Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24387 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/11/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 03/11/2020), n.24387

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1210-2015 proposto da:

C.M.C., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato FILIPPO VITRANO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 20/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 23/06/2014 R.G.N. 258/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 22/07/2020 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 3933/2013, pubblicata in data 19 dicembre 2013, il Tribunale di Palermo, decidendo sul ricorso proposto da C.M.C. nei confronti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, riconosciuto come pacifico il diritto della C., già in servizio di ruolo presso un Ente locale, trasferita nei ruoli del personale ATA in virtù di quanto disposto dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 ad essere inquadrata nel livello B2 del c.c.n.l. del 26/5/1999 con il profilo di assistente tecnico (inquadramento ottenuto giudizialmente dalla predetta con sentenza n. 1888/2009) e dato atto che la questione ancora sub judice riguardava la pretesa ad un completo riconoscimento dell’anzianità pregressa maturata presso l’ente locale di provenienza e non di quella prevista dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, (della quale l’Amministrazione aveva tenuto conto in sede di ricostruzione della posizione retributiva per effetto del nuovo inquadramento in B2), respingeva la domanda;

richiamava il giudice di primo grado la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 20908/2011) con la quale, recependosi gli esiti della pronuncia sul tema della Corte di Giustizia nel caso Scattolon, si era ritenuto che nel passaggio tra gli Enti Locali ed il Ministero dovesse aversi riguardo al determinarsi o meno di un peggioramento retributivo sostanziale che, nel caso di specie non poteva dirsi esservi stato, atteso che, come accertato dal c.t.u., tra il trattamento economico complessivo (comprendente stipendio, retribuzione di anzianità ed eventuali indennità previste dalla contrattazione collettiva) percepito sino al 31 dicembre 1999 e quello percepito a partire dal 1 gennaio 2000 non vi era alcuna differenza, perchè attraverso l’assegno ad personam si era inteso compensare l’attribuzione di una posizione che, pur corrispondente al nuovo inquadramento, era inferiore al trattamento lordo annuo percepito prima del passaggio e che comunque non vi erano ripercussioni negative sul t.f.r. e sulla posizione previdenziale della ricorrente;

2. la Corte d’appello di Palermo, con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., dichiarava inammissibile l’impugnazione proposta dalla C. avverso tale sentenza;

richiamava la Corte territoriale le precedenti decisioni assunte in fattispecie sovrapponibili a quella dedotta in giudizio e, riassunti i termini della vicenda relativa al trasferimento nei ruoli dello Stato del personale ATA degli enti locali, osservava, in sintesi, che la Corte di Giustizia con la sentenza del 6 settembre 2011 in causa C – 108/10, nel ritenere applicabile alla fattispecie la direttiva 77/187/CEE, aveva escluso che il cessionario potesse non tener conto dell’anzianità pregressa dei lavoratori ceduti ma solo nei limiti necessari al mantenimento del livello retributivo in precedenza goduto, atteso che la direttiva aveva lo scopo di impedire che il lavoratore potesse subire per effetto del trasferimento un peggioramento retributivo. ritenendo che l’impugnazione non avesse una ragionevole probabilità di accoglimento e richiamando precedenti della medesima Corte territoriale sfavorevoli alla tesi della dipendente;

3. avverso la sentenza del Tribunale ha proposto ricorso C.M.C. con tre motivi;

4. il Miur ha resistito con controricorso;

5. non sono state depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della direttiva 77/187/CEE, art. 3, comma 1, come interpretato dalla Corte di Giustizia con la sentenza 108/10 in relazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2 e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

addebita alla sentenza di primo grado di non avere fatto corretta applicazione della direttiva 77/187/CEE e dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella sentenza richiamata nella rubrica del motivo in esame;

assume che l’accertamento relativo al peggioramento retributivo avrebbe dovuto essere effettuato tenendo conto dell’anzianità maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo;

2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU, dell’art. 1 del protocollo n. 1 della CEDU nella interpretazione datane dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con le sentenze del 7.6.2011 Agrati ed altri contro Italia, dell’11.12.2012 De Rosa contro Italia, del 14.1.2014 Montalto contro Italia, in relazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2 e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, e violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30;

addebita al Tribunale di non avere disapplicato la disposizione contenuta nella L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, che aveva modificato la norma contenuta nella L. n. 124 del 1999, art. 8 in violazione dei principi della CEDU nella lettura data dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo nella sentenza Agrati;

assume che la sentenza di primo grado è in contrasto con i principi affermati dalla CEDU nelle sentenze richiamate nella rubrica del motivo in esame e sostiene che la fattispecie dedotta in giudizio deve ritenersi disciplinata dalla disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30 che garantisce la continuità giuridica del rapporto di lavoro ed il mantenimento del trattamento economico in caso di passaggio da una Pubblica Amministrazione ad altra Pubblica Amministrazione;

