Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24456 del 21/11/2011

Cassazione civile sez. III, 21/11/2011, (ud. 18/10/2011, dep. 21/11/2011), n.24456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11142/2009 proposto da:

F.C. nato a (OMISSIS), B.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE

SANTO 2, presso lo studio dell’avvocato ROMEO FULVIO, che li

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrenti –

I.N.P.D.A.P. – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I DIPENDENTI

DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA (OMISSIS) in persona del

Presidente/Commissario Straordinario Avv. C.P.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. BECCARIA 29C-O, presso lo

studio dell’avvocato INCLETOLLI FLAVIA, che la rappresenta e difende

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5307/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/12/2008, R.G.N. 2492/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/10/2011 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato VITA MARIA SPALLITTA; udito l’Avvocato FLAVIA

INCLETOLLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.

Con ricorso depositato il 19 luglio 2000 e notificato il 5 ottobre successivo B.G. e F.C. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Roma l’INPDAP chiedendo che venisse accertato e dichiarato l’avvenuto acquisto per usucapione, da parte della B., della proprietà dell’immobile sito in (OMISSIS), nel quale la stessa viveva con la propria famiglia.

Dedussero che la B. aveva esercitato sin dal 1976 il pieno e ininterrotto possesso ut dominus dell’appartamento, a lei consegnato da L.A., presidente del consiglio di amministrazione di Sabotino s.p.a., all’epoca proprietaria del cespite; che solo nel maggio del 2000 l’INPDAP, qualificandosi locatore, aveva notificato al F., coniuge della B., intimazione di sfratto per un’asserita morosità di L. 184.000.000.

Chiesero, in subordine, l’accertamento del dovuto per il quinquennio anteriore al predetto atto.

L’INPDAP contestò l’avversa pretesa instando, in via riconvenzionale, per l’accertamento della cessazione del contratto al 31 dicembre 1993, con condanna del convenuto al rilascio e al pagamento delle somme dovute a titolo di canoni, indennità di occupazione e oneri accessori.

Con sentenza del 6 febbraio 2004 il giudice adito rigettò la domanda; dichiarò cessato il contratto di locazione al 31 dicembre 1995; condannò il F. al rilascio dell’immobile e al pagamento della somma di Euro 133.324,09.

Proposto dai soccombenti gravame, la Corte d’appello lo ha rigettato in data 22 dicembre 2008.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorrono a questa Corte B.G. e F.C., formulando nove motivi, illustrati anche da memoria.

Resiste con controricorso l’INPDAP.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 75 e 416 c.p.c., D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 11, lett. f), nonchè vizi motivazionali con riferimento alla dedotta nullità della comparsa di costituzione dell’Ente e alla conseguente inammissibilità della spiegata domanda riconvenzionale. Deducono che, sin dal giudizio di prime cure, avevano eccepito che le delibere autorizzative alla proposizione dell’azione giudiziaria per il recupero della morosità e per il rilascio dell’immobile (Delib. n. 1061 del 2000), nonchè per la costituzione in giudizio (Delib. n. 170 del 2001), non erano idonee a sanare la nullità della costituzione, non essendo stata prodotta la determinazione dirigenziale con la quale il Dott. M., firmatario delle stesse, era stato abilitato a spendere il nome dell’INPDAP ed essendo stata, per giunta, la seconda, adottata dopo il deposito della memoria di costituzione dell’Istituto. Tali eccezioni sarebbero state erroneamente rigettate dal decidente sull’assunto che l’autorizzazione ex art. 75 c.p.c., può intervenire anche in corso di causa e che l’onere della prova dell’assenza di poteri in capo al dirigente che aveva sottoscritto le delibere incombeva su chi avanzava la contestazione.

Sostengono che, così argomentando, il giudice di merito avrebbe violato l’art. 2697 c.c., e avrebbe del tutto ignorato che la Delib.

del 13 febbraio 2001 era successiva alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio e per la proposizione della domanda riconvenzionale. 2 Le censure sono infondate.

