Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24448 del 30/10/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 24448 Anno 2013
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: GRECO ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ELENA ENZO, rappresentato e difeso dall’avv. Gaetano Coduti ed
elettivamente domiciliato in Paliano, Frosinone, presso l’avv.
Benedetto Longino Lombardi al viale Garibaldi n. 7/F;
– ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE,
tenpore,

in persona del Direttore generale pro

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso la quale è domiciliata in Roma in via dei
Portoghesi n. 12;
– controricorrente avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale
del Lazio n. 527/40/06, depositata il 29 dicembre 2006;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 24 gennaio 2013 dal Relatore Cons. Antonio Greco;
uditi l’avv. Gaetano Coduti per il ricorrente e l’avvocato
dello Stato Lorenzo D’Ascia per la controricorrente;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Federico Sorrentino, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

Data pubblicazione: 30/10/2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Enzo Elena propone ricorso per cassazione, sulla base di
sette motivi, nei confronti della sentenza della Commissione
tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha
confermato la legittimità dell’accertamento ai fini dell’IRPEF,
dell’IVA, e dell’IRAP, nonché dell’obbligo di corrispondere
contributi previdenziali, per l’anno 1998, in quanto, facendo
applicazione degli studi di settore all’attività economica svolta
al quale il contribuente, invitato dall’ufficio, non era stato in
grado di fornire adeguata giustificazione.
Il giudice d’appello anzitutto disattendeva il rilievo
concernente la mancata effettuazione dell’udienza camerale sulla
richiesta sospensione dell’atto impugnato, atteso che la
Commissione provinciale aveva tenuto direttamente l’udienza sul
merito della causa in una data, il 22 giugno 2006, talmente
ravvicinata rispetto alla proposizione del ricorso, risalente al
16 febbraio, da non richiedere la decisione sull’istanza, avendo
quindi l’udienza sul merito totalmente assorbito l’udienza sulla
sospensiva, facendone venir meno le finalità cautelari,
concretantesi nell’assicurare gli effetti della decisione di
merito.
Quanto al merito, la documentazione prodotta era
inappropriata e non dimostrava affatto lo scostamento del reddito
dichiarato da quello risultante dagli studi di settore. Il
contribuente “continua ad affermare una realtà che non esiste o
che comunque non viene sufficientemente dimostrata”, come
ampiamente rilevato dal giudice di primo grado: “non basta
produrre delle fatture, me bisogna altresì che tali fatture
dimostrino la realtà economica affermata dal contribuente (nel
caso specifico il commercio all’ingrosso di carni_ i cui studi di
settore non erano ancora stati approvati…), e ciò non è avvenuto_
_le fatture prodotte (l’annotazione delle fatture in contabilità)
non dimostrano affatto il commercio all’ingrosso di carni”.
Sul punto, poi, prosegue il giudice d’appello, “un
ulteriore aspetto è di fondamentale importanza. La parte ha
dichiarato essa stessa di svolgere nell’anno in questione
attività di commercio al dettaglio di carni fresche. L’ufficio ha

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era emerso uno scostamento rispetto ai dati dichiarati, in ordine

solo accertato che la dichiarazione dei redditi della parte si
conformasse alle risultanze degli studi di settore. Questo non è
avvenuto, essendosi rilevato lo scostamento. La contribuente
cerca di giustificare lo scostamento affermando che si era
sbagliata nel compilare gli studi di settore, poiché ha inserito
un’attività che non era quella svolta”. Una siffatta
argomentazione, ad avviso della Commissione regionale, “è
inidonea a giustificare lo scostamento. Innanzitutto perché, come
pensabile che la contribuente che abbia dichiarato di svolgere
una data attività affermi poi di essersi sbagliata senza
incorrere nelle conseguenze che la legge prevede (nello specifico
lo scostamento reddituale derivante dagli studi di settore)”. La
contribuente, “non potendo giustificare lo scostamento fra i dati
dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di
settore per l’attività in oggetto, afferma che l’attività
prevalente era il commercio all’ingrosso di carne, il quale non
era soggetto agli studi di settore perché non ancora approvati.
Una dichiarazione che quantomeno giunge tardiva, visto che il
contribuente poteva non presentare la dichiarazione relativa agli
studi di settore, considerato che non erano ancora stati
approvati. Se non lo ha fatto è perché l’attività prevalentemente
svolta è quella dichiarata, ossia il commercio al dettaglio di
carni”.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

