Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24449 del 17/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 17/10/2017, (ud. 23/05/2017, dep.17/10/2017),  n. 24449

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6643/2012 proposto da:

B.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

presso l’avvocato IGNAZIO ABRIGNANI, PIAZZALE BELLE ARTI 8, presso

lo studio dell’avvocato GABRIELE GIACOMOZZI, rappresentato e difeso

dagli avvocati MAURO PUTIGNANO e PAOLO FRANCO giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE (OMISSIS), C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA ANTONIO GRAMSCI 24, presso lo studio dell’avvocato MARIA

STEFANIA MASINI, che lo rappresenta e difende unitamente agli

avvocati ENZO ROBALDO e GIANMARIA MONICO giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e contro

B.L., C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 842/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/07/2011 R.G.N. 1553/2009.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 4673/2011, confermava la pronuncia con cui il Tribunale di Como aveva respinto la domanda proposta dal dott. B.L., funzionario di ruolo del Comune di (OMISSIS), con inquadramento in posizione D3, già titolare di posizione organizzativa quale responsabile del coordinamento della Protezione Civile di vari comuni, il quale aveva agito lamentando di avere subito un mobbing e un radicale demansionamento;

che la Corte territoriale osservava che l’incarico di posizione organizzativa era scaduto nel 2007 e non era stato rinnovato, ma le nuove mansioni presso la Segreteria Generale, oltre che di evidente pregio, erano coerenti con l’inquadramento del ricorrente in posizione D3; che nessuno dei comportamenti addebitati alla parte datoriale era illegittimo, per cui la domanda risarcitoria non poteva trovare accoglimento; che l’asserito svuotamento delle mansioni presso il nuovo ufficio di Segreteria Generale non era stato provato, così come non era stato dimostrato il danno da perdita della professionalità;

che per la cassazione di tale sentenza ricorre il B. con un unico motivo variamente articolato; il Comune di (OMISSIS) resiste con controricorso e propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato a due motivi e regolarmente notificato (v. avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta, depositato in data 2 maggio 2017);

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il ricorrente principale, denunciando cumulativamente violazione e falsa applicazione di norme di diritto e vizi di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), formula censure promiscue, difficilmente riconducibili nell’alveo dell’uno o dell’altro vizio, senza un’adeguata specificazione che consenta, nel contesto dell’illustrazione del motivo, di disarticolare l’unitarietà se non entro ristretti limiti; precisamente, il Collegio ritiene che, nel coacervo delle doglianze, siano enucleabili solo due ordini di censure: con il primo si addebita alla sentenza di avere “omesso di indicare le ragioni del proprio convincimento…in ordine ad un punto decisivo della controversia” riguardante la “autonoma domanda di risarcimento del danno per la lesione ai diritti politici derivante dal diniego o dagli ostacoli illegittimamente frapposti dal Comune di (OMISSIS) alla fruizione di permessi ex D.Lgs. n. 267 del 2000”; in subordine, per l’ipotesi che questa Corte ritenga che la sentenza impugnata abbia pronunciato implicitamente su tale domanda rigettandola, si afferma che tale statuizione sarebbe erronea per violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 79 e 80, (T.U.E.L.) che disciplinano il diritto ai permessi in favore dei lavoratori dipendenti che esercitano funzioni pubbliche; con il secondo ordine di censure ci si duole del capo della sentenza con cui è stato ritenuto non provato lo “svuotamento delle mansioni nel nuovo ufficio della Segreteria Generale”, omettendo di considerare che sul punto il ricorrente aveva articolato diversi capitoli di prova ed aveva allegato documentazione (in particolare doc. n. 85); pertanto, la dedotta inoperosità costituiva un punto di fatto “desumibile dalle risultanze probatorie e che poteva essere confermato ulteriormente dall’istanza della prova testimoniale dedotta”;

che il ricorso incidentale denuncia: 1) con il primo motivo error in procedendo per non avere la Corte di appello pronunciato sull’eccezione di inammissibilità del gravame viziato da genericità dei motivi, in relazione all’art. 434 c.p.c.; b) error in iudicando per essere la compensazione delle spese del giudizio stata motivata in modo generico per la “complessità della vicenda”; dunque, non era stato validamente derogato il principio generale di cui all’art. 91 c.p.c., che prevede l’onere delle spese di lite a carico della parte soccombente;

che la prima censura del ricorso principale è inammissibile; le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 17931 del 2013, hanno chiarito che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge;

che l’odierno ricorrente si duole dell’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) ed argomenta sulla violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.), dunque non censura il vizio nei termini richiesti, di nullità in parte qua della sentenza;

che, quanto al secondo ordine di censure del ricorso principale, va premesso che, a partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. sez.un. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016). Restano, dunque, insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria;

che tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili; resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, vietato anche nell’ambito del pubblico impiego (cfr. Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonchè Cass. n. 687 del 2014);

che, alla stregua della sentenza impugnata, risulta positivamente accertato che le mansioni conferite al dott. B. a seguito dello spostamento dalla Protezione civile corrispondevano all’inquadramento in posizione D3. Pertanto, escluso il diritto del dipendente pubblico a permanere in un determinata posizione o a rivendicare il conferimento di un determinato incarico alla stregua di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, il mutamento di mansioni nell’alveo della stessa categoria di inquadramento è pienamente legittimo;

che, laddove il ricorrente lamenta l’erroneità dell’operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta del “demansionamento per svuotamento di mansioni”, in realtà muove da una diversa ricostruzione dei fatti di causa, secondo la rilettura dallo stesso proposta; in proposito, va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa;

che le censure per vizi di motivazione non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito; secondo costante

giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le più recenti, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013);

che, in conclusione, il ricorso principale va respinto;

che il primo motivo del ricorso incidentale è inammissibile; la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, in esatto adempimento degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 2771 del 2017, n. 1170 del 2004); nel caso in esame, il ricorso incidentale è del tutto privo della trascrizione degli atti (sentenza di primo grado e atto di appello) occorrenti per tale preliminare verifica;

che il secondo motivo del ricorso incidentale è infondato; preliminarmente, quanto alle regole dettate dall’art. 92 c.p.c., va osservato che nei giudizi instaurati – come il presente (il ricorso introduttivo risale al marzo 2009) – nella vigenza della disciplina introdotta dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263 (prima delle modifiche apportate dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, e poi nuovamente dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, conv., con mod. nella L. 10 novembre 2014, n. 162) il giudice può procedere a compensazione parziale o totale tra le parti in mancanza di soccombenza reciproca se ricorrono “altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione” (Cass. n. 13460 del 2012; conf. Cass. 23507 del 2014), non occorrendo “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione” (Cass. n. 11284 del 2015);

che nel caso di specie, la motivazione è stata esplicitata ed è consistita nella valorizzazione di un dato oggettivo costituito dalla complessità della vicenda; trattasi di motivazione non illogica e come tale sottratta al sindacato di legittimità;

che, in conclusione, vanno rigettati tanto il ricorso principale quanto quello incidentale, con compensazione delle spese del presente giudizio, stante la reciproca soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2017

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