Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24397 del 30/09/2019

Cassazione civile sez. I, 30/09/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 30/09/2019), n.24397

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26435/2018 proposto da:

P.P.K., elettivamente domiciliato in Roma Via Emilio Faà

Di Bruno, 15 presso lo studio dell’avvocato Marta Di Tullio che lo

rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1818/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 09/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/07/2019 dal Consigliere Dott.ssa Paola GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Milano confermava il rigetto della domanda di protezione internazionale proposta da P.P.K., nato in (OMISSIS), disposto dal Tribunale di Milano.

2. La Corte esponeva che il richiedente aveva riferito alla Commissione di non poter tornare in Ghana perchè la famiglia, di religione musulmana, voleva ucciderlo in virtù della propria religione cristiana. Riteneva che quanto riferito non fosse credibile in quanto in contrasto con la situazione del Ghana in materia di libertà religiosa quale desumibile dal Rapporto 2016 sulla libertà religiosa internazionale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Non si comprendevano inoltre le ragioni di violenze e minacce che si sarebbero manifestate dopo quattro anni dalla dichiarata conversione. Non sussistevano quindi i presupposti per la concessione dello status di rifugiato, mentre in relazione alla domanda di protezione sussidiaria argomentava che seppure in Ghana si registri la limitazione di alcuni diritti fondamentali (ad esempio nei confronti dei minori, delle donne, delle comunità lgbt, dei pazienti affetti da malattia mentale, vedi rapporto Amnesty International 2016/2017) purtuttavia non viene segnalata la mancanza di controllo statuale del territorio e la mancata tutela dei soggetti che, come l’appellante, non appartengono alle suddette minoranze discriminate. Con riferimento al rischio effettivo di danno grave come definito dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), argomentava che in base al citato rapporto di Amnesty International in Ghana non sono segnalate situazioni di conflitto interno e lo UNHCR non ha dato indicazioni di non rimpatrio. Ai fini della protezione umanitaria riteneva poi insufficiente l’integrazione lavorativa del richiedente, assunto in qualità di apprendista meccanico demolitore, in difetto di una situazione di specifica vulnerabilità.

3. P.P.K. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a sette motivi, cui il Ministero dell’interno non ha opposto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il primo, secondo, terzo, quarto, sesto e settimo motivo (status di rifugiato e protezione sussidiaria) sono inammissibili.

La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), (Cass. 3340/2019), escludendosi, in mancanza, la necessità e la possibilità stessa per il giudice di merito laddove non vengano dedotti fatti attendibili e concreti, idonei a consentire un approfondimento ufficioso – di operare ulteriori accertamenti.

Nel caso concreto, la Corte d’appello ha ampiamente motivato in ordine alle ragioni per le quali la narrazione dell’istante non è credibile, attesa la tolleranza esistente in Ghana in ordine alle confessioni religiose, considerato che l’assoluta maggioranza dei cittadini è di religione cristiana, come il ricorrente, e tenuto conto del fatto che è del tutto inverosimile che le presunte violenze da parte dei familiari si siano verificate dopo ben quattro anni dalla dichiarata conversione.

5. I motivi si sostanziano in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal giudice territoriale e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle dichiarazioni rese e sono perciò inammissibili, considerato che il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico desunto da un vaglio rigoroso delle risultanze di causa.

6. La non credibilità del richiedente esclude in radice la riconoscibilità dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

7. Per quanto concerne, poi, la protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass., 28/06/2018, n. 17075; Cass., 12/11/2018, n. 28990). Al fine di ritenere adempiuto tale onere, inoltre, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass., 26/04/2019, n. 11312). Tali accertamenti, una volta effettuati, danno luogo ad un apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (Cass., 12/12/2018, n. 32064).

8. Nel caso concreto, la Corte territoriale ha fatto riferimento a fonti internazionali aggiornate, indicate nella sentenza, ed il motivo anche a tale proposito contrappone una diversa valutazione di merito.

9. Il quinto motivo (protezione umanitaria) non è fondato.

Nessuna rilevanza può, infatti attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

10. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072).

11. Segue coerente il rigetto del ricorso.

12. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva della parte intimata.

13. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019

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