mani

DELLA

recnian

Con il primo motivo il contribuente denuncia, sotto il
profilo dell’error in procedendo, la nullità della sentenza per
la mancata fissazione dell’udienza per la sospensiva in primo
grado e per la mancata pronuncia di fondatezza o infondatezza
della medesima (istanza di) sospensiva.
La censura va disattesa, in quanto, come questa Corte ha
affermato, nel processo tributario “non viola il diritto di
difesa del contribuente il giudice che, senza ritardo, decida il
merito della causa senza pronunciarsi sull’istanza di sospensione
dell’atto impugnato, in quanto l’art. 47, comma 7, del d.lgs. 31
dicembre 1992, n. 546, prevede che “gli effetti della sospensione
cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo

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descritto, nulla è stato dimostrato a riguardo, poi perché non è

grado”, sicché non è ipotizzabile alcun pregiudizio per la
mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole,
sarebbe comunque travolta dalla decisione di merito” (Cass. n.
8510 del 2010).
Il terzo motivo, con il quale si denuncia violazione di
legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata acquisizione
d’ufficio, ai sensi dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre
1992, n. 546, di documenti decisivi, si chiude con il seguente
documenti decisivi impedisce la pronuncia di una sentenza
ragionevolmente motivata”.
Il motivo si rivela in parte inammissibile ed in parte
infondato per plurime ragioni: esso è anzitutto privo, per quel
che attiene alla denuncia del vizio di motivazione, del “momento
di sintesi” prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ.; quanto
all’ulteriore profilo, costituito dalla denuncia di violazione di
legge, anche a prescindere dalla circostanza che esso è corredato
da un quesito di diritto inidoneo in quanto generico e senza
riferimenti alla fattispecie concreta, esso è infondato, atteso
che il giudizio di merito è stato introdotto con l’inpugnazione
di un avviso di accertamento notificato il 20 dicembre 2005, ed
il comma 3 dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 è stato
abrogato dall’art 3 bis, comma 5, del d.l. 30 settembre 2005, n.
203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “violazione e
falsa applicazione degli artt. 116, 212 e 634 cod. proc. civ.,
2710, 2711, 2727, 2709 c.c., 32, 36 e 58 d.lgs. 546/1992, nonché
motivazione insufficiente, contraddittoria ed illogica in
relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.”, concludendo
l’illustrazione della censura con il seguente “quesito di
diritto”: “la mancata valutazione delle fatture prodotte dal
contribuente quale circostanza decisiva ai fini del decidere,
laddove la Commissione regionale abbia ritenuto l’indicazione del
numero di partita IVA decisivo per consentire di distinguere i
soggetti privati dalle aziende, integrano il vizio di omessa o
insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex
art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”.

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quesito di diritto: “la mancata acquisizione d’ufficio di