E’ invero giurisprudenza consolidata di questa Corte, pienamente condivisa dal collegio, che, ai fini della validità della procura alle liti rilasciata da chi si qualifichi legale rappresentante della persona giuridica, è sufficiente che nell’intestazione dell’atto al quale la procura si riferisce, siano indicati i poteri rappresentativi di colui che la sottoscrive, spettando alla parte che contesta tale qualità allegare tempestivamente e dimostrare l’inesistenza del rapporto organico o la carenza dei poteri dichiarati (confr. Cass. civ. 15 novembre 2007, n. 23724; Cass. civ. 13 febbraio 2009, 3541).

Ciò comporta, all’evidenza, la speciosità delle critiche con le quali si lamenta la mancata giustificazione dei poteri, non già di chi si è qualificato legale rappresentante dell’ente, ma, più a monte, del firmatario delle delibere autorizzative alla proposizione dell’azione giudiziaria. Ed è appena il caso di aggiungere che l’insussistenza della dedotta nullità della comparsa di costituzione dell’Ente (e della conseguente inammissibilità della domanda riconvenzionale), è stata correttamente argomentata dal giudice di merito sulla base (anche) del rilievo, conforme a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte Regolatrice, che l’autorizzazione alla proposizione della domanda per il recupero della morosità e per il rilascio dell’immobile locato al F., in quanto condizione dell’azione, poteva intervenire per tutto il corso del processo, con effetto retroattivo, salvo che sul punto non si fosse formato il giudicato (confr. Cass. civ. 19 giugno 2006, n. 14260).

In ogni caso, e conclusivamente sul punto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il Presidente dell’INPDAP, il quale, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 479, art. 3, comma 3, ha la rappresentanza legale dell’Istituto, non solo è abilitato, in quanto tale, a rappresentarlo in giudizio, sia attivamente che passivamente, ma altrettanto legittimamente può conferire mandato al difensore, senza necessità di alcuna autorizzazione del consiglio di amministrazione la quale, ove adottata, ha una valenza meramente interna. Non a caso, tra le funzioni di tale organo non è più compresa quella di autorizzazione a stare in giudizio, prevista invece dal R.D. 20 dicembre 1928, n. 3239, art. 5, lett. d), per il soppresso INADEL (confr. Cass. civ. 25 luglio 2001, n. 10160).

3.1 Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro intrinseca connessione, i successivi due motivi di ricorso.

Con il secondo mezzo gli impugnanti lamentano violazione dell’art. 214 c.p.c., insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Le critiche si appuntano contro l’affermazione del giudice di merito secondo cui le espressioni con le quali era avvenuto il disconoscimento, da parte del F., delle scritture private recanti la sua sottoscrizione, nonchè la contestazione della conformità all’originale della documentazione prodotta dall’INPDAP in fotocopia, non concretavano una negazione formale nè dell’autenticità della firma, ex art. 214 c.p.c., nè della genuinità delle copie.

Sostengono per contro gli esponenti che l’espressione usata rispettava pienamente il disposto della norma codicistica richiamata.

Aggiungono che, relativamente al contratto di locazione, il disconoscimento era chiaramente esplicitato anche a pag. 4 della memoria di replica, laddove essi avevano negato che fosse mai stato sottoscritto un contratto di locazione. 3.2 Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 2697 e 2719 c.c., nonchè insufficienza della motivazione con riferimento alla ritenuta inoperatività della contestazione di conformità agli originali delle fotocopie prodotte, per non essere stato indicato il reale contenuto dei documenti autentici. A confutazione di tale assunto, evidenziano che siffatta indicazione non è richiesta da alcuna disposizione di legge.

4 Le censure sono destituite di fondamento.

Pacifico che nel primo scritto successivo alla produzione delle scritture i ricorrenti si limitarono a formulare contestazione circa la conformità all’originale dei documenti ex adverso depositati in copia, con particolare riferimento a quelli ove apparirebbe apposta la sottoscrizione del F., ha ritenuto il giudice di merito che siffatta formula non integrasse nè una negazione formale dell’autenticità della propria firma, ex art. 214 c.p.c., nè una negazione chiara e specifica di conformità all’originale delle copie prodotte, ex art. 2719 c.c.. Ha segnatamente evidenziato, in proposito, che il F. neppure aveva indicato l’effettivo contenuto della lettera da lui inviata, in data 11 ottobre 1978, quale conduttore dell’appartamento, alla Direzione Generale degli Istituti di Previdenza, che ricopriva il ruolo di amministratore del CPDEL, all’epoca proprietaria dell’immobile, prima che il cespite venisse ceduto all’INPDAP; dell’atto aggiuntivo a mezzo del quale egli aveva pattuito con la predetta Direzione la riduzione del canone; della missiva in data 24 novembre 1992, con la quale aveva manifestato la propria disponibilità a sottoscrivere un accordo in deroga, ex L. n. 359 del 1992; dell’atto di riconoscimento di debito in data 4 marzo 1994, aggiungendo che nel corso del giudizio di primo grado l’attore aveva contraddittoriamente affermato di avere ritenuto opportuno, su suggerimento del L., far risultare nei confronti della CPDEL, acquirente del complesso immobiliare in questione, l’esistenza, ancorchè simulata, di un contratto di locazione.

