Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24368 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. I, 03/11/2020, (ud. 17/09/2020, dep. 03/11/2020), n.24368

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13147/2018 proposto da:

C.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Di Meo,

domiciliato in Roma, via A. Emo n. 144, presso lo studio legale e

commerciale Sorrentino;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI CASERTA, in

persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura

dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI NAPOLI n. 4542/17,

depositata il 6 novembre 2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/9/2020 dal Consigliere Dott. PIERPAOLO GORI;

udita per l’Avvocatura dello Stato, l’Avv. Ilia Massarelli;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa C.F., che ha concluso per

l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 4542, depositata in data 6.11.2017 nella controversia iscritta al RGN 580/2017, la Corte d’appello di Napoli rigettava l’appello proposto da C.A., in impugnazione dell’ordinanza emessa il 14.1.2017 con cui il Tribunale di Napoli aveva rigettato l’opposizione interposta dal richiedente avverso il diniego al riconoscimento dello status di rifugiato ovvero di protezione sussidiaria o ancora del permesso per motivi umanitari, emesso dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Caserta.

In particolare, il ricorrente, persona mediamente scolarizzata e cittadino del (OMISSIS) in cui ha ampia diffusione l’HIV, ha reso noto di aver rifiutato di rispettare la pratica religiosa e sociale del levirato e così di sposare la moglie vedova di suo fratello, morto affetto da malattia sessualmente trasmissibile contratta a seguito di rapporti avuti con la moglie, appartenente a famiglia importante, e di aver subito minacce di morte e torture da parte di quest’ultima sino a dover lasciare il Paese di origine.

Avverso la decisione in data 29.4.2018 il richiedente ha notificato ricorso, affidato a tre motivi e il Ministero dell’Interno ha resistito depositando controricorso.

Con ordinanza interlocutoria depositata il 25.11.2019, non ricorrendo i presupposti per la decisione camerale ex art. 380 bis c.p.c., la causa è stata rimessa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via preliminare, il Ministero ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, perchè contenente la mera richiesta di rivalutazione degli elementi fattuali esposti nella motivazione del decreto.

L’eccezione non può trovare ingresso, in quanto da una piana lettura del ricorso si evincono doglianze articolate, puntuali e attinenti alla stessa nullità della sentenza per omesso esame di fatti decisivi e contrari all’esito del decreto, che impongono uno scrutinio funditus.

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, – il richiedente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,8,10 e 11 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 per violazione di legge ed omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ha affermato la necessità che il persecutore ed il perseguitato appartengano a gruppi identitari contrapposti, senza considerare che il suo rifiuto di contrarre matrimonio con la vedova del fratello lo aveva posto in posizione di alterità rispetto alle tradizioni socio-religiose del suo gruppo etnico, esponendolo alla persecuzione del gruppo familiare della vedova.

La sentenza impugnata ha inoltre omesso di verificare la riconducibilità della persecuzione alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 e, segnatamente, a quelle di cui alle lett. a) e d), nonchè di compiere qualsiasi approfondimento istruttorio in ordine all’impossibilità di accedere ad efficaci forme di tutela statuale, rigettando l’istanza di audizione personale da lui avanzata e limitandosi a fare riferimento al nuovo contesto sociale e politico del Paese di origine.

Con il secondo motivo il ricorrente censura – ai fini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, – la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 4 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e dell’art. 112 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un punto controverso e decisivo della controversia, osservando che la sentenza impugnata ha omesso di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, e segnatamente quelli di cui all’art. 14 cit., lett. b) e c) non avendo svolto alcuna indagine in ordine al rischio del suo assoggettamento ad una punizione per il rifiuto di onorare la tradizione del levirato ed alla situazione determinatasi nel Paese di origine dopo la sua partenza.

Con il terzo motivo il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6 e art. 19, comma 1 e degli artt. 2 e 10 Cost. nonchè l’omesso esame di un punto controverso e decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, senza svolgere alcuna indagine in ordine alla condizione di vulnerabilità in cui esso ricorrente verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, per effetto della situazione politica esistente nel suo Paese di origine e delle sue difficoltà economiche;

la Corte territoriale ha altresì omesso di tener conto dello stabile radicamento di esso ricorrente in Italia, derivante dal reperimento di una stabile occupazione e dalla frequentazione di corsi di formazione, trascurando inoltre le difficoltà materiali, economiche e sociali in cui verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio.

I primi due motivi possono essere affrontati congiuntamente, in quanto connessi, e sono fondati, nei termini che seguono. Nel caso di specie, il ricorrente, persona dotata di una certa scolarizzazione, cittadino del (OMISSIS) in cui ha ampia diffusione l’HIV, ha rifiutato di rispettare la pratica religiosa e sociale del levirato e così di sposare la moglie vedova di suo fratello, morto affetto da malattia sessualmente trasmissibile contratta a seguito di rapporti avuti con la moglie, appartenente a famiglia importante, e ha subito minacce di morte e torture da parte di quest’ultima. Tali fatti sono pacifici e accertati dalla stessa Corte d’appello di Napoli. Orbene, in tema di protezione internazionale, questa Corte ha già avuto modo di affermare che la costrizione ad un matrimonio non voluto costituisce una grave violazione della dignità umana, e quindi un trattamento degradante idoneo a giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), in quanto la minaccia di un danno grave richiesta da tale disposizione può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorchè le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire una protezione adeguata (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2016 n. 25463; Cass., Sez. I, 18/11/2013, n. 25873).

