Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24389 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/11/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 03/11/2020), n.24389

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10582-2017 proposto da:

CENTRO ESTETICO “VANITY CLUB” DI V.G., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

BORGOGNONA, 47, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO MANNOCCHI,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUNGOTEVERE

FLAMINIO 26, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GIGLIO,

rappresentata e difesa dall’avvocato PATRIZIA LONGO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 285/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 18/04/2016 r.g.n. 1256/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/09/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza resa pubblica il 18/4/2016, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva accertato l’intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato fra C.S. ed il Centro Estetico Vanity Club di V.G. nel periodo 1/7/20017/12/2005; lo svolgimento di mansioni di estetista corrispondenti al IV livello dal 1/7/2001 al 30/6/2003 ed al III livello del c.c.n.l. di settore dal 1/7/2003 al 7/12/2005; l’omissione contributiva in relazione all’intero rapporto intercorso; la condanna della parte datoriale al pagamento della somma di Euro 27.957,23 a titolo di differenze retributive, mensilità aggiuntive, lavoro straordinario, ferie non godute e t.f.r. nonchè al risarcimento del danno da irregolarità contributiva.

La Corte distrettuale, in estrema sintesi, perveniva a tale convincimento dopo aver vagliato il quadro istruttorio delineato in prime cure, ritenuto del tutto univoco nel senso dell’inquadramento del rapporto inter partes nell’ambito della locatio operarum; deduceva che la carenza di titolo professionale non poteva determinare la nullità del contratto di lavoro come preteso dall’appellante, ma esclusivamente l’applicazione di sanzioni di natura amministrativa L. n. 1 del 1990, ex art. 12. Precisava quindi, in ordine al quantum debeatur, che il nominato ausiliare aveva accertato “un credito superiore a quello corrispondente alla liquidazione operata dal Giudice di primo grado. Pertanto, in assenza di appello incidentale della lavoratrice”, alla stessa sarebbe spettato esclusivamente il minore importo liquidato dal primo giudice.

Avverso tale decisione il Centro Estetico “Vanity Club” interpone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi ai quali oppone difese la lavoratrice con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 24 Cost.artt. 132 e 429 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c.ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con riferimento alla reiezione dell’appello, si deduce che il perito avrebbe quantificato in favore della sig. C., un credito (Euro 42.606,47 al lordo) superiore a quello corrispondente alla liquidazione operata dal giudice di prima istanza (Euro 27.957,23) e la valutazione dei crediti rispettivi non sarebbe stata effettuata secondo poste omogenee (lordo e netto).

2. Si impone innanzitutto l’evidenza della inammissibilità del motivo per la non appropriata tecnica redazionale adottata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte che va qui ribadita, (vedi ex plurimis, Cass. 8/3/2007 n. 5353, Cass. 29/11/2016 n. 29/11/2016, cui adde Cass. 14/5/2018 n. 11603), il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata.

Nello specifico la critica non risulta sorretta da adeguata enunciazione di ragioni esplicative della violazione di legge in cui sarebbe incorso il giudice del gravame, essendosi limitata la ricorrente a dedurre (vedi pag. 9 del ricorso), che la “Corte d’Appello sarebbe incorsa nell’erronea determinazione di valutare Euro 21.392,89 superiore ad Euro 27.957,23”, facendo peraltro richiamo all’elaborato peritale stilato in grado di appello ed alla CTP allegata al ricorso di primo grado, senza riportare, neanche nelle sue parti salienti, i documenti citati.

L’assunto di parte ricorrente, nei termini descritti, non sembra peraltro, realizzare la condizione dell’interesse ad agire.

La ricorrente avrebbe infatti dovuto allegare (e, conseguentemente, dimostrare), che l’importo liquidato dal giudice di primo grado fosse superiore a quello effettivamente spettante alla lavoratrice; ma per quanto sinora detto, la confusa tesi attorea non soddisfa la summenzionata condizione dell’azione, mirando a riformare una statuizione favorevole alla società, perchè attinente alla condanna al pagamento di una somma inferiore rispetto a quella oggetto di accertamento in sede peritale.

3. Il secondo motivo prospetta violazione o falsa applicazione degli artt. 91,92132 e 429 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sul rilievo che la Corte di merito avrebbe disposto una riforma dell’inquadramento della originaria ricorrente, non accordando il terzo livello dall’inizio del rapporto ma solo trascorsi 24 mesi da tale momento, si deduce che la stessa avrebbe dovuto tener conto della situazione di reciproca soccombenza fra le parti, ai fini del governo delle spese.

4. Il motivo è privo di fondamento.

In materia di procedimento civile, secondo i consolidati dicta di questa Corte, il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all’esito finale della lite, sicchè è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano state disattese eccezioni di carattere processuale o anche di merito (cfr. Cass. 2/9/2014 n. 18503, Cass. 23/7/2010 n. 17351).

Va, poi, rimarcato che la nozione di soccombenza reciproca, evocata dalla ricorrente a sostegno della critica, in base alla quale è consentita la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), si verifica – anche in relazione al principio di causalità nelle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o in più capi, deì quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri (vedi ex aliis, Cass. 22/8/2018 n. 20888).

Nella specie, premesso che la valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, deve ritenersi che la nessuna situazione di reciprocità nella soccombenza sia configurabile, neanche sotto il profilo dell’accoglimento parziale della domanda attrice. La circostanza del riconoscimento della qualifica superiore in relazione ad un periodo più breve rispetto a quello prospettato dall’attrice, non è ridondato neanche in termini di riduzione quantitativa della pretesa azionata, avendo la Corte dato atto che le somme richieste in ricorso e riconosciute dal primo giudice, erano inferiori a quelle acclarate dal nominato ausiliare.