5 Le argomentazioni esposte nell’impugnata sentenza a sostegno della scelta decisoria adottata applicano correttamente i principi giuridici che governano la materia.

Valga al riguardo considerare, per quanto attiene al disconoscimento della sottoscrizione, ex art. 214 c.p.c., che esso, pur non richiedendo forme vincolate e sacramentali, deve comunque rivestire i caratteri della specificità e della determinatezza e non risolversi in espressioni di stile. Il che implica che colui che figura firmatario di una scrittura deve negare l’autenticità della propria sottoscrizione, specificando, ove più siano i documenti prodotti, se siffatta negazione si riferisca a tutti o ad alcuni soltanto di essi (confr. Cass. civ. 13 febbraio 2008, n. 3474; Cass. civ. 7 agosto 2003, n. 11911).

Nella medesima prospettiva si afferma poi che anche la negazione della conformità della copia all’originale deve essere precisa e inequivoca (confr. 13 febbraio 2008, n. 3474; Cass. civ. 14 marzo 2006, n. 5461) e ciò tanto più che siffatto disconoscimento non ha gli stessi effetti del disconoscimento della scrittura privata previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2), giacchè mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c., non impedisce al giudice di accertare la conformità all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (confr. Cass. civ. 21 aprile 2010, n. 9439; Cass. civ. 25 febbraio 2009, n. 4476).

Infine, quanto ai tempi e ai modi in cui l’uno e l’altro disconoscimento devono avvenire, è già stato condivisibilmente ritenuta applicabile ad entrambi, pur nel silenzio della legge, la disciplina di cui agli artt. 214 e 215 c.p.c., con la duplice conseguenza che la copia fotostatica non autenticata si avrà per riconosciuta, tanto nella sua conformità all’originale quanto nella scrittura e sottoscrizione, se la parte comparsa non la disconosca in modo formale e, quindi, non equivoco, nella prima udienza ovvero nella prima risposta successiva alla produzione (confr. Cass. civ. 25 febbraio 2009, n. 4476; Cass. civ. 27 ottobre 2006, n. 23174).

6 Tanto premesso e precisato, non esiste, a ben vedere, alcun contrasto disarticolante tra la negativa valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla – idoneità della formula innanzi riportata a integrare un valido disconoscimento e l’oggettivo tenore della formula stessa. La Corte territoriale ha invero ragionevolmente valorizzato la genericità dell’espressione usata, nella quale si trovano ambiguamente frammiste la contestazione dell’autenticità della sottoscrizione e quella della genuinità della copia, in contrasto con la perentorietà e la specificità che la legge, in considerazione della gravità degli effetti che dall’una e dall’altra scaturiscono, richiede per la loro valida esternazione. Quanto poi alla mancata indicazione del contenuto dei documenti originali, è a dir poco ovvio che essa costituisce solo uno degli elementi fattuali sui quali si è formato il convincimento del decidente, in un contesto in cui il F. non aveva affatto negato di avere sottoscritto, tra l’altro, un contratto di locazione, contraddittoriamente invocando una sorta di simulazione putativa dello stesso.

In definitiva, la scelta decisoria adottata resiste alle critiche dell’impugnante, tanto più che la negativa valutazione dell’idoneità delle espressioni usate dalla parte a configurare un valido disconoscimento delle scritture private prodotte contro di essa costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (confr. Cass. civ. 17 maggio 2007, n. 11460).

