Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24386 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 03/11/2020), n.24386

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28007-2016 proposto da:

P.L., P.S., F.M., L.D.,

PE.RO., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO

172, presso lo studio dell’Avvocato SERGIO GALLEANO, che li

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato DANIELE BIAGINI;

– ricorrenti –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso

lo studio dell’Avvocato DORA DE ROSE dell’AREA LEGALE TERRITORIALE

CENTRO DI POSTE ITALIANE, rappresentata e difesa dall’Avvocato

ROSARIA ANTONIA BIANCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 61/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 30/05/2016 R.G.N. 259/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dal

Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con separati ricorsi, poi riuniti, i lavoratori in epigrafe indicati, premesso di avere svolto attività di autista dal 2001 al 2011 (come dato globale e cioè senza riferimento ai singoli casi ma avendo riguardo al primo e all’ultimo dato temporale in assoluto) alle dipendenze di varie ditte operanti nel territorio di (OMISSIS) in qualità di appaltatrici del servizio di cui era committente dal 1998 la società Poste Italiane spa, adivano il Tribunale di Trieste assumendo che, avendo operato per la suddetta società, erano divenuti autisti della medesima con diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed inquadramento, in ragione del CCNL applicato ai dipendenti di Poste Italiane spa.

2. Nel contraddittorio delle parti e dopo avere espletato attività istruttoria, l’adito giudice del lavoro accoglieva, con la pronuncia n. 156 del 2015, la domanda dei ricorrenti.

3. La Corte di appello di Trieste, con la sentenza n. 61 del 2016, sul gravame proposto dalla società, in riforma della impugnata pronuncia respingeva tutti gli originari ricorsi.

4. A fondamento della decisione la Corte di merito, sia avendo riguardo alle norme di cui alla L. n. 1369 del 1960, sia considerando quelle di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, applicabili ratione temporis ai distinti rapporti di lavoro dei ricorrenti, rilevava che le risultanze istruttorie acquisite in corso di causa non erano idonee a dimostrare l’esistenza di un appalto di manodopera non genuino, espletato in violazione del divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro.

5. Avverso la sentenza di secondo grado proponevano ricorso per cassazione P.L., P.S., F.M., L.D. e Pe.Ro., affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria, cui ha resistito con controricorso Poste Italiane spa.

6. Il PG non rassegnava conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con l’unico motivo i ricorrenti denunziano la violazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti e la violazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29. Dopo avere richiamato i contratti stipulati da Poste Italiane con la società appaltatrice, i modelli di servizio e le risultanze istruttorie sull’espletamento dell’appalto, i ricorrenti deducono l’erroneità della gravata sentenza in ordine ai suindicati parametri normativi perchè l’inesistenza di una struttura operativa dell’appalto e la mancanza di controllo sull’attività del personale impiegato nell’appalto avrebbe dovuto fare ritenere illecita la prestazione di lavoro, secondo i principi statuiti dalla giurisprudenza di legittimità.

2. Il ricorso non è fondato.

3. In primo luogo va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. può porsi, come vizio di legittimità, se il giudice di merito, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche quando il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggiore forza di convincimento ad alcuna piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita ex art. 116 c.p.c. (Cass. n. 26769 del 2018; Cass. n. 27000 del 2016).

4. In secondo luogo, deve precisarsi che, secondo la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 conv. nella L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, il vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, nel senso che, qualora esaminato, sia idoneo a determinare un esito diverso della controversia (per tutte Cass. n. 8053 del 2014). Inoltre, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 19881 del 2014).

5. In terzo luogo, occorre evidenziare che il vizio di violazione di legge presuppone, in una ipotesi di non controvertibilità dei fatti storici processualmente acquisiti, la specificazione delle affermazioni di diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

6. Ciò premesso, le censure di cui al motivo non sono meritevoli di accoglimento in quanto non formulate nell’osservanza dei suindicati principi, limitandosi in sostanza a richiedere un mero ed inammissibile, in questa sede, riesame delle circostanze di causa, ampiamente esaminate dalla Corte di merito, che ha congruamente escluso, con un accertamento in fatto motivato sia con riguardo alla utilizzazione dei mezzi che alla organizzazione dell’attività lavorativa che al rischio imprenditoriale, una interposizione fittizia di prestazioni lavorative, ai sensi della L. n. 1369 del 1960 ovvero un appalto non genuino D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 29.

7. Infatti, secondo la disciplina di cui alla L. n. 1369 del 1960, l’interposizione illecita andava esclusa quando l’appaltatore utilizzava una propria organizzazione e gestiva direttamente i rapporti di lavoro (Cass. n. 11957 del 2000; Cass. n. 4046 del 1999) ed i requisiti dell’appalto lecito venivano individuati nella organizzazione propria dell’appaltatore e nella assunzione di questi del rischio di impresa per il conseguimento di un autonomo risultato produttivo (Cass. n. 7362 del 2001; Cass. n. 15337 del 2002).

8. Ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 invece, l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purchè il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, costituisca un servizio in sè, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore (Cass. n. 15557 del 2019) e il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dal citato art. 29, può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell’opera o del servizio, anche nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nel contratto (Cass. n. 30694 del 2018).

9. La Corte territoriale, facendo corretta applicazione di tali orientamenti giurisprudenziali, ha accertato – come sopra precisato con una indagine di fatto svolta sulla base delle risultanze istruttorie e adeguatamente motivata – che il servizio di trasporto era direttamente organizzato dalla società appaltatrice che forniva i furgoni, mezzi indispensabili per svolgere l’attività lavorativa per la quale erano stati assunti i dipendenti e che la stessa ditta appaltatrice provvedeva alla manutenzione e al rifornimento di tali mezzi, curando il loro buon funzionamento, con l’assunzione, pertanto, di un rischio economico effettivo e non meramente figurativo. Ha, infine, precisato che i cd. “modelli 36” non provavano l’ingerenza della società Poste nella gestione del servizio da parte della società appaltatrice, in quanto gli stessi si limitavano a standardizzare il servizio che, essendo svolto su tutto il territorio nazionale, doveva rispondere a parametri di omogeneità e qualità.

10. Le censure mosse alla gravata sentenza si risolvono, quindi, solo in una rivisitazione del merito della vicenda accuratamente esaminata dai giudici di secondo grado che si sono attenuti, come detto, ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

11. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.

12. Al rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

13. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

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