Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24435 del 30/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 30/11/2016, (ud. 11/10/2016, dep. 30/11/2016), n.24435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5024-2013 proposto da:

UNICREDIT SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato CARLO MARIO

D’ACUNTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIOVANNI ALBERTO AJELLO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1694/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 28/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

uditi gli Avvocati D’ACUNTI Carlo Mario, AJELLO Giovanni Alberto,

difensori del ricorrente che hanno chiesto l’accoglimento del

ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

l La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 28.12.2011, accogliendo l’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha confermato l’annullamento dell’ordinanza ingiunzione 4.12.2001 n. 50430 limitatamente alla sanzione riferibile alle operazioni effettuate sotto la direzione S.F. al (OMISSIS) nel periodo anteriore al (OMISSIS) e ha riformato, per il resto, la sentenza di primo grado ritenendo dovuta da parte della banca la sanzione riferibile alle operazioni successive al (OMISSIS).

Il giudizio riguardava l’opposizione proposta dal Banco Di Sicilia spa contro l’ordinanza ingiunzione del 4.12.2011 emessa dal Ministero per violazione della L. n. 197 del 1991, art. 3 (omessa segnalazione di operazioni bancarie sospette per l’ammontare complessivo di lire 389.000.000.

Per giungere a tale conclusione la Corte d’Appello ha dapprima esaminato le eccezioni riproposte dalla banca appellata rilevando:

– che quella di decadenza era da ritenersi infondata sulla scorta della ricostruzione dei fatti, così come infondata era quella con cui si deduceva l’incompetenza del Direttore Generale ad emettere l’ingiunzione;

-che invece poteva dichiararsi prescritta la pretesa con riferimento alle operazioni compiute prima del 18.4.1995, avuto riferimento al verbale della GDF avente valore di atto interruttivo non sussistendo ipotesi di illecito permanente;

– che era altresì infondata l’eccezione circa la mancanza del parere obbligatorio della Commissione prevista dall’art. 32 del T.U. valutario perchè soppressa con decreto legge;

che era ammissibile la costituzione in giudizio del Ministero;

che non aveva alcun rilievo l’annullamento dell’ordinanza nei confronti del coobbligato solidale per vizio del procedimento.

Ha quindi ritenuto provata la natura sospetta delle operazioni consistenti nei cambi dei numerosi assegni (ben 300) mediante prelevamenti in contanti, ciascuno di importo prossimo o inferiore ai 20.000.000 di lire (nel complesso portanti la somma di lire 5.799.500.000, tra il 10 gennaio 1995 e il 31 ottobre 1999), a testimonianza di una radicata tolleranza della banca verso un modus operandi del cliente improntato ad elusione della normativa antiriciclaggio perpetuata dai diversi direttori avvicendatesi nell’agenzia (OMISSIS) di (OMISSIS).

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Unicredit spa (società incorporante del Banco di Sicilia) sulla base di otto motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. a cui resiste il Ministero dell’Economia e delle Finanze con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Innanzitutto, bene precisare, in risposta alla specifica eccezione mossa dal Ministero controricorrente che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, è ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, allorchè esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 9793 del 23/04/2013Rv. 626154). Insomma, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (così Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015 Rv. 635452).

Nel caso di specie, la formulazione del ricorso permette di cogliere con sufficiente chiarezza le doglianze prospettate dalla banca onde consentirne l’esame separato e, d’altra parte, il controricorso non evidenzia specifici elementi che depongono in senso contrario, limitandosi, invece, alla sola enunciazione della più risalente giurisprudenza favorevole alla tesi restrittiva, che le stesse sezioni unite hanno poi superato.

1.1 – 1.2 – Ciò chiarito, e passando all’esame dei motivi, con il primo di essi si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, artt. 3 e 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè omessa e/o insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c.. Nel criticare la ritenuta natura sospetta delle operazioni, sostiene la banca che la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare gli elementi di fatto da essa addotti per dimostrare la piena conoscenza delle condizioni del cliente e quindi della assenza della necessità di provvedere alla segnalazione. Si sofferma quindi sull’analisi dei bilanci, della solidità economica della società correntista e sul contenuto della consulenza tecnica di ufficio svolta nel giudizio di merito.