7 Il rigetto del secondo e del terzo motivo di ricorso impone anche quello degli ultimi due mezzi.

Con essi gli impugnanti censurano l’idoneità a interrompere la prescrizione di atti come la ricognizione di debito del 4 marzo 1994 e la richiesta di pagamento del 29 maggio 1998, evidenziando che vi era stato disconoscimento della sottoscrizione della prima e della conformità all’originale della seconda (ottavo motivo); denunciano inoltre violazione dell’art. 214 c.p.c., nonchè vizi motivazionali con riferimento alla quantificazione delle somme spettanti all’Ente, avvenuta sulla base dell’atto di ricognizione, senza considerare, ancora una volta, che questo era stato disconosciuto e ignorando tutte le deduzioni difensive in punto di arbitrarietà delle tabelle applicate dall’INPDAP (nono motivo).

8 A confutazione di tali critiche è invero sufficiente richiamare quanto innanzi detto in ordine alla correttezza del giudizio di inidoneità delle espressioni usate dal F. a integrare un valido disconoscimento della sua sottoscrizione in calce ai documenti prodotti dalla controparte. Ne deriva che di quel disconoscimento i ricorrenti non possono all’evidenza giovarsi per escludere gli effetti della ricognizione di debito testè menzionata, in punto di interruzione della prescrizione, e di quantificazione del credito dell’INPDAP. 9.1 Si prestano a essere esaminati congiuntamente il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso. Con l’uno gli impugnanti denunciano violazione dell’art. 244 c.p.c., in relazione alla domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione. Le censure si appuntano contro la mancata ammissione della prova orale volta a dimostrare gli estremi della fattispecie acquisitiva evocata, per pretesa genericità delle circostanze capitolate, non essendo state precisate le occasioni in cui la B. si era qualificata proprietaria dell’immobile, nè gli interlocutori nei cui confronti le dichiarazioni erano state esternate, senza considerare che quest’ultima indicazione doveva ritenersi soddisfatta con l’indicazione delle persone da assumere come testi, mentre la prima era desumibile dal ripetuto richiamo a episodi particolarmente significativi della vita della B., come la malattia cardiaca della stessa, il fallimento del F., la morte del L..

Aggiungono che del tutto inconferenti, ex artt. 1158 e 1165 c.c., erano i pretesi atti di esercizio del diritto da parte dell’INPDAP, idonei a dimostrare la mancanza di inerzia del proprietario dell’immobile, atteso che gli stessi erano tutti diretti al F., non già alla B., soggetto usucapente.

9.2 Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono dell’affermata inammissibilità dell’accertamento della simulazione del contratto di locazione, prospettando violazione di legge nonchè insufficienza della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

L’assunto del giudice di merito – secondo cui la B. non vantava un diritto suscettibile di essere inciso dal negozio simulato – era errato a sol considerare che, proprio in base al fittizio contratto di affitto l’INPDAP aveva potuto reclamare il rilascio del bene.

9.3 Con il sesto mezzo gli impugnanti contestano la mancata ammissione dei mezzi di prova. Segnatamente censurano la mancata ammissione del capitolo volto a provare che la B. fin dal 1976 aveva sempre proclamato di essere proprietaria dell’immobile.

10 Anche tali critiche non hanno pregio.

Occorre muovere dalla considerazione che, per quanto testè detto, l’esistenza del contratto di locazione tra il F. e l’INPDAP costituisce un dato incontestabile. Con riferimento alla posizione della B., lo scrutinio sulla correttezza della decisione adottata dalla Curia capitolina, deve allora tener conto del rilievo che la stessa, in quanto coniuge del conduttore, è stata sempre e solo titolare di una mera aspettativa alla successione nel contratto di locazione, al pari del convivente more uxorio, degli eredi, dei parenti e degli affini, abitualmente conviventi con il locatario (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 6, come riscritto dalla Corte cost. con la sentenza n. 404/1938). Di talchè, a maggior ragione, nei confronti del proprietario, ella non può vantare, nè ha mai potuto vantare, una situazione soggettiva attiva più forte della detenzione qualificata spettante a suo marito, in quanto conduttore.

