Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24407 del 04/10/2018

Cassazione civile sez. VI, 04/10/2018, (ud. 06/06/2018, dep. 04/10/2018), n.24407

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6610/2017 proposto da:

LUMINA ITALIA S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE n. 123, presso lo studio dell’avvocato

EUGENIO NOVARIO, rappresentata e difesa dagli avvocati ALBERTO

RANDAZZO, MASSIMO BAIO;

– ricorrente –

contro

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASQUALE

STANISLAO MANCINI n. 2, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLO

ALESSANDRINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CLAUDIO SIGNINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 847/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 22/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 06/06/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza del 16 giugno- 22 settembre 2016 numero 847 la Corte d’Appello di Milano confermava, per quanto ancora in causa, la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da F.M., dipendente di LUMINA ITALIA srl con qualifica di dirigente, per la dichiarazione di ingiustificatezza del licenziamento intimatole in data 25 gennaio 2013 per ragioni disciplinari, per avere reiteratamente e senza autorizzazione effettuato prelievi dalla cassa aziendale in acconto sul proprio stipendio mensile;

che la Corte territoriale, al pari del giudice del primo grado, attribuiva valenza decisiva alle dichiarazioni del teste P.E., gestore della azienda, che aveva confermato l’assunto della lavoratrice, affermando che ella era stata autorizzata ad eseguire in autonomia anticipi ai dipendenti con prelievo dalla cassa aziendale. Riteneva che tali dichiarazioni non fossero superate dalla testimonianza resa da C.A., dipendente della società LUMINA e successivamente componente del Consiglio di Amministrazione, in quanto il P. aveva continuato a gestire l’azienda fino all’anno 2007 e nella sua posizione apicale aveva confermato l’autorizzazione agli anticipi conferita alla F. ed aveva precisato, anzi, di avere svolto controlli senza riscontrare alcuna irregolarità;

che avverso la sentenza ha proposto ricorso la società LUMINA ITALIA srl, articolato in un unico motivo, cui ha opposto difese F.M. con controricorso;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

che la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che con l’unico motivo la società ricorrente ha dedotto omessa valutazione di fatti provati dai documenti prodotti in causa ed aventi rilievo decisivo nella valutazione di attendibilità del teste C.A. su una circostanza determinante.

Ha esposto che tanto il Tribunale che il giudice dell’appello avevano ritenuto non provata la revoca della autorizzazione ad erogare anticipi sulle retribuzioni concessa alla F., considerando inattendibile la testimonianza sul punto di C.A.. Ciò per avere erroneamente ritenuto essere responsabile aziendale fino all’anno 2008 il teste P.E..

Le deposizioni dei due testi erano in contraddizione soltanto apparente, in quanto essi riferivano di momenti temporalmente diversi della gestione della società: il teste P., in particolare, riferiva del periodo anteriore all’anno 2000 giacchè nel periodo dal 2000 al 2007 egli aveva svolto le funzioni di Presidente del Consiglio di Amministrazione ma di fatto non si era occupato della amministrazione, conferita ai consiglieri C.E. ed A.. Tanto risultava dai verbali del Consiglio di Amministrazione di LUMINA ITALIA del 3.1.2000 (con il quale ad C.A. era affidata la responsabilità dell’area ammnistrativa e commerciale) e del 25.7.2007 (nel quale si dava atto che i fratelli C. di fatto amministravano la società in forza delle deleghe ricevute). Con il ricorso in appello era stata prodotta ulteriore documentazione dell’assenza operativa del P. a partire dall’anno 2000 (verbali del consiglio di amministrazione dell’8 novembre 2001 e del 18 febbraio 2003). Alla luce di tali emergenze la dichiarazione di C.A. in ordine alla revoca dell’autorizzazione non era in contraddizione con quella del P., che aveva riferito di un periodo diverso ed anteriore.

Il Tribunale aveva erroneamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni di C.A. alla luce del rapporto parentale con l’amministratore in carica C.E.; tra i fratelli vi era, invece, nei fatti un rapporto conflittuale, come emergente dal verbale del 25 luglio 2007. Nè era plausibile l’interpretazione data dal Tribunale alla telefonata del 22 gennaio 2013 tra C.A. ed il P., nella quale il primo chiedeva spiegazioni al P. sulla autorizzazione; il Tribunale non aveva invece dato rilievo alle dichiarazioni del teste C.A. in ordine alle pressioni ricevute dal marito della dirigente, pur avendo sentito quest’ultimo come teste.

Andava inoltre considerato che mentre gli acconti per i dipendenti avvenivano mediante bonifico bancario (previa autorizzazione, di C.A. fino al 2007 e di C.E. dall’anno 2008) la F. aveva spesso provveduto per se stessa in contanti, evidentemente per rendere meno tracciabile il prelievo; la registrazione in prima nota, che non era nominativa, non avrebbe consentito, infatti, all’amministratore alcun controllo.

che ritiene il Collegio si debba dichiarare la inammissibilità del ricorso;

che dalla stessa esposizione del motivo risulta che il ricorso è diretto ad una rivalutazione del giudizio di merito espresso in sentenza all’esito della valutazione di attendibilità dei testi e della selezione degli elementi probatori ai fini dell’accertamento del fatto addebitato alla F.; l’accertamento del fatto storico è contestabile in questa sede di legittimità unicamente con la deduzione di un vizio della motivazione, nei termini segnati dal vigente art. 360 c.p.c., n. 5. Nella fattispecie in causa, tuttavia, la stessa deducibilità del vizio di motivazione è in limine preclusa dall’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, applicabile ratione temporis, in quanto nei due gradi di merito è stata resa pronuncia conforme sul fatto controverso, per le stesse ragioni. In memoria il ricorrente sostiene che la censura articolata con l’unico motivo debba qualificarsi come vizio di nullità della sentenza gravata per assenza di motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c.. La qualificazione prospettata non si attaglia, tuttavia, ai contenuti della censura, diretta piuttosto che a stigmatizzare la assenza della motivazione, a prospettare una ricostruzione del fatto difforme da quella accolta in sentenza attraverso la valorizzazione di elementi di prova diversi da quelli posti dal giudice del merito a fondamento del suo convincimento. Nè il vizio di omessa motivazione può consistere nella mancata valutazione in sentenza di tuti gli elementi di prova raccolti; spetta, infatti, al giudice del merito la selezione delle risultanze probatorie che egli ritenga più idonee alla ricostruzione dei fatti in discussione senza alcun obbligo ex art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., di dare conto della consistenza di tutte le altre. Nè ha pregio la deduzione, pure proposta in memoria, della omessa indicazione nella sentenza impugnata delle ragioni di condivisione della sentenza di primo grado: la conferma della sentenza appellata è stata ampiamente ed autonomamente argomentata dal collegio di secondo grado;

che, pertanto, la causa può essere definita, in conformità alla proposta del relatore, con ordinanza in Camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.;

che le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 4.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2018

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