Col secondo motivo la banca denunzia violazione delle stesse disposizioni e ancora vizio di motivazione sulla natura sospetta delle operazioni soffermandosi, attraverso una analitica disamina, sul profilo soggettivo del cliente e sui profili oggettivi delle operazioni, per poi dedurre l’estraneità della fattispecie configurata in concreto rispetto al tipo astratto.

Questi due motivi – che ben si prestano a trattazione unitaria per il prevalente riferimento alla natura delle operazioni contestate – sono privi di fondamento.

Il D.L. 3 maggio 1991, n. 143, art. 3 convertito con modificazioni in L. 5 luglio 1991, n. 197 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) stabilisce che “il responsabile della dipendenza, dell’ufficio o di altro punto operativo di uno dei soggetti di cui all’art. 4, indipendentemente dall’abilitazione ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1, ha l’obbligo di segnalare senza ritardo al titolare dell’attività o al legale rappresentante o a un suo delegato ogni operazione che per caratteristiche, entità, natura, o per qualsivoglia altra circostanza conosciuta a ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica e dell’attività svolta dal soggetto cui è riferita, induca a ritenere, in base agli elementi a sua disposizione, che il danaro, i beni o le utilità oggetto delle operazioni medesime possano provenire dai delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.. Tra le caratteristiche di cui al periodo precedente è compresa, in particolare, l’effettuazione di una pluralità di operazioni non giustificata dall’attività svolta da parte della medesima persona, ovvero, ove se ne abbia conoscenza, da parte di persone appartenenti allo stesso nucleo familiare dipendenti o collaboratori di una stessa impresa o comunque da parte di interposta persona”.

Come già chiarito da questa Corte (v. Sez. 5, Sentenza n. 23017 del 30/10/2009 Rv. 610701), lo scopo cui tende la norma è quello, annunziato già nel titolo del D.L. n. 143 del 1991, di contrastare i fenomeni criminali, limitando l’uso del denaro contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenendo “l’utilizzazione dei sistema finanziario a scopo di riciclaggio”; a tal fine, il legislatore – recependo anche direttive Europee (cfr. D.Lgs. n. 153 del 1997) – intende reprimere alcune condotte di pericolo fra le quali, per quanto ora interessa, quelle operazioni che “per caratteristiche, entità, natura, o per qualsivoglia altra circostanza, induca(no) a ritenere” la possibile provenienza di denaro, beni o utilità, oggetto di dette operazioni, da taluno dei reati contemplati dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p. (D.L. n. 143 del 1991, art. 3, comma 1, sostituito dal D.Lgs. n. 153 del 1997, art. 1, entrato in vigore il 1.9.1997, per segnalazioni effettuate dopo tale data, come prescrive il successivo art. 2, quindi applicabile alla controversia in esame).

Tenuto a segnalare simili operazioni è “il responsabile della dipendenza”, il quale ne riferisce al ” titolare dell’attività, al legale rappresentante o un suo delegato” il quale a sua volta “esamina le segnalazioni pervenutegli qualora le ritenga fondate tenendo conto dell’insieme degli elementi a sua disposizione, anche desumibili dall’archivio di cui all’articolo comma 1, le trasmette senza ritardo, ove possibile prima di eseguire l’operazione, anche in via informatica e telematica, all’Ufficio italiano dei cambi senza alcuna indicazione dei nominativi dei segnalanti” (art. 3 cit., comma 2).

Nelle ipotesi contemplate dall’art. 3, ossia nel caso di operazioni sospettabili di riciclaggio, la legge prevede dunque un duplice obbligo di segnalazione, ugualmente sanzionato dal D.L. n. 143 del 1991, art. 5, comma 5: da parte del responsabile della dipendenza al titolare dell’attività, ossia all’organo direttivo della banca (art. 3, comma 1), e da parte di quest’ultimo al questore (comma 2).