Ciò comporta che, per potere essere giuridicamente significativa ai fini dell’usucapione, la condotta della B. doveva concretarsi in un atto di interversione ex art. 1141 c.c.. Ed è a dir poco ovvio – oltre che assolutamente pacifico in giurisprudenza – che siffatta interversione non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi: manifestazione, peraltro, che, dovendo essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, deve tradursi in atti di concreta opposizione all’esercizio del possesso, da parte dello stesso (confr. Cass. civ. 8 marzo 2011, n. 5419; Cass. civ. 15 marzo 2010, n. 6237; Cass. civ. 29 gennaio 2009, n. 2392).

11 Deriva da tanto che il giudizio di inammissibilità della prova orale articolata dalla B., basato, in definitiva, proprio sulla mancata allegazione di un atto di interversione idoneo, ai fini dell’operatività del disposto dell’art. 1141 c.c., è corretto e condivisibile. Così come corretto e condivisibile è il negativo scrutinio sulla sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante della stessa a dedurre e a dimostrare la simulazione del contratto di locazione tra il marito e l’INPDAP, avvalendosi del più favorevole regime probatorio riconosciuto al terzo dall’art. 1417 c.c.: e invero, l’accertamento della simulazione non varrebbe a trainare la posizione soggettiva attiva della B., in relazione all’immobile occupato, oltre la soglia della mera detenzione.

12 Con il settimo motivo i ricorrenti deducono vizi motivazionali con riferimento all’eccepita invalidità della disdetta inviata dall’INPDAP il 27 ottobre 1992, disdetta in forza della quale era stata chiesta la risoluzione del contratto al 31 dicembre 1995.

Lamentano che essi avevano segnatamente evidenziato come l’Istituto, intimando sfratto per morosità nel maggio del 2000, avesse di fatto agito a circa dieci anni di distanza dalla disdetta, significativamente chiedendo il pagamento dei canoni di locazione (e non di un’indennità di occupazione) e proponendo un’azione che presupponeva la persistenza del rapporto locatizio. Aggiungono che la volontà di rinunciare agli effetti della disdetta era stata di fatto ribadita anche dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, attraverso l’invio di una missiva volta a sollecitare l’esercizio del diritto di opzione, di talchè il valore di tutti questi elementi, in chiave di prova dell’intervenuta rinnovazione del contratto di locazione, era stato dal decidente escluso con motivazione meramente apparente.

13 Le censure sono infondate.

Il giudice di merito ha ritenuto che non valessero a paralizzare la domanda di rilascio per finita locazione: a) la mera permanenza del conduttore nella detenzione del bene e la richiesta del locatore di pagamento del canone, in quanto comportamenti inidonei a esprimere una volontà di rinnovo del contratto; b) la notifica, dopo la scadenza del contratto, di intimazione di sfratto per morosità, in quanto atto destinato esclusivamente a conseguire la disponibilità del bene; c) l’invio di missiva volta a sollecitare l’esercizio del diritto di opzione, non contenendo la comunicazione alcun riferimento alla sentenza di prime cure e provenendo essa dal dirigente dell’Ufficio Speciale di Progetto per le Dismissioni Immobiliari, e cioè da organo non abilitato a esternare la volontà dell’Ente.

14 Ora, contrariamente all’assunto degli impugnanti, tali affermazioni sono in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte – dalla quale non v’è ragione di discostarsi – secondo cui la rinnovazione tacita del contratto di locazione non può desumersi dalla permanenza del conduttore nell’immobile locato dopo la scadenza o dal fatto che il locatore abbia continuato a percepire il canone senza proporre tempestivamente azione di rilascio, dovendo questi fatti essere qualificati da altri elementi idonei a manifestare in modo non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto locativo, con rinuncia tacita da parte del locatore agli effetti prodotti dalla scadenza (confr. Cass. civ. 6 maggio 2010, n. 10963; Cass. civ. 13 aprile 2007, n. 8833; Cass. civ. 7 giugno 2006, n. 13346).

In ogni caso la valenza semantica di tutti gli indici addotti dai ricorrenti a sostegno della loro tesi difensiva è stata esclusa dal giudice di merito con motivazione esente da vizi logici e giuridici;

il che rende la relativa valutazione incensurabile in sede di legittimità.

In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Segue la condanna degli impugnanti al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200,00 (di cui Euro 5.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, come per legge.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2011

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