3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost. e del principio di non discriminazione di cui alla direttiva 1999/70/CEE, clausola 4.4 dell’Accordo Quadro allegato, in relazione alla L. n. 124 del 199, art. 8, comma 2 e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

assume che il Tribunale avrebbe dovuto interpretare, in maniera costituzionalmente e comunitariamente orientata, la L. n. 124 del 1999, art. 8 e dichiarare il diritto al riconoscimento dell’anzianità maturata nell’Ente di provenienza ai fini dell’inquadramento stipendiale ed economico nella nuova classificazione del personale dell’Amministrazione statale secondo il c.c.n.l. ivi vigente;

sostiene, inoltre, che la disciplina contenuta nella L. n. 266 del 2005 contrasta con l’art. 3 Cost. in quanto viola il diritto acquisito da essa ricorrente alla conservazione dell’anzianità maturata nella successione dei rapporti giuridici svoltisi senza alcuna soluzione di continuità e formula istanza di rimessione alla Corte Costituzionale anche ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 1 in riferimento all’art. 6 convenzione EDU;

4. il ricorso è infondato, dovendo questo Collegio dare continuità all’orientamento già più volte espresso da questa Corte in argomento (v., ex plurimis, tra le più recenti, Cass. n. 29935/2018, Cass. n. 4435/2019; Cass. n. 4956/2019, Cass. n. 5630/2019, Cass. n. 7592/2019 in fattispecie del tutto analoghe a quella in esame sia in ordine alle questioni dedotte, sia quanto ai motivi di ricorso; v. pure Cass. n. 7715/2016);

5. in materia di trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. n. 124 del 1999, art. 8 questa Corte (Cass. nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018, 7310/2018), ha osservato che: il decreto del Ministro della pubblica istruzione 5 aprile 2001 recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000 in ordine ai criteri applicativi della L. n. 124 del 1999, art. 8, e che il legislatore con la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, ha elevato a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva;

l’incostituzionalità della disposizione innanzi richiamata (cui è stata riconosciuta efficacia retroattiva: v. Cass. S.U. n. 17076/2011, Corte Costituzionale n. 234/2007) è stata esclusa dal Giudice delle leggi (v. Corte Cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, nel rispondere alle quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia, ha ritenuto che: – la riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/18//CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro; – quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187/CEE porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo; – è compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo;

6. in motivazione la Corte di giustizia ha rilevato che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187/CEE, al trasferimento degli ATA si applica non solo l’art. 3, n. 1 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame) ed ha ritenuto che il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza);

7. la Corte di Giustizia ha precisato anche che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo “scopo della direttiva”, consistente “nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento” (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva non può “essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni lavorative in occasione di un trasferimento di impresa… questa direttiva non osta a che sussistano talune disparità di trattamento retributivo tra i lavoratori trasferiti e quelli che, all’atto del trasferimento, erano già al servizio del cessionario detta direttiva, per quanto la concerne, ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente”);

8. questa Corte nelle decisioni innanzi richiamate ha, inoltre, osservato, che la Corte di Giustizia ha evidenziato che nella definizione delle singole controversie, il giudice nazionale deve osservare i seguenti criteri: a. quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (cfr. nn. 75, 77, 82 e 83) e, al contrario, non rilevano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77); b. quanto alle modalità, si deve trattare di “peggioramento retributivo sostanziale” (così il dispositivo) e la comparazione tra le condizioni deve essere “globale” (n. 76: “condizioni globalmente meno favorevoli”; n. 82: “posizione globalmente sfavorevole”), quindi non limitato allo specifico istituto; c. quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto “all’atto del trasferimento” (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: “all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza”);

9. va osservato che la Corte di Giustizia, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza Agrati), ha statuito che “vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi di cui alle norme su indicate”;

10. in sintesi, la Corte di giustizia ha ritenuto che: si verte nell’ambito del diritto dell’Unione Europea; di conseguenza, la normativa nazionale in esame deve essere interpretata alla luce del diritto dell’Unione Europea; l’interpretazione orientata alla luce del diritto Europeo comporta che il passaggio alle dipendenze dello Stato non può determinare per il lavoratore condizioni meno favorevoli; la relativa verifica spetta al giudice nazionale;

11. ulteriore conseguenza di questa impostazione è l’assorbimento del problema della conformità della norma in questione all’art. 6 TUE in combinato disposto con le norme della CEDU e della Carta di Nizza, come recepite nel Trattato di Lisbona, problema esaminato dalla sentenza Agrati della CEDU, precedente alla sentenza della Corte di giustizia e da quest’ultima considerata;

12. la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea incide sul presente giudizio in quanto in base all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione Europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (per tutte, Corte Cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011);

13. l’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme Europee direttamente applicabili (cfr. Corte Cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000);