E’ del tutto evidente che il potere di valutare le segnalazioni e di trasmetterle al Questore solo se le ritenga fondate, in base all’insieme degli elementi a disposizione, spetta solo al titolare dell’attività; mentre il responsabile della dipendenza ha un margine di discrezionalità più ridotto, dovendo segnalare al suo superiore “ogni” operazione che lo “induca a ritenere” che l’oggetto di essa “possa provenire” da reati attinenti al riciclaggio.

Anche nell’ambito di questo più ristretto margine di giudizio, il responsabile della dipendenza deve controllare, per vero, che sussistano elementi tali da far ritenere sospetta l’operazione; ma si tratta di elementi essenzialmente oggettivi stabiliti dalla stessa legge – caratteristiche, entità, natura o “qualsivoglia altra circostanza” oggettivamente significativa – o ulteriormente specificati dalla Banca d’Italia; laddove gli elementi (pur sempre di carattere oggettivo) riferibili al cliente, che il responsabile della dipendenza è pure tenuto a considerare, sono la capacità economica e l’attività svolta.

La Corte di merito ha dato conto della natura sospetta delle operazioni bancarie poste in essere dalla società correntista, la società CIPO (operante nel settore del commercio di agrumi), sottolineando l’emissione, tra il gennaio 1995 e l’ottobre 1999, di ben 300 assegni per prelevamenti in contanti, ciascuno di importo prossimo e inferiore ai 20.000.000 di vecchie lire, per un totale complessivo di lire 5.799.500.000, sintomo – sempre secondo l’apprezzamento del giudice di merito – di una radicata tolleranza della banca verso un modus operandi del cliente improntato all’elusione della normativa antiriciclaggio.

La sentenza impugnata si è confrontata anche con la linea difensiva della Banca (imperniata a sua volta sulla solidità economica della cliente) ed ha spiegato le ragioni del proprio dissenso evidenziando il fatto che il legale rappresentante della società CIPO, anzichè emettere assegni di importo pari alle variabili necessità di danaro liquido della società (talvolta giustificate con l’esigenza di provvedere ai pagamenti spettanti ai conferitori, talaltra con non meglio specificate esigenze amministrative ricorreva sistematicamente all’emissione per un importo inferiore ai 20 milioni di lire, con ciò manifestando sempre secondo l’apprezzamento del giudice di merito – un ben preciso intento elusivo (ovverosia finalizzato all’unico scopo di non incorrere nella segnalazione dovuta dall’intermediario e nelle successive verifiche ispettive), che avrebbe doverosamente imposto l’attivazione della segnalazione prevista per la normativa antiriciclaggio.

Ad avviso della Corte d’Appello, in presenza di un sì evidente ripetuto comportamento evasivo, sintomo della conoscenza da parte del cliente della normativa antiriciclaggio e della precisa finalità di evitare la segnalazione prevista dalla L. n. 197 del 1991, art. 3, la Banca avrebbe dovuto diligentemente riversare sulle autorità competenti il compito di verificare le ragioni di una condotta pervicace ed oggettivamente sospetta, anzichè trincerarsi dietro un convincimento di liceità dell’operato della società CIPO, convincimento del tutto soggettivo, fondato su una inesatta e incompleta percezione della realtà anche perchè – come emerso dagli atti – dall’esame a campione dei conferitori eseguito dalla Guardia di Finanza era emerso che costoro neppure conoscevano l’esistenza della CIPO, mentre i movimenti di merce sottostanti alle ingenti movimentazioni di danaro in contanti si erano rivelati inesistenti.

