel rito di cui alla L. n. 92 del 2012, la maggiore novità introdotta in tema di impugnazione, rispetto alla disciplina di cui agli artt. 325 c.p.c. e segg., è data dal rilievo processuale attribuito alla comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria del giudice che lo ha emesso, adempimento da cui decorre il termine di decadenza per il gravame, a differenza del codice di rito, che lo faceva decorrere unicamente dalla notificazione ovvero, in mancanza di questa, dal trascorrere del cd. termine lungo ai sensi dell’art. 327 c.p.c.. (cfr. tra le più recenti, anche Cass. n. 7799 del 2017 e 7351 del 2017).

6. Lo stesso ricorso per cassazione dà atto che la sentenza non definitiva venne depositata e comunicata in data 1 dicembre 2015, mentre quella definitiva venne depositata e comunicata in data 2 marzo 2016. Il ricorso per cassazione risulta notificato il 19 aprile 2016, mentre la riserva di ricorso per cassazione avverso la sentenza non definitiva venne formulata all’udienza del 17 febbraio 2016 (come riferito a pag 8 del ricorso). Pertanto, al momento della formulazione della riserva il termine breve – di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della sentenza non definitiva (1 dicembre 2015) – era già decorso, essendo scaduto il 1 febbraio 2016. Entro tale data l’Istituto avrebbe dovuto proporre ricorso avverso la sentenza non definitiva o proporre riserva.

7. Come osservato da Cass. n. 19036 del 2006, nel rito del lavoro, il termine per la riserva d’appello avverso le sentenze non definitive – trovando applicazione la disciplina ordinaria dettata dall’art. 340 c.p.c., comma 1, – decorre dal compimento delle attività mediante le quali la sentenza è resa pubblica, costituite dal deposito in cancelleria di cui il cancelliere dà atto con l’apposizione della data e della firma. A partire da tale momento la riserva deve essere espressa entro il termine per appellare, e, in ogni caso non oltre la prima udienza istruttoria successiva alla comunicazione della sentenza stessa; questo secondo termine alternativo ha carattere acceleratorio (e non recuperatorio, come sembra adombrare parte ricorrente) e quindi riguarda l’ipotesi in cui tale prima udienza preceda la scadenza del termine naturale per impugnare.

8. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile per tardività quanto alla sentenza non definitiva (l’unica sulla quale si incentrano le censure dell’Istituto) e per difetto di interesse quanto alla sentenza definitiva.

8. Consegue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2 e accessori di legge, da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari, avv. Bruno Cossu e avv. Savina Bomboi.

9. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte dell’Istituto ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna l’Istituto ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2017

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