L’illustrazione del quarto motivo, con il quale si denuncia
“violazione e falsa applicazione del comma 4 dell’art. 52 e del
comma 2 dell’art. 54, nonché dell’art. 23 del d.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633, e degli artt. 116 e 212 c.p.c., 2711 c.c., 36
d.lgs. 546/1992, nonché motivazione insufficiente,
contraddittoria ed illogica in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5
c.p.c.”, si chiude con il seguente quesito di diritto: “Il
registro delle fatture confrontato con la dichiarazione dei
vendite a soggetti con partita rwr.
Con il quinto, con il sesto e con il settimo motivo, con
ciascuno dei quali denuncia sia violazione di legge che vizio di
motivazione, assume, rispettivamente, che “la mancata indicazione
e motivazione da parte dell’Agenzia delle entrate dell’esistenza
di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli
determinati con gli studi di settore comporta violazione di
legge”; che “le risultanze degli accertamenti degli anni
precedenti deve essere oggetto di confronto con la dichiarazione
dei redditi contestata”; e che “la mancata motivazione degli
avvisi di accertamento per mancanza a) del riferimento ai decreti
di approvazione dello studio di settore applicato e le relative
note metodologiche, b)dei dati contabili e strutturali utilizzati
dalla procedura, c) dei risultati dell’applicazione (i cluster di
classificazione, gli indici di incoerenza, il ricavo puntuale e
quello minimo), è censurabile in sede di legittimità”.
Gli ultimi due motivi sono inammissibili.
Quanto al settimo, questa Corte ha infatti chiarito come
“in base al principio di autosufficienza del ricorso per
cassazione, sancito dall’art. 366 cod. proc. civ., qualora il
ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria
regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso
in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il
quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui
motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile
requisito di legittimità dell’atto stesso -, è necessario, a pena
di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi
della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente

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redditi è prova idonea all’accertamento della effettuazione di

interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di
consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio
sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso
medesimo” (Cass. n. 15867 del 2004, n. 8312 del 2013).
Il sesto motivo si rivela inammissibile alla stregua del
disposto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., risolvendosi in una
mera asserzione, inidonea tanto come momento di sintesi, con
riguardo al profilo del vizio di motivazione, quanto come quesito
Il secondo, il quarto ed il quinto motivo vanno esaminati
congiuntamente, in quanto strettamente legati.
La procedura di accertamento tributario standardizzato
mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore,
come questa Corte ha affermato, “costituisce un sistema di
presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza
non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito
dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri
strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della
normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio
da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento,
con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di
provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la
sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione
dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati
gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel
periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di
accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma
deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in
concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali
sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona
l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario
liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al
caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la
controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è
vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento
amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il
ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto

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di diritto, con riguardo alla dedotta violazione di legge.

all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando
inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo
suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare
l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli
“standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il
contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale
invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la
mancata risposta all’invito” (Cass. sez. un. 26 dicembre 2009, n.
Ciò premesso, il Collegio osserva che la decisione
impugnata poggia su una doppia ratio décidbncE.
Da una parte la inidoneità dei documenti offerti, comprese
le fatture, prodotte nel corso del giudizio di appello, che si
sostiene recassero il numero di partita IVA degli acquirenti, a
provare che l’attività svolta fosse di commercio all’ingrosso (“…
la documentazione prodotta è inappropriata e non dimostra
affatto_ Non basta produrre delle fatture, ma bisogna altresì che
esse dimostrino la realtà economica affermata dal contribuente
(nel caso specifico il commercio all’ingrosso di carni), e ciò
non è avvenuto)”.
Dall’altra, la dichiarazione dello stesso contribuente di
svolgere per quel periodo d’imposta l’attività di commercio al
dettaglio di carni fresche, dichiarazione fatta oggetto – alla
luce della successiva affermazione dello stesso contribuente di
essere incorso in errore -, di un esame particolare, anche sotto
il profilo della sua tenuta logica in relazione allo scostamento
rilevato tra il reddito dichiarato e gli elementi risultanti
dallo studio di settore indicato, quello del commercio al
dettaglio, e al non assoggettamento del commercio all’ingrosso,
per quel periodo d’imposta, agli studi di settore, non ancora
approvati per quel comparto merceologico.
Rispetto a tali due fondamenti della decisione, cui ha
condotto una valutazione del materiale probatorio accurata e
immune da vizi, il contribuente non articola adeguate censure, né
individua motivi di non conformità della sentenza impugnata ai
principi elaborati da questa Corte, cui si è fatto cenno supra,
in tema di accertamenti standardizzati.
Il ricorso va pertanto rigettato.

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Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il contribuente al pagamento delle spese del
giudizio, liquidate in euro 3.000 oltre alle spese prenotate a
debito.

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(Antonio Greco)
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