La statuizione di condanna emessa dai giudici del gravame, è pertanto conforme al criterio della soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c. e non risulta inficiata dalla critica formulata.

5. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 24 Cost., artt. 132 e 429 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c.ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che la Corte di merito abbia reso una motivazione apparente in ordine ai tempi e modi di svolgimento della prestazione lavorativa, con particolare riferimento alla prestazione di lavoro straordinario, avendo disposto un mero rinvio per relationem a quanto accertato dal giudice di prima istanza, senza specificamente confutare le censure formulate in atto di appello. Dall’esame della sentenza di primo grado si evinceva che il convincimento del giudicante circa la durata e la determinazione dell’orario di lavoro svolto si fondava esclusivamente sulla deposizione resa dalla teste B.S. sulla cui attendibilità erano state formulate dettagliaste censure.

6. Il motivo palesa innanzitutto un difetto di specificità giacchè, in violazione dei dettami di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3, 4 e 6 non è stato riportato il tenore del ricorso spiegato in sede di gravame, nè quello delle dichiarazioni testimoniali in relazione alle quali si fonda la censura.

Inoltre non può sottacersi, con riferimento alla questione inerente al vaglio in cassazione, della attività interpretativa del quadro istruttorio da parte del giudice del gravame, che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (vedi Cass. 2/8/2016 n. 16056, Cass. 31/7/2017 n. 19011, Cass. 7/12/2017 n. 29404). Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità.

Del resto la Corte di merito ha reso una motivazione che non può essere sussunta nella nozione di mera apparenza, avendo dato contezza del proprio convincimento mediante il richiamo alle dichiarazioni testimoniali raccolte (deposizione B.) che suffragavano ampiamente la conferma della statuizione resa dal primo giudice in ordine all’orario di lavoro osservato dalla C..

7. La quarta critica attiene alla violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 24 Cost., artt. 132,244,429 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., art. 2697 c.c., D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 10, comma 2 ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Avuto riguardo alla deposizione resa dalla teste B., ci si duole che le dichiarazioni rese non sarebbero rispondenti alle emergenze documentali attestanti la mancata attivazione di procedure ispettive a carico della ricorrente negli anni 2001-2005; la teste aveva infatti riferito che quando gli ispettori si recavano presso il centro, veniva imposto a tutte le estetiste, di togliere il camice. Tali dichiarazioni, quindi, costituivano ulteriore ragione di conferma della inattendibilità della testimone in ordine a tutti i fatti riferiti.

8. Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Inammissibile perchè sollecita una rivalutazione sulla attendibilità delle deposizioni testimoniali operata dalla Corte distrettuale, non consentita nella presente sede.

Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedi ex aliis, Cass. 18/4/2016 n. 7623) in materia di prova testimoniale, la verifica in ordine all’attendibilità del teste – che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso – forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite).

La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; e tale attività selettiva si estende all’effettiva idoneità del teste a riferire la verità, in quanto determinante a fornire il convincimento sull’efficacia dimostrativa della fonte-mezzo di prova, con la conseguente inammissibilità di una tardiva produzione documentale volta a confutarla, salva soltanto l’eventuale “remissione in termini” (vedi Cass. 4/7/2017 n. 16467).

La critica è comunque infondata, perchè il giudice del gravame ha congruamente argomentato (vedi pag. 11) – in relazione a quanto argomentato dalla appellante circa la totale assenza di accertamenti ispettivi da parte della DPL di Cosenza nel periodo di riferimento, laddove la stessa teste aveva riferito che vi era stato almeno un controllo – in ordine al fatto che dalla dichiarazione scrutinata non si evinceva che l’unico accertamento avvenuto nel periodo in cui aveva lavorato presso il centro, fosse ascrivibile alla Direzione del lavoro di Cosenza osservando, comunque, che si trattava di profilo della deposizione attinente ad un aspetto marginale della vicenda, inidoneo ad inficiare la complessiva attendibilità del teste.

9. Con il quinto motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 24 Cost., art. 132 e 429 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., D.Lgs. n. 124 del 2004 ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che la Corte di merito, in ordine alla qualificazione del rapporto di lavoro inter partes, non abbia conferito adeguata valenza al nomen juris che le parti avevano assegnato al rapporto medesimo qualificandolo intermini di “tirocinio retribuito”.

10. La censura è priva di fondamento.

E’ infatti principio consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, quello in base al quale ai fini dell’individuazione della natura autonoma o subordinata di un rapporto di lavoro, la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, seppure rilevante, non è determinante, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la disciplina legale in materia (vedi Cass. 19/8/2013 n. 19199).

In tal senso, è stato ritenuto che, pur essendo elemento necessario di valutazione, il nomen juris non costituisce fattore assorbente occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 1/3/2018 n. 4884).

Ed a siffatti principi si è conformato l’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza con il quale i giudici del gravame, all’esito di una accurata ricognizione del quadro probatorio acquisito hanno reputato sussistenti tutti gli elementi qualificativi del rapporto in termini di subordinazione, per essere stato dimostrato lo stabile inserimento della lavoratrice nella compagine organizzativa aziendale, la sottoposizione alle direttive della parte datoriale cui era rimessa la programmazione della attività lavorativa, presso i locali e mediante l’uso delle attrezzature del centro.

In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore dell’avv. Patrizia Longo, dichiaratasi antistataria.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. Patrizia Longo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

 

 

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