Insomma, secondo la Corte d’Appello, si imponeva la segnalazione, espressamente prevista dal decalogo della Banca di Italia “in caso di frequente ricorso a tecniche di frazionamento dell’operazione, soprattutto se volte ed eludere gli obblighi di identificazione o registrazione” (v. pagg. 13 e ss sentenza impugnata).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello, sui fatti di rilevanza penale commessi, per così dire, a monte delle operazioni bancarie di cui si discute, ha riportato le dichiarazioni del M.llo della Guardia di Finanza da cui emergeva che i soggetti “conferitori” dei prodotti, sentiti a campione, neanche conoscevano l’esistenza della CIPO; ha altresì rilevato che “i movimenti di merce sottostanti alle ingenti movimentazioni di danaro in contanti sono risultati – ad una controllo della medesima GDF attualmente in corso di verifica da parte del giudice penale – inesistenti” (v. pag. 15 sentenza impugnata”.

Tali considerazioni dimostrano quindi che la Corte di merito si era posta anche il problema della provenienza del danaro via via prelevato in contanti presso lo sportello bancario.

Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo completo, logicamente coerente e, come tale, non attaccabile dalle lunghe censure di tipo esclusivamente fattuale, tendenti in sostanza a sollecitare una ricostruzione alternativa dei fatti, assolutamente preclusa in questa sede.

Infatti, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (v. tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477 del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997 Rv. 511208; Sez. Ordinanza n. 91 del 07/01/2014 Rv. 629382).

3. Col terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 14 (per un mero lapsus in ricorso è scritto “689/1991”, ndr) e degli artt. della L. n. 197 del 1991, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Osserva la ricorrente società che il termine di 90 giorni per contestare la violazione doveva decorrere dal 18.4.2000, data di notificazione del verbale della Guardia di Finanza (verbale non di accertamento ma di contestazione) e non già dall’8.8.2000 (data di comunicazione al Ministero del predetto verbale). Applicando correttamente la decorrenza dal 18.4.2000, risultava pertanto tardiva la contestazione avvenuta solo in data 17.10.2000.

La censura è priva di autosufficienza e come tale inammissibile, mancando la trascrizione comunque i dati essenziali circa il deposito nel giudizio di merito) del documento cardine a sostegno della doglianza, il verbale della Guardia di Finanza la cui natura viene oggi posta in discussione, non apparendo sufficiente la riproduzione di isolati passaggi contenuta a pag. 2 e 3 del ricorso.

In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame. (tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013 Rv. 625839).

Il principio vale naturalmente sia per gli atti processuali che per i documenti.

4. Col quarto motivo si lamenta violazione della L. n. 689 del 1981, art. 28 (ancora una volta, per un mero lapsus in ricorso è scritto “689/1991”, ndr), in relazione all’art. 360, n. 3; insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Dolendosi dell’accoglimento solo parziale dell’eccezione di prescrizione, la banca ricorrente rimprovera alla Corte d’Appello di avere attribuito valore di atto interruttivo della prescrizione al verbale della Guardia di Finanza, benchè avesse negato il valore di verbale di contestazione, ritenendolo di mera ricognizione del fatto e quindi negando implicitamente natura diffidatoria e di costituzione in mora.

Il motivo è infondato perchè non considera il principio, più volte affermato questa Corte – ed oggi ancora una volta ribadito – secondo cui in tema di sanzioni amministrative, ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria, in quanto, costituendo esso esercizio della pretesa sanzionatoria, è idoneo a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 cod. civ., con conseguente effetto interruttivo della prescrizione (cfr. tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 185 del 04/01/2011 Rv. 615496 non massimata; v ancora, cass. Sez. 2, Sentenza n. 1081 del 18/01/2007 Rv. 594480; Sez. 1, Sentenza n. 3124 del 16/02/2005 Rv. 579807; Sez. 1, Sentenza n. 9520 del 13/07/2001 Rv. 548129).

5. Col quinto motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, art. 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Si critica la sentenza per avere ritenuto, in caso di provvedimenti sanzionatori emessi dai Direttori Generali, non necessaria una particolare delega ministeriale: al contrario, secondo la tesi della Banca, il Direttore Generale, in mancanza di espressa delega, non era legittimato.