14. la decisione della presente controversia deve avvenire, in conclusione, sulla base della suindicata interpretazione della normativa nazionale orientata dal diritto Europeo (in tal senso le già richiamate decisioni di questa Corte nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018 7310/2018, 7715/2016;

15. L’esegesi della norma che regola la materia in senso conforme al diritto Europeo esclude la possibilità di disapplicarla o di sottoporla nuovamente al giudizio della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che si è espressa, su tutti i profili della sua compatibilità con il diritto Europeo, compreso quello, posto con il quarto quesito dal Tribunale di Venezia valutato dalla CGUE considerando espressamente anche il giudizio e gli argomenti formulati dalla Corte EDU nella sentenza Agrati;

16. va osservato che la pronuncia della CGUE si colloca in ambiente normativo già caratterizzato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed è stata seguita dalla sentenza 24 aprile 2012, nella causa C-571.10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’edilizia sociale della provincia autonoma di Bolzano e altri, che si è espressa sul rapporto tra norme nazionali e convenzione Europea affermando: “il rinvio operato dall’art. 6, par. 3 TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”;

17. analogamente, la Corte costituzionale italiana ha escluso che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona abbia comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti (Corte Cost. n. 80 del 2011, Cass., Sez. Un., n. 9595 del 2012), sicchè il giudice comune non ha il potere di disapplicare direttamente norme interne ritenendole contrastanti con la convenzione;

18. come evidenziato, la Corte costituzionale italiana, su sollecitazione di questa Corte, si è già espressa sulla specifica questione con la decisione n. 311 del 2009, che, sebbene antecedente alla sentenza Agrati, considera i medesimi problemi, prendendo posizione non solo sulla sussistenza nel caso in esame dei “motivi imperativi di interesse generale”, ma anche, più in generale, sulla competenza a valutarli;

19. sulla base delle considerazioni che precedono si deve escludere la fondatezza dei motivi di ricorso perchè la domanda proposta dal ricorrente può trovare accoglimento nei soli limiti indicati dalla Corte di Giustizia, ossia garantendo ai lavoratori coinvolti nel trasferimento la conservazione del medesimo trattamento economico in precedenza goduto mentre è da escludere che il ricorrente, facendo leva sull’anzianità di servizio maturata ed applicata ai diversi istituti contrattuali previsti dal c.c.n.l. del comparto di destinazione, possa pretendere un aumento della retribuzione;

20. ebbene, il Tribunale, nella definizione della controversia ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi affermati in quanto, a fondamento della statuizione di inammissibilità, ha dapprima escluso la rilevanza di elementi accessori della retribuzione percepita presso l’ente a quo in ragione di specifiche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, e poi rilevato, con accertamento in fatto che non è stato oggetto di alcuna censura, che l’odierna ricorrente per effetto del trasferimento nei ruoli del personale ATA del Ministero, non aveva subito all’atto del passaggio nei ruoli statali alcun decremento economico avendo il Consulente tecnico di ufficio escluso che vi fosse stato un peggioramento del trattamento retributivo globale, avuto riguardo alle condizioni godute prime del trasferimento (v. pag. 7 della sentenza);

21. quanto al terzo motivo del ricorso, va innanzitutto osservato che un’eventuale sollecitazione al giudice a sollevare una tale questione di legittimità costituzionale non può essere prospettata come ‘motivo di ricorso per cassazionè perchè non può essere configurata come vizio della sentenza impugnata idoneo a determinarne l’annullamento da parte di questa Corte;

infatti, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 24, comma 2, la questione di costituzionalità di una norma, non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che rilevata d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, purchè essa risulti rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali che siano state ritualmente dedotte nel processo (in senso conforme vedi, tra le altre: Cass. 18 febbraio 1999, n. 1358; Cass. 22 aprile 1999, n. 3990; Cass. 29 ottobre 2003, n. 16245; Cass. 16 aprile 2018, n. 9284; Cass. 24 febbraio 2014, n. 4406);

22. in ogni caso, questa Corte ha già ritenuto manifestamente infondata tale questione (Cass. n. 4049/2013 e fra le più recenti Cass. n. 6780, 7053, 7698 del 2018), pur apprezzando le pronunce della Corte E.D.U. successive alla sentenza della Corte Costituzionale n. 311 del 2009, in quanto il Giudice delle leggi, nell’escludere la violazione dell’art. 117 Cost. per contrasto della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, con l’art. 6 CEDU, ha ritenuto sussistenti i “motivi imperativi d’interesse generale”, valorizzati anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ed ha evidenziato che la decisione al riguardo implica una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione Europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, e, quindi, un bilanciamento di interessi che può essere compiuto solo dalla Corte Costituzionale (principio poi ribadito da Corte Cost. n. 264 del 2012 e da Corte Cost. n. 166 del 2017);

23. sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va respinto;

24. l’onere delle spese del giudizio di legittimità resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della soccombenza;

25. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna l’Ente ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

 

 

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