La statuizione del giudice del merito secondo cui le tre ipotesi prefigurate per la concessione della protezione sussidiaria sarebbero escluse alla luce del radicalmente nuovo contesto socio-politico del (OMISSIS) confermato dal rapporto di Amnestey International 2016/2017 collide con i principi giurisprudenziali che precedono, che confermano come la costrizione al vincolo matrimoniale sia nei confronti di una donna che di un uomo, può giungere al livello di danno grave rilevante ai fini del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Inoltre, questa condizione rileva anche se la costrizione proviene da privati e non direttamente dallo Stato, in presenza di obbligazioni positive di impedire tali comportamenti gravemente lesivi, e la motivazione del giudice di merito non chiarisce come il mutamento del regime politico (OMISSIS) abbia in concreto inciso sulla capacità di contrastare la radicata pratica religiosa e sociale del levirato da cui risulta attinto il ricorrente. E’ pertanto fondato il secondo motivo.

– Inoltre, con riferimento alla pratica del levirato, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto sussistenti in determinati casi anche i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7. Si è in particolare affermato che le limitazioni al godimento dei propri diritti fondamentali attuate ai danni di una donna, a causa del suo rifiuto di attenersi alla consuetudine religiosa locale che, in caso di vedovanza, impone il matrimonio con il fratello del marito defunto, si configurano come atti di persecuzione basati sul genere, riconducibili alla nozione di violenza domestica di cui all’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, anche nel caso in cui le autorità tribali del luogo abbiano consentito alla donna di sottrarsi al matrimonio forzato, ma a condizione che si allontanasse dal villaggio, abbandonando i propri figli ed i propri beni (cfr. Cass., Sez. I, 24/11/2017, n. 28152).

La sentenza da ultimo citata ha precisato che simili atti, anche se posti in essere da autorità non statali, integrano ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), i presupposti della persecuzione di cui al successivo art. 7, se ciò che va accertato in concreto – le autorità statali non le contrastino o non forniscano protezione, in quanto frutto di regole consuetudinarie locali. In proposito sono di rilievo le linee guida dell’UNHCR del 7 maggio 2002 sulla persecuzione basata sul genere, il cui punto 25 specifica che si ha persecuzione anche quando una donna, e lo stesso vale per l’uomo, viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali legate al suo genere.

Pertanto, collide su di un piano logico con la giurisprudenza della Corte già richiamata anche la statuizione generale contenuta nella sentenza impugnata secondo cui una connotazione etnica o religiosa della persecuzione sarebbe configurabile solo quando il perseguitato e i persecutori appartengano ad etnie o comunità religiose diverse, con conseguente fondatezza anche del primo motivo.

Infine, va considerato che nella presente fattispecie il perseguitato è di genere maschile, e ciò porta ad escludere l’applicazione della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e lotta contro la violazione nei confronti delle donne e la violenza domestica ai fini della tutela dei rifugiati, e la qualificazione della fattispecie può meglio trovare sede nell’ambito della protezione sussidiaria, all’esito della doverosa acquisizione da parte del giudice del merito di specifiche COI, in termini di “danno grave” per “trattamento inumano o degradante” ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. b). Ovvero la qualificazione può individuarsi anche nella grave violazione della dignità della persona, trattandosi di coercizione esercitata mediante minaccia su una persona (donna o uomo) finalizzata a contrarre un matrimonio forzato in base a norme consuetudinarie del Paese d’origine, proveniente anche da soggetti diversi dallo Stato, qualora le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato, o una sua parte consistente, non possano o non vogliano fornire protezione adeguata (cfr. Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 6573 del 09/03/2020, Rv. 657087 – 01, fattispecie relativa a cittadino maliano di sesso maschile, musulmano e poligamico, che aveva allegato di temere di essere ucciso dai familiari anziani ove, facendo ritorno al proprio villaggio, non avesse contratto matrimonio anche con la vedova del proprio fratello). La Corte evidenzia infine che il rischio di danno grave dev’essere valutato nello specifico caso concreto, avuto riguardo anche per il fatto che il sesso maschile del richiedente, per tradizione religiosa, sociale ed istruzione, implica una condizione potenzialmente meno rischiosa della omologa condizione femminile, quanto a capacità di resistere alla eventuale ritorsione del nucleo cui appartiene il familiare cui ha rifiutato di congiungersi.

L’accoglimento dei primi due motivi nei termini di cui si è detto comporta l’assorbimento del terzo e la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, anche per le spese.

P.Q.M.

La Corte, accoglie i motivi primo e secondo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

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