La censura è priva di fondamento perchè si scontra col principio di diritto, già affermato da questa Corte – ed oggi ribadito – secondo cui in tema di sanzioni amministrative, la sanzione pecuniaria per la violazione di omessa segnalazione di operazioni finanziarie sospette, di cui al D.L. maggio 1991, n. 143, art. 3, convertito, con modificazioni, nella L. 5 luglio 1991, n. 197, è legittimamente irrogata, ai sensi dell’art. 5 dello stesso D.L. n. 143, dal direttore generale del ministero competente all’emissione del decreto sanzionatorio. Infatti, l’anzidetto art. 5 deve essere interpretato alla luce della disciplina recata dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, artt. 3, 14 e 16 (vigente “ratione temporis”), in forza della quale, introducendosi nell’ordinamento il principio della separazione tra direzione politica e responsabilità della gestione amministrativa, ai responsabili delle direzioni generali compete l’adozione di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano la P.A. verso l’esterno e che sono direttamente ricollegabili a detta attività di gestione, ivi compresa quella della irrogazione di sanzioni in applicazione della specifica disciplina di settore e in relazione alla disciplina dettata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (v. Sez. 2, Sentenza n. 10621 del 03/05/2010 Rv. 613101; Sez. 2, Sentenza n. 10202 del 28/04/2010 Rv. 612574).

6 Col sesto motivo la Unicredit denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 197 del 1991, art. 5, del D.L. 12 ottobre 2001, n. 369, art. 1, comma 5 e del D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148, art. 32 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Dolendosi del rigetto dell’eccezione di nullità del provvedimento per mancata acquisizione del prescritto parere della Commissione Consultiva, la ricorrente osserva che, nonostante la formula adottata nel testo, il D.L. 12 ottobre 2001, n. 369 – dettato in materia di terrorismo – non aveva inteso affatto sopprimere la Commissione, ma solo il suo funzionamento in materia di terrorismo, tant’è che in sede di conversione in legge non è stata prevista la ricostituzione della Commissione (come invece sarebbe stato logico se vi fossa stata in precedenza una vera e propria soppressione), ma più semplicemente, la non necessità del parere in materia di sanzioni relative al terrorismo internazionale.

La censura, anche se apprezzabile per lo sforzo interpretativo profuso, è priva di fondamento.

Il D.L. 12 ottobre 2001, n. 369 (Misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale) convertito con modificazioni dalla L. 14 dicembre 2001, n. 431 all’art. 1, comma 5 prevedeva che “La commissione consultiva prevista dal D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148, art. 32, e soppressa”.

Il decreto in questione è entrato in vigore il giorno 15.10.2001, coincidente con la data della sua pubblicazione in G.U. art. 3) e dunque alla data in cui è stato adottato il provvedimento sanzionatorio (4.12.2001) il suddetto provvedimento legislativo era pienamente in vigore.

Da ciò discende che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione della normativa vigente che, seppur inserita in un provvedimento legislativo finalizzato al contrasto e alla repressione del finanziamento del terrorismo internazionale, aveva, per la assoluta chiarezza del dato testuale, una portata di carattere generale che non consentiva all’interprete di operare soggettivi distinguo.

La successiva formulazione del comma 5 in sede di legge di conversione, secondo cui “I provvedimenti di irrogazione delle sanzioni previsti dall’art. 2 del presente decreto sono emessi senza acquisire il parere della Commissione consultiva prevista dall’art. 32 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di cui al D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148” non può incidere sulla corretta interpretazione data dall’autorità amministrativa sotto la vigenza di un decreto legge (in un’epoca in cui non si prevedeva neppure se e in che modo la disposizione sarebbe stata convertita) e, a ben vedere, non esclude neppure un difetto di coordinamento tra quella e questo.

7 Col settimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23 in relazione agli artt. 166 e 167 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa motivazione su un punto decisivo proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. A dire della società Unicredit i giudici di merito avrebbero dovuto dichiarare inammissibile la costituzione del Ministero a mezzo fax a nulla rilevando il successivo invio di memoria a mezzo posta e ancora dopo, l’intervento dell’Avvocatura dello Stato.

Il motivo è infondato.

Nel procedimento di opposizione all’ordinanza- ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa, il modello processuale configurato dal legislatore resta governato dal principio dispositivo (temperato dai poteri officiosi del giudice L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 23, comma 2) e non prevede particolari sanzioni (salvo quella, a carico dell’opponente, stabilita dal comma 5 della norma sopra citata) per omissioni o ritardi di attività delle parti, così come non inficia di nullità eventuali deviazioni dal modello poste in essere dal giudice, salvo quella della pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo in udienza (Sez. 1, Sentenza n. 14016 del 2002; Cass. 2 marzo 1994, n. 2060; Cass. 19 febbraio 1999, n. 1404), onde l’inosservanza, da parte dell’autorità che ha emesso il provvedimento opposto, del termine per il deposito dei documenti relativi all’infrazione, fissato in dieci giorni prima dell’udienza di comparizione della richiamata L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 2, non implica decadenza, in difetto di espressa previsione di perentorietà, nè rende la relativa esibizione nulla, ma meramente irregolare (Sez. 1, Sentenza n. 14016 del 2002 cit.; Cass. 17 gennaio 1998, n. 373; Cass. 4 aprile 2001, n. 4931; Cass. 14 dicembre 2001, n. 15828).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha dato atto della avvenuta costituzione dell’Avvocatura dello Stato mediante il sistema postale e dunque nessuna norma impediva di regolarizzare una precedente costituzione in giudizio, non risultando intervenute – e neppure dedotte specifiche preclusioni decadenze.

Sulla costituzione a mezzo del servizio postale, questa Corte ha già rilevato la ritualità, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2004 n. 98, per la quale – in conformità all’indirizzo già introdotto con la sentenza del 2002 n. 520, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, commi 1 e 2costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 24 Cost., la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, nella parte in cui non consente l’utilizzo del servizio postale per la proposizione dell’opposizione ad ordinanza-ingiunzione, e quindi, in senso generale, nella parte in cui non consente, per il deposito di qualsiasi atto ai fini della costituzione in giudizio, l’utilizzo del servizio postale (v. sez. 2, Sentenza n. 8287 del 2011).

Quanto alla successiva produzione documentale, essa doveva ritenersi consentita in applicazione del suindicato principio di diritto.

8 Con l’ottavo motivo viene denunciata, infine, la violazione e falsa applicazione della L. n. “689 del 1991”, artt. 2, 3 e 6 (ancora una volta la ricorrente incorre in errore materiale sulla data della legge, ndr) e della L. n. 197 del 1991, art. 5, nel testo all’epoca vigente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè insufficiente, omessa ed errata motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Con tale censura ci si duole del mancato annullamento dell’ordinanza ingiunzione quale conseguenza dell’annullamento dell’ordinanza ingiunzione notificata al coobbligato solidale (il Direttore S.). Secondo la tesi della ricorrente, la vicenda degli “incolpati” è assolutamente inscindibile e dunque le vicende sostanziali e processuali dell’uno non possono non influire sul secondo.

Anche tale censura è priva di fondamento perchè, come rilevato del tutto correttamente dalla Corte d’Appello, l’ordinanza ingiunzione nei confronti del Direttore era stata annullata esclusivamente per motivi procedimentali (mancata audizione dell’interessato) e quindi per un mero vizio di forma riguardante solo la posizione dell’interessato, ma non certo per la accertata insussistenza della violazione o per l’intervenuta estinzione dell’obbligazione nei confronti dell’autore della violazione.

Non si vede pertanto perchè di tale conseguenza dovesse giovarsene la Banca, considerato che nulla avrebbe impedito, sussistendone le condizioni temporali, di emettere nuova ordinanza ingiunzione nei confronti del coobbligato Direttore.

In conclusione, l’impugnazione va respinta con addebito di spese a carico della parte soccombente.

Considerato inoltre che il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è stato rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1 -quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 4